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Gli ultimi messaggi del Forum

Il tempo della tua vita - Giacomo Pini

«[…] Costruire e distruggere, costruire e distruggere, costruire e distruggere per un solo attimo felice. Attimo che a sua volta sarà costruito e distrutto dalle convinzioni di essere padroni del tempo e degli attimi di tutto quel che ci circonda.»

È giovane, bella e felicemente imperfetta, Federica. Lavora nella libreria cittadina del luogo in cui si è trasferita, la sua vita è fatta di un passato burrascoso di cui non ama parlare e di un presente abitato da poche e semplici certezze e consuetudini. Tra queste vi è Mattia, il collega di lavoro a cui è particolarmente legata e che ogni mattina la aspetta con la tazza di caffè da asporto fumante. Ed è proprio su quella tazza che ogni mattina egli le augura il buongiorno con una semplice frase: “sorridi… è il tempo della tua vita”. Un monito ad affrontare con il giusto spirito non solo le ore successive ma anche il futuro venturo, quel che verrà. Ad attendere il duo al lavoro vi è Paul, proprietario della libreria nonché romanziere che aiuta anche Mattia a coronare il suo sogno di diventare scrittore.
Due volti complementari sono Mattia e Federica. Se lui rappresenta la possibilità, l’attenzione al piccolo gesto, l’amare per quel che il sentimento è andando oltre a quelle che sono le apparenze dettate da usi e costumi, le imperfezioni, gli sbagli, le cadute, ella rappresenta il volto più complesso ed è capace di farsi amare quanto odiare suscitando empatia anche nelle situazioni più ostiche. Lo scorrere delle giornate non risparmierà i protagonisti, saranno tante le difficoltà che si troveranno ad affrontare e che li porteranno a conoscere davvero il tempo della loro vita. Da un passato che torna a bussare alla porta, alla rinascita passando dalla perdita.

«[…] I sentimenti che provi portali sempre con te. Ascoltali. Non rinnegarti niente, non privarti della tua felicità. Segui le emozioni e se sarà necessario sbaglia.»

“Il tempo della tua vita” è un libro che offre al suo lettore tanti spunti di riflessione e che insegna a non temere l’incompletezza, la mancanza, l’errare. È un libro che per mezzo della voce di una donna allo sbaraglio, che ha perso i punti fermi, che mente spudoratamente, che è egoista e immatura, ci ricorda che non si può scappare sempre. Da quel che verrà, da noi stessi, da quel che siamo, da tutto ciò che ci circonda.
Tuttavia, la più grande caratteristica di “Il tempo della tua vita” è quella di saper emozionare. Il lettore cammina passo passo con i due protagonisti, è trascinato dal loro vissuto, è coinvolto dall’evolversi del legame e dalla maturazione dei personaggi. Un eroe per eccellenza, un antieroe per eccellenza e tutta una serie di voci che nel loro intrecciarsi rendono tangibile e vivo il testo.
Per me si è trattata di una rilettura a distanza di un decennio dalla prima ma le riflessioni ed emozioni sono state egualmente vivide seppur con dieci anni di vita in più. Alle prime provate, se possibile, se sono aggiunte semplicemente di nuove e più accorte.
Un romanzo che chiama, arriva, trattiene e resta nella sua semplice complessità.

«[…] Un’emozione non si può scegliere, lui me la faceva vivere.»

L'incantatore di satelliti - racconto di Diene Mame Bougouma

Libro molto particolare, che fa molto riflettere.
Unico nel suo genere. Un incrocio tra attualità, fantascienza, splatter ed introspettività.
Potrebbe risultare poco scorrevole, ma secondo me vale la pena di leggerlo.
"L'universo è vita,
L'universo è anima,
L'universo è amore"

Nei panni di Valeria - Elísabet Benavent

Ho letto questo libro per pura curiosità dopo aver visto la serie su Netflix, pensavo non mi avrebbe presa conoscendo già la storia e invece sono rimasta attaccata ad ogni pagina fino ad arrivare alla fine. Come spesso, o sempre, accade il libro è diverso dalla versione televisiva e/o cinematografica, nonostante un po' di smarrimento iniziale per alcune sostanziali differenze rispetto alla versione di Netflix, ho apprezzato davvero tantissimo questo libro e non vedo l'ora di leggere gli altri capitoli. Elisabet ha una scrittura veramente piacevole e scorrevole, per niente pesante e sa usare le parole giuste senza essere troppo ripetitiva. Non avevo molte speranze che potesse piacermi, prima di leggerlo, ma devo dire che ne sono rimasta piacevolmente sorpresa!

La portalettere - Francesca Giannone

"La Portalettere" è un’opera completamente priva di stile e come tale, salvo rare e lodevoli eccezioni, è da derubricarsi nella letteratura di genere “rosa”, dato che in Italia i generi si distinguono con i colori. "Quando leggo un romanzo", diceva Céline (e iddio solo sa quanto mi stia sullo stomaco), "ricerco lo stile dell’autore perché di storie è pieno il mondo". Lo stile, per dirlo in breve, è la somma non algebrica tra diversi addendi: la "forma mentis" dell’autore (spesso la mancanza di sanità mentale ha creato capolavori), l’"ésprit du temps" (la lingua che viene usata sia nell’ambiente ristretto dell’autore, sia nel mondo che accoglie fisicamente l’autore in un dato periodo), sia l’"intentio auctoris" (di cui Flaubert era un maniaco ovvero la cura per ogni singola frase e, anche, il significato che si cerca scrivendo: è lavoro? Si viene pagati a pagine? Sono convinto di scrivere l’opera di riferimento per il prossimo millennio?). In tutta l’opera ho individuato solo una frase di stile, in prima pagina: "Umido di afa, il vento faceva oscillare le foglie della grande palma al centro della piazza deserta". È un po’ poco per un libro che, seppur generosamente rilegato, supera le quattrocento pagine. Il resto è scrittura, solida, banale.
   Le avvisaglie comunque erano già nella prima riga: "La notizia si diffuse come un lampo lungo ogni strada e vicolo del paese". Chi non ha studiato letteratura non noterà forse niente di particolare ma per coloro che hanno, invece, studiato non sarebbe necessario sottolineare quanto quest’incipit sia tremendo.

1) La similitudine come un lampo è banale ed è corredo dell’italiano standard. Delle due, l’una: o l’autrice l’ha messo inavvertitamente e non ha notato niente di strano e quindi non è una grande scrittrice (il che non vuol dire che non sappia scrivere o che sia una brutta persona), oppure l’intenzione dell’autore è parodica, un po’ come se si iniziasse un racconto con un incipit chiaramente rubato come "Quel ramo del lago di Como" (e in effetti, questa sì, è una frase di stile). Cosa avrebbe potuto metterci? Prendiamo a prestito Flaubert che pure è citato nel libro, mettiamoci un bell’avverbio pesantissimo che in italiano forse abbiamo: velocemente, celermente, rapidamente, lestamente, prontamente, sollecitamente, sveltamente, alla presta, tempestivamente, ci stiamo avvicinando ma che dire di rattamente (un po’ vecchio), istantaneamente (ci siamo quasi), fulmineamente (!), subitaneamente (!!) e, buon ultimo, repentinamente?

2) L’uso del passato remoto. Il romanzo, sin dalla sua nascita (ma NON nella sua evoluzione) ha un uso prediletto di questo tempo. Esso significa che qualcosa è avvenuto, è finito ed adesso ne cogliamo i frutti oppure ne aggiustiamo i danni. La caratteristica principale del passato remoto è che è rassicurante. È un dato di fatto che pone il lettore e l’autore entrambi con le spalle al muro evitando di farsi domande, quelle domande che invece la letteratura dovrebbe stimolare. Il passato remoto è la risposta. State per leggere una storia fatta e finita, prendere o lasciare. C’è chi prende e c’è chi lascia.

   Perché c’è chi lascia? È presto detto: perché negli Stati Uniti i fumetti di avventura e di guerra sono stati sostituiti dai supereroi? Perché la quotidianità non ha niente di interessante. A farci caso i grandi romanzi ottocenteschi sono pieni di supereroi: il popolo di Balzac obbediva e subiva delle leggi della società che per la prima volta venivano narrate in maniera quasi sistematica. Il popolo di Zola erano dei campioni di sfortuna. Il popolo di Flaubert erano dei campioni del niente che realizzavano che ingrandendo il proprio io a dismisura non li avrebbe portati letteralmente (è il caso di dirlo) da nessuna parte. Ne "La Portalettere" i nomi sono tutti assolutamente dimenticabili: Carlo, Antonio e Anna. L’autrice ci aggiunge un’altra ventina di comprimari, mio nonno li avrebbe chiamati Cecco, Beppe e Tonio. Perbacco, mettici un nome memorabile tipo Agamennone o Baldassare anche così per variare. Dopo poche pagine si comincia a perdere i riferimenti: chi è Carlo? Chi è Daniele? Chi è Lorenza?
   La descrizione dei personaggi langue e quindi ci si perde neanche tanto volentieri, quello che fanno è vivere la loro vita, si amano, lavorano, si lasciano, si riprendono ma, ahimè, a meno che non si riesca a legare il lettore a un determinato personaggio, ciò che questo personaggio fa, e non è mai e poi mai niente di che, diventa incredibilmente non interessante. L’ama. Chi?, ah. Non l’ama, chi? Ah. Muore, chi? Ah. È per questo che si lascia un romanzo, che io ho letto perché essendo “di moda” volevo vedere cosa ci fosse scritto e confrontarmi ogni tanto con un libro “di cassetta”.
   
   Ci sono dei momenti particolarmente negativi, ne cito due per tutti: a pagina 17 c’è una sinestesia: "Si lisciò prima i baffi e con gli occhi chiusi s’inebriò di quell’odore speciale che il suo paese aveva sempre avuto, un miscuglio di pasta fresca, origano, terra bagnata e vino rosso". A parte che essendo toscano quando si parla di vino tendo ad inalberarmi. Immaginiamo la scena, lui e lei scendono nella piazza del paesello rigorosamente in pieno meriggio perché al sud fa sempre caldo (stereotipo). Lui e lei abitavano in Liguria (mica a Oslo) ed adesso sono in provincia di Lecce. Ma davvero camminando per le strade di un piccolo paese salentino si sente l’odore di pasta fresca, origano e vino rosso? L’unica possibilità è che il torpedone avesse avuto un incidente e fosse finito dentro un’osteria, sterminando tutti gli avventori. Ma perché non si può scrivere: "Si lisciò prima i baffi e con gli occhi chiusi si inebriò al ricordo di quell’odore speciale che stava per rivivere: un miscuglio ecc…"?
   L’altro è a pagina 205: La mattina del 25 novembre, nella cabina elettorale, Anna prese la matita e indugiò a lungo fissando la scheda. Poi tracciò una croce sul simbolo del Partito Comunista. Nessuno lo avrebbe mai saputo, all’infuori di lei stessa. E nient’altro contava. Come? Cosa? Stragulp! In un paesello rurale del Salento appena dopo guerra? Su cento voti ci saranno stati si e no dieci voti comunisti e tutti sapevano chi fossero. TUTTI avrebbero saputo che c’era un voto in più e di chi era. Chi era comunista in campagna e al sud, a quei tempi, doveva stare in casa con il fucile pronto. Da qui si vede che l’autrice è di giovane età. Ovviamente posso sbagliarmi e che Lizzanello sia stato nell'immediato dopo guerra un paese con una mentalità relativamente moderna ma ancora nel 1958, vado a memoria, Ugo Gregoretti fece un documentario sui lavoratori dei latifondi siciliani, gente che viveva in baracche mentre a Milano sfilavano Balenciaga e le sorelle Fontana (citate nel libro) e che non aveva la minima idea di cosa fosse l’ormai decennale Repubblica Italiana e che, in tutta probabilità, non erano nemmeno segnati all’anagrafe, come gli animali da cortile. C’è su YouTube.
   La letteratura di genere, tuttavia, è questa: personaggi senza profondità con nomi banali che vivono la loro vita che le persone leggono per evitare l’impegno e confrontarsi con la complessità dello scibile. Ed è umano e comprensibile che la gente non abbia la minima intenzione di farsi nuove domande senza aver prima risposto a quelle questioni che sono già aperte sul tavolo in attesa di risposta. Ma non viene anche a voi in bocca il sapore di tempo perso per non aver imparato nulla?

I miei stupidi intenti - Bernardo Zannoni

«Ma come in quel momento mi sentii più perduto, e debole, e invisibile.»

Archy è una faina. Una faina figlia di una madre anaffettiva e priva di amore verso i propri figli e fratello di altre faine che da quella stessa madre sono odiate e ritenute inutili. Perché deboli, perché obblighi, perché nati quasi per rubare ossigeno ed energie. Il padre di questi fratelli è assente e la madre non esita a sbarazzarsi di chi nasce inutile o nel tempo lo diventa. Questa è la stessa sorte di Archy, Archy che tra queste pagine racconta la sua storia ma narra anche di quelle sorti che lo portano ad essere allontanato proprio da quella madre. Una madre che non esita a venderlo alla volpe, Solomon, per qualche provvista e per togliersi il peso di quel figlio ormai zoppo. Perché Archy cade nel tentativo di dare la caccia a un nido, cade proprio da quel nido posto ad alte altezze e da quel momento resta menomato. La sua zoppia lo accompagnerà a vita. Da questo momento ha inizio il suo percorso con Solomon e Gioele, il cane della volpe. Usuraia e furba è la volpe che introduce la faina alla parola di Dio.

«Il prima e il dopo non si erano mescolati, uno aveva soffocato l’altro annullando la differenza.»

Da questi brevi assunti ha inizio la crescita e lo sviluppo del libro ma anche la sua stessa evoluzione. La storia narrata dalla faina prenderà una sua forma e una sua connotazione, ma procederà passo passo tra perdite, riflessioni, analisi e tematiche forti ivi comprese quelle relative alla religione, alla famiglia.

«Il loro sonno, così tranquillo, mi impressionò. Non capivo se quella vita fosse orribile o meno, se essere confinati in un recinto confortasse o avvilisse. Da dove li stavo guardando io, ne avevo pietà, così come gli altri; eppure quei musi suggerivano che loro ne avessero di noi.»

È possibile accettare se stessi per come si è? È possibile far della propria esistenza una ragione essenziale del vivere e per vivere? È possibile che l’esistenza non sia soltanto qualcosa di fine a se stesso? Per Zannoni Archy non è altro che un pretesto, un artificio consolidato da sempre, un artificio narrativo per porsi e porre al prossimo domande sull’esistenza. Zannoni fonde instintualità e ragione, fonde il vivere con il sopravvivere, i legami affettivi, l’anaffettività, la responsabilità e la morte. Cosa allontana e/o avvicina l’uomo alla bestia?
Bernardo Zannoni, tra filosofia e riflessione, narra della tensione interiore che tiene perennemente Archy in bilico. Lo porta ad elevarsi alla dimensione umana tanto che giunge anche a domandarsi chi è Dio. Archy finisce con il sentirsi quasi più umano che bestia, sente perfino il senso di colpa per questo suo lato più bestiale e istintivo. Si tortura perfino per alcuni suoni comportamenti che altro non sono che insiti alla sua natura.

«Anche io mi sento così, disse.
Mi girai verso di lui.
Così come?
Desolato. Abbandonato»

Tante le strade che percorrerà Archy nel suo vivere. Strade che lo porteranno a perdere amori, la sua famiglia, che lo porteranno a imparare a leggere e scrivere, a scoprire dell’amicizia, a instaurare determinati rapporti, a cadere e a rialzarsi. Tra presente e passato. Tra altri animali del presente e del passato. Tra maestri di vita e perdite. Legami sfilacciati e cadute.

«Questo è il mio ultimo stupido intento: scappare, come tutti dall’inevitabile. Semmai Klaus tornerà che dia il mio corpo alla terra, o al fiume.»

Spare - Prince Harry

Che fatica!
Non ho per nulla apprezzato questo libro, non tanto per il racconto, ma per una difficoltà di lettura, alla faccia del ghostwriter miglior premio!
Obiettivamente penso che sia stato sbagliato da parte di Harry lanciare sul mercato un libro di questa portata.
Spero solo che non abbia per lui un effetto boomerang.

Rancore - Gianrico Carofiglio

Rancore è un libro che ti coinvolge fin da subito. Tratta la storia di un medico, morto apparentemente di morte naturale e per questo motivo la figlia ingaggia una detective privata per capire se qualcuno abbia ucciso suo padre e perché.
Carofiglio merita davvero la lettura!

Elisabetta - Vittorio Sabadin

La storia inglese è una delle mie più grandi passioni, tra le tante letture che volevo approfondire sulla casata dei Windsor ho deciso di cominciare da questo libro, Elisabetta: l’ultima regina.
Dalla prima pagina fino alla fine del libro lo scrittore, Vittorio Sabadin, si contraddistingue per la sua meravigliosa scrittura, ripercorrendo tutta la storia di Elisabetta II fino al suo 70esimo anno di giubileo.
Tante chicche le conoscevo già ma grazie ai suoi aneddoti ho potuto scoprirne delle altre.
È stata una sorpresa per me aver trovato anche notizie sull’abdicazione di Edoardo VIII e la liason con la sua futura moglie, Wallis Simpson.
Mi è piaciuto che non abbia mai preso posizione durante il racconto dei vari componenti della famiglia reale.
Lo consiglio!

CSS - Gianluca Troiani

Pratico, molto pratico per chi vuole imparare subito. Consiglio, come ogni manualistica sui linguaggi di programmazione, di scrivere codice oltre che leggerlo. Così facendo assimili di più e più velocemente. Non valido per approfondimenti ma consigliato per chi inizia.

Giochi proibiti - François Boyer

«“Dov’è tuo padre?”.
“È morto”.
“E tua madre?”.
“È morta”.
“Perché piangi?” chiese Michel. […] “Aiutami, e poi vieni a mangiare a casa nostra”.
“E poi a dormire?”
“E poi anche a dormire”.»

François Boyer pubblica il suo “Giochi proibiti” nel 1947. Il libro è inizialmente ignorato tanto dai lettori quanto dalla critica. È solo dopo la trasposizione cinematografica di René Clément che torna alla ribalta e inizia ad avere successo. Ma attenzione, non è un libro che risparmia, non è un ennesimo libro sulla guerra per nessun motivo scontato. Al contrario è un romanzo crudele e folgorante che si focalizza e concentra sugli orrori della Seconda guerra mondiale e vi riesce per mezzo degli occhi di due bambini, Michel e Paulette. Due bambini, questi, investiti dalla guerra che osservano, sono travolti e privati di tutto da una guerra che non gli appartiene.
È il 1940, la piccola Paulette in questa estate e in una strada di campagna, vede morire i suoi genitori colpiti da una mitragliata aerea tedesca. È tempo di guerra, una guerra che porta sfollati, bombardamenti aerei, corpi umani lacerati e animali morti. I genitori di Paulette non sono da meno. Ella, nove anni, rimane di punto in bianco sola. Vaga Paulette, vaga tra la disperazione e la confusione generale. Vaga e ci descrive con i suoi occhi di bambina una prospettiva ignota, sconosciuta. Dalla sua altezza vede i talloni degli uomini, gli isterismi delle donne, non comprende le motivazioni, trasfigura ciò che è reale e lo trasforma in funzione di quelle che sono le sue priorità e i suoi bisogni. Ed è sempre per caso, in questo suo vagare, che approda al casale di Saint-Faix che si trova a cinque chilometri di distanza dalla strada maestra. Tuttavia, considerando l’epoca, potrebbe invece trovarsi in un altro mondo. Perché tanto quanto Saint-Faix vive in una sua realtà, altrettanto la Storia sembra disinteressarsene.

«Saint-Faix ignorava la Storia. E in quel giorno di giugno del 1940 fu chiaro che la Storia contraccambiava Saint-Faix con un identico disprezzo.»

È qui che vive una contadina dai modi altrettanto contadini e agri, Michel Dollé di anni dieci. Una volta incontrata Paulette nel bosco se la porta a casa. La guerra spezza, distrugge, nulla risparmia, al contrario i rapporti tra bambini sono rapidi ed immediati, semplici e diretti.
Ed è qui che iniziano i loro “Giochi proibiti”. Paulette è caratterizzata da un costante senso di distacco da tutto ciò che la circonda ma è anche affascinata dalla morte. Il loro gioco diventa, paradossalmente, quello di dare sepoltura ad ogni animale morto ponendo sopra ogni tomba una croce. Alcune scene possono essere disturbanti come quella della bambina bionda che balla con il cane morto, ma è davvero il mondo dei bambini quello non sano? O è forse il mondo adulto quello ipocrita che se ne frega della perdita dei più piccoli e della separazione e dolore che dissemina e semina nei cuori e nelle anime?
I giochi di Michel e Paulette sono intrisi di sacralità. I due seppelliscono gli animali a differenza dei genitori di Paulette che restano senza sepoltura. Onorare i defunti, ci ricordano i bambini, ha un prezzo e spesso è alto ma ha anche una certa sacralità che va rispettata proprio apponendo una croce sul luogo di riposo eterno.

«Chi non ha Dio non ha morale, chi non ha un prete non ha morale, chi non ha un tempio non ha morale, un senza morale è un amorale, un amorale è un immorale, evviva la morale, e mamma Dollé aveva concluso: “Ci fa la morale”.»

È possibile delineare un confine tra bene e male, innocenza e corruzione? L’opera di Boyer è un’opera dissacrante, senza confini, senza tempo. È uno scritto che imbarazza, spiazza, inizia alla vita, tocca il lettore con personaggi che non conoscono altro che la guerra, che sembrano aver dimenticato tutto quello che c’è stato prima e che non sembrano poter credere in un dopo.
È proprio la guerra il più assurdo dei “Giochi proibiti” che Michel e Paulette vivono sulla loro pelle mentre la crudeltà umana porta l’uomo ad uccidere l’altro uomo e tutto quello che trova sulla sua strada.
“Giochi proibiti” è un romanzo duro, disincantato, disilluso, che sullo sfondo ha sempre una crudeltà che viene narrata senza possibilità d’appello e in particolare senza forma alcuna di mediazione.

R: Le stanze buie - Francesca Diotallevi

Ho letto questo libro spibta dalla recensione di Sara e...sono rimasta piacevolmente sorpresa. Pur non essendo il genere di libri che io amo ( vicenda ambientata alla fine dell'Ottocento incentrata sulla psicologia del maggiordomo e i componenti della famiglia nobile) mi è piaciuto tantissimo. La scrittura è piacevole e la vicenda è non è mai scontata. Sono d'accordo con Sara, è un libro che merita di essere letto

Fame d'aria

«Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano.»

È una scelta coraggiosa quella di Daniele Mencarelli con “Fame d’aria”. Una scelta coraggiosa perché l’autore vede la storia e decide di trattarla, vede la sceneggiatura teatrale e decide di metterla in scena anche se questo significa addentrarsi nei meandri dello spettro autistico. Ed è proprio questo il tema che regge e conduce per quella che è la sua ultima fatica. Pietro Borzacchi e il figlio Jacopo sono in viaggio. Il loro obiettivo è la Puglia, luogo dove si rincontreranno con Bianca, attualmente nel milanese, la madre del ragazzo, per celebrare una data importante che segna “il dove tutto ha avuto inizio”. Tuttavia qualcosa va storto, la frizione della vecchia golf di Pietro non regge, è venerdì pomeriggio, loro devono essere a destinazione entro lunedì e sono spersi nel nulla tra paesini arroccati e luoghi incantevoli. Il paese più vicino dove vengono a ritrovarsi in attesa che Oliviero, il meccanico, sistemi il guasto è S. Anna del Sannio, un paesello di poche anime che non attende visitatori. Si trovano così ad alloggiare in un bar che un tempo era anche pensione di proprietà di Agata e qui conoscono anche Gaia, giovane e bella che va oltre la facciata. Perché Pietro e Jacopo non sono un padre e un figlio che vivono in quella che siamo abituati a considerare normalità. Jacopo è affetto da una forma di autismo a basso funzionamento che lo porta a vivere in un perenne stato neonatale. Sa pronunciare solo un “mhmm” che cambia di intensità a seconda delle richieste e nonostante i suoi diciotto anni deve essere cambiato, accudito, gestito. La cosa forse più semplice è farlo mangiare perché è un po’ come un orologio; si carica e parte in automatico. Pietro non sa più cosa sia essere. Vive in perenne accudimento del figlio, lo odia. Odia la situazione che stanno vivendo, odia dover fare, è pieno di rabbia ma nulla fa mancare a Jacopo. Vive una totale e completa forma di abnegazione ma comunque resta vigile e attento ai bisogni di quel figlio che è la sua condanna e che è così lontano dalle aspettative. Gaia, in questo senso, riuscirà a riportare alla luce il Pietro non PietroJacopo, il Pietro che vive, che sogna, che ha desideri come tutti. Si creeranno anche degli equivoci ma pian piano le crepe diventeranno crateri e ogni verità verrà alla luce.

«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui.»

Perché per Pietro la vita ha preso una piega inaspettata. La moglie laureata in scienze politiche ha dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura del figlio, su Pietro gravano le responsabilità e rappresenta al contempo l’unica fonte di entrata economica. Ma può bastare un solo stipendio a sopperire alle cure necessarie? Cosa succede quando la tua vita non è più tua e inizi a far debiti perché in qualche modo quelle cure proprio non puoi fargliele mancare ma non hai aiuti da nessuno, ancor meno dallo Stato, perché hai un contratto a tempo indeterminato con uno stipendio fisso, fidi su fidi e a differenza di altri figura che hai qualcosa mentre altri che lavorano in nero hanno aiuti su aiuti perché i soldi in casa li fanno entrare dalla porta sul retro? Come difendersi da un mondo che sembra chiuderti la porta in faccia? Come sopravvivere, come ricordarsi che esisti anche quando tu per primo non lo ricordi più?

«Dopo aver oltrepassato il boschetto, una radura affacciata sui monti.
Pietro, violentato dal destino, regredito a una vita senza bellezza, si porta una mano sulla bocca.
«Dio mio che meraviglia.»
Oltre al panorama, è l’aria, l’aria gonfia di tramonto, a rendere la visione un dono per gli occhi.
Un cielo azzurro che diventa arancio, sino al rosso infuocato del sole che cala.
Sembra di vivere un sogno.
Quelli dove Pietro si rifugia.
Ma questo non è un sogno.
E Gaia è fatta di carne, ed è qui accanto a lui.
«Grazie.»
Solo questo riesce a dirle.»

Daniele Mencarelli riesce in quello che spesso si vuole negare per comodità. È più facile immaginarsi questi genitori eroi in quel che è una non fortuna ma questi genitori, sono davvero eroi? Egli mostra il volto oscuro, un’altra faccia della medaglia, una medaglia in cui non si è altro che soli a convivere e combattere con un mostro più grande che non perdona e non cambia. Mencarelli ci solletica con una storia d’amore anche se in parvenza trasuda l’odio ma ci ricorda anche che non siamo che semplici esseri umani chiamati a convivere con una battaglia che non sempre più essere vinta. Vi riesce con un lungo racconto dai toni scanzonati, meno poetici ma ben cadenzati e studiati e dove nulla è lasciato al caso. Né come personaggi, né come parole. Parole che hanno tutte e indistintamente un peso, parole che ci fanno riflettere e ci fanno entrare per una porta sul retro che spesso resta chiusa. Anche la scelta di narrare la vicenda dal punto di vista del padre e non della madre non è causale. Non c’è vittimismo tra queste pagine, non c’è autocommiserazione, c’è emozione e sentimento, c’è una realtà che tocca e coinvolge.
Non è lo stesso Mencarelli del passato. L’autore conosce di questi luoghi e dello spettro autistico per contatti occorsi con la sua famiglia e i suoi figli, riesce a essere lo stesso, a firmare un’opera che lo rende riconoscibile ma dimostra anche una crescita e tanto coraggio. Per tema trattato ma anche per essere riuscito a staccarsi da una ideale trilogia (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) che ne ha consacrato il nome ma che stava iniziando a perdere della sua unicità. Una maturazione necessaria