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Tu che sei di me la miglior parte - Enrico Brizzi
Titolo shakespeariano per questo lungo romanzo di Enrico Brizzi. L’autore sceglie di giocare in casa, torna nell’amata Bologna e racconta l’infanzia e l’adolescenza di Tommaso. La storia inizia nel 1982, quando Tommy ha otto anni, e termina nel 1992. Lungo il percorso il ragazzo (che è anche il narratore) si legherà soprattutto a Ester (la ragazza amata) e a Raul (il suo peggior amico), iniziando un triangolo amoroso che si risolverà in un finale imprevedibile. L’elemento interessante del loro legame è che a tutti e tre manca, per diversi motivi, la figura paterna. Per loro, la strada per diventare uomini (e donne) si rivelerà lastricata di errori sanguinosi e cosparsa di lacrime. Come al solito, Brizzi scrive benissimo, ma il romanzo non è omogeneo. La prima parte è stupenda, almeno fino al terribile scherzo giocato a Pinzoglio che ho trovato eccessivo (anche perché sembra scritto dal Brizzi pulp di Bastogne, libro che non ho mai amato). La parte dedicata agli anni del liceo Caimani, poi, soffre il confronto col capolavoro Jack Frusciante. Alcuni dei protagonisti del libro d’esordio (Hoge, Alex, Martino, Adelaide) recitano in piccoli camei o vengono nominati solo di sfuggita, provocando comunque una certa emozione. Predominano qui, largamente, le pagine dedicate all’assunzione e allo spaccio di droga e ai riti della curva (iniziazione, agguati, torti subiti, vendette e discutibili codici d’onore). Il finale è invece bellissimo e, come detto, imprevedibile. In chiusura, non posso non lodare la bravura con cui Brizzi descrive tanti luoghi, più o meno noti, di Bologna, ma soprattutto il suo encomiabile lavoro di ricostruzione degli usi e costumi prevalenti negli anni in cui le vicende si svolgono. Abiti, calzature, pettinature, cibi, bevande, droghe assortite e soprattutto cinema, libri, canzoni e strumenti musicali diventano anch’essi protagonisti, rendendo ancor più autentiche e credibili le storie narrate. Un gradino sotto l’ultimo La primavera perfetta, ma comunque un romanzo da leggere Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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Resto qui - Marco Balzano
Mi sono imbattuta in questo libro poche settimane dopo aver visitato il lago di Resia e mi è sembrato naturale leggerne la storia. Mentre mi trovavo davanti al campanile sommerso, circondata da decine di persone che scattavano foto ricordo incuriositi e stupiti di trovare una costruzione far capolino dall'acqua, riuscivo a provare solo inquietudine. Pensare che sotto l'acqua della diga c'era un paese, con le sue persone, animali, mestieri, alberi ed edifici mi ha lasciato triste e con l'amaro in bocca. Gli stessi sentimenti li ho ritrovati tra le pagine di questo romanzo, bello e profondo da togliere il fiato. Tramite la vita travagliata di Trina ci fa scopriamo il passato recente di Curon, dell'Alto Adige e dell'Italia. Toccante come pochi, senza dubbio una delle migliori letture mai fatte in assoluto. Valentina Pifferati - 2 anni fa |
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La salita dei saponari - Cristina Cassar Scalia
Imitazione mal riuscita di Camilleri nell'uso del dialetto. Racconto piuttosto confuso e personaggi con scarso approfondimento psicologico. Finale da dimenticare. Giancarlo Mattei - 2 anni fa |
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La primavera perfetta - Enrico Brizzi
Enrico Brizzi non ammetterà mai, nemmeno sotto tortura, che il Luca Fanti protagonista del suo ultimo romanzo altri non sia che l’Alex del suo "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", invecchiato di 27 anni e ammaccato dalla vita. Troppe cose coincidono: l’origine bolognese, la famiglia di appartenenza (composta, in "Jack Frusciante", dal Cancelliere, dalla Mutter e dal Frère de lait; dal Capotreno, da Sandra e da Olli ne "La primavera perfetta"). Ci sarebbero anche il rock, il suicidio di un amico e tante altre storie, ma voglio fermarmi qui. Ciò che conta è che Brizzi scrive di nuovo un bellissimo romanzo, maturo, molto più classico nelle forme rispetto all’opera di esordio (non troverete, qui, quel fraseggio gergale e ricercato che caratterizzava l’opera prima, ma questo è diretta conseguenza del fatto che Brizzi è ormai autore affermato e sicuro dei propri mezzi, che non ha più bisogno di mostrare le sue funamboliche capacità letterarie e di stupire). Un romanzo peraltro lungo, ma assai scorrevole, triste a tratti ma mai deprimente. Un romanzo che parla principalmente del complicato rapporto che si instaura tra due fratelli maschi, ma anche di quelli non meno conflittuali tra padri e figli (Luca è contemporaneamente figlio, ma anche padre di un ragazzo e di una ragazza), tra mogli e mariti e tra vecchi amici. E non è finita qui: un posto di rilievo nella storia lo occupano sia il ciclismo, grande passione di Brizzi, sia la vita in una grande città come Milano, assai complicata per chi viene da una realtà più a misura d’uomo come quella di Bologna. Io l’ho trovato davvero appassionante, a tratti avvincente, spesso commovente. E poi c’è Luca, un grande personaggio: un antieroe che sbaglia tutto quello che un uomo può sbagliare ma che, alla fine, riesce a redimersi, grazie all’aiuto dei suoi amici, di un uomo d’altri tempi (Brenno) e di un fratello campione con cui ha un rapporto di amore-odio. Consiglio fortemente la lettura di questo romanzo, in particolar modo a chi ama le storie in cui i sentimenti giocano un ruolo fondamentale. Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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Il sole si spegne - Osamu Dazai
Credo che per comprendere al meglio questo libro ci sia bisogno di conoscere prima il contesto storico della sua ambientazione. Il Giappone di fine seconda guerra mondiale non ha niente a che vedere con quello che conosciamo adesso e lo stesso vale per i giapponesi. Se dovessi descrivere la storia con una sola parola direi decadenza, se dovessi descrivere cosa mi è rimasto dopo la lettura direi tristezza. Dalle pagine traspira chiaramente che per il suo scrittore non c'è più nulla per cui vale la pena di continuare a combattere, è meglio arrendersi alle circostanze e alla morte. Sicuramente non è la lettura che più vi consiglierei se state affrontando un brutto periodo... Valentina Pifferati - 2 anni fa |
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Chiedi alla polvere - John Fante
Cattura fino dall’incipit, questo straordinario romanzo di John Fante del 1939, il terzo del ciclo di Arturo Bandini, ma il secondo a essere pubblicato (La strada per Los Angeles fu rifiutato da tutti gli editori e fu pubblicato solo nel 1985). L’ironia amara delle prime righe e l’eccezionale descrizione emotiva della passeggiata lungo la Olive Street (in cui “le orrende casupole di legno trasudavano storie di omicidio”) fino al tuttora esistente Biltmore Hotel (con le file dei taxi in attesa dei ricchi clienti e le donne, bellissime ed eleganti, che escono dalla porta d’ingresso) mettono subito in chiaro al lettore che quello che sta per leggere è un romanzo che non dimenticherà. È vero, il testo è crudo (comunque molto meno di Aspetta primavera, Bandini e di La strada per Los Angeles, incredibilmente audaci per i tempi in cui furono scritti). È politicamente scorretto. È dedicato a quelle zone di Los Angeles povere, piene di insetti e polverose che erano Bunker Hill e i suoi dintorni, non certo a quelle ricche di Hollywood e Bel Air. Ed è altresì vero che il suo protagonista, Arturo Bandini (ma anche Camilla, Vera, Sammy, Hellfrick e molti altri personaggi) si comportano in un modo spesso detestabile. Tuttavia, proprio in questo risiede la forza del romanzo, nel riuscire a far appassionare il lettore alle vicende di uomini e donne traboccanti umanità. Arturo, in particolare, è carne e sangue: è pieno di difetti (è maleducato, razzista e spendaccione; è un cattolico imbottito di condizionamenti religiosi e, a tratti, si comporta come un misogino) ma anche di pregi (è generoso, romantico e, a modo suo, è capace di amare con gentilezza). Ma, soprattutto, l’incarnazione di Arturo proposta da questo romanzo (diversa da quelle precedenti) crede nella sua arte e spende la sua intera esistenza nell’inseguimento di un sogno: diventare uno scrittore di successo. Per raggiungere questo obiettivo si trasferisce dal Colorado, dove vive con la famiglia di origine italiana, a Los Angeles. Lo fa perché va cercando l’ispirazione o meglio, perché vuole vivere una vita che sia talmente ricca di esperienze e fatti e personaggi interessanti da poterla trasferire su carta e trasformarla in un grande romanzo. Per questo Arturo non è un uomo d’azione e appare spesso passivo: perché osserva, direi registra, ogni vicenda, con l’occhio di chi sa che poi elaborerà quella vicenda, fino a trasformarla in materia narrativa. Ogni pagina di questo libro (ancora oggi attualissimo, sia per i temi trattati sia per lo stile narrativo) è stupenda, e il romanzo è pieno zeppo di momenti memorabili: il bagno nelle acque dell’oceano (le cui onde sembrano in grado di bagnare persino il lettore, tanto le descrizioni di Fante sono potenti); l’immagine vivida di Camilla che esce dall’acqua; la scena dell’amore con Vera o, sempre con Vera, il momento in cui lei mostra ad Arturo le sue cicatrici; il terremoto vissuto a Long Beach (in cui il cattolico Arturo arriva a giudicare l’evento sismico una punizione di Dio per il suo peccato); le scene del fumo della marijuana con Camilla. Ma ci sono tantissimi altri momenti da ricordare, oltre a questi. La storia di amore e odio con Camilla è una delle più originali che mi sia mai capitato di leggere, così come originali sono i dialoghi di Arturo con la stessa Camilla. Fante sa dosare crudezza e poesia con una abilità che è solo dei grandi e in questo romanzo, per la prima volta, la trama è davvero coerente e potente (Aspetta la primavera, Bandini scritto in terza persona, è più una raccolta di straordinari racconti sull’adolescenza di Arturo, vissuta nella miseria più nera, oltre che un grande omaggio alla professione del padre, mentre La strada per Los Angeles è un formidabile esercizio narrazione a briglia sciolta). Non voglio aggiungere altri commenti che non siano un invito esplicito a leggere e rileggere questo romanzo (e anche gli altri del ciclo). Una doverosa avvertenza: leggete il prologo, scritto da John Fante, solo dopo aver letto il libro. Si tratta, infatti, di un racconto autonomo, che ha il pregio di spiegare l’origine del titolo, ma che ha il notevole difetto di riassumere il contenuto del romanzo e di anticiparne il finale. Concludendo: chiedete alla polvere della strada se questo romanzo è un capolavoro e lei vi risponderà che sì, lo è, senza ombra di dubbio. Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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La strada per Los Angeles - John Fante
È destinato a dividere i lettori in due schiere contrapposte, questo romanzo di John Fante, il primo del ciclo di Arturo Bandini ad essere scritto e l’ultimo a vedere la luce (fu pubblicato, postumo, nel 1985). Chi lo detesterà avrà molti argomenti a sostegno della sua tesi. L’Arturo qui ritratto, nel secondo capitolo della saga, è un perdigiorno incallito; è uno che passa da un lavoro all’altro senza sosta; è un ladruncolo; è un fanfarone che parla di Nietzsche e Schopenhauer con gente incolta e che si arrabbia quando i suoi interlocutori – semianalfabeti - non lo comprendono; è un onanista; è un ateo che non perde occasione di farsi beffe di tutto ciò che è cattolicesimo (da cui lo scontro costante con la madre e la sorella, che alla fine deruba); è una sorta di rivoluzionario che si dichiara comunista pur senza esserlo; è un violento; è un maschilista; è un autolesionista ai limiti del masochismo; è un razzista e chi più ne ha più ne metta. Ha tutti i difetti del mondo, Arturo Bandini. E questo già basterebbe per respingere tutti quei lettori che, nei libri che leggono, cercano – legittimamente - un protagonista in cui identificarsi. In più, il romanzo è scritto sotto forma di incessante flusso di coscienza e i pensieri al limite della follia di Arturo viaggiano in direzioni spesso imprevedibili, qualche volta davvero scioccanti. Chi invece lo amerà (e tra questi ci sono io), apprezzerà la straordinaria capacità di Fante di creare letteratura dal nulla. Basta il frego di un fiammifero su un muro, l’aria salmastra del porto, la vetrina di un negozio, la nebbia, qualsiasi cosa è fonte di ispirazione e consente a Fante di scrivere versi di una bellezza unica. Qualsiasi cosa prende vita, si anima, quando è trattata dalla sua penna. E poi non è vero che il romanzo non ha una trama. È, invece, la storia lucida e coerente di un giovane “ribelle con una causa”, colto esattamente nel momento in cui comprende il motivo per cui tutto quello che lo circonda gli provoca rabbia, frustrazione, senso di impotenza: il momento in cui capisce di essere uno scrittore. E, una volta compresa la sua reale aspirazione – e il suo talento - non si accontenterà di diventare uno scrittore qualunque, vorrà diventare il migliore. È un romanzo modernissimo, questo, perfino un metaromanzo in certi passaggi (come quello in cui Fante descrive - magnificamente - il processo di creazione del primo manoscritto di Arturo, con protagonista Arthur Banning. Romanzo fittizio, le cui prime esilaranti pagine sono trascritte fedelmente) che non raggiunge i livelli poetici di Chiedi alla polvere ma che è narrativamente superiore a un’infinità di libri di una banalità stordente che vengono pubblicati oggigiorno. Non sorprende il fatto che per quasi quaranta anni nessun editore abbia avuto il coraggio di pubblicarlo. Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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Aspetta primavera, Bandini - John Fante
Primo romanzo del ciclo di Arturo Bandini a essere pubblicato, nel 1938. Chi ha già letto gli altri tre noterà subito una differenza: è narrato in terza persona. Questo deriva senz’altro dall’indecisione dell’autore riguardo alla scelta del vero protagonista della vicenda: Arturo Bandini o il padre Svevo? Non a caso l’incipit si apre con il muratore Svevo Bandini che, con le scarpe sfondate, rattoppate con la carta di scatole di pasta non pagate, avanza “scalciando la neve profonda”. L’inverno freddissimo del Colorado è un altro protagonista della storia. Un inverno che non dà tregua e costringe il muratore Svevo a mesi di inattività non retribuita, durante i quali la sua famiglia fa la fame. Nella miseria e nella disperazione cresce Arturo, maturando un odio totale verso la madre (donna debole e succube delle proprie convinzioni religiose) e verso la sua condizione di immigrato di origine italiana (“di nome faceva Arturo, ma avrebbe preferito chiamarsi John. Di cognome faceva Bandini, ma lui avrebbe preferito chiamarsi Jones. Suo padre e sua madre erano italiani, ma lui avrebbe preferito essere americano”). È un romanzo duro, crudo (nella seconda pagina ci sono ben tre bestemmie), spesso violento e a tratti audace, la cui pubblicazione credo abbia richiesto un certo coraggio da parte dell’editore, ma è il primo capolavoro di John Fante e vale davvero la pena leggerlo. Ogni sua pagina è intrisa di passione e tanti passaggi raggiungono alte vette poetiche. Bellissime sono le scene ambientate nella scuola (che gran personaggio suor Mary Celia, col suo occhio di vetro; che grandi personaggi sono i compagni di scuola di Arturo). Stupendo è il capitolo otto, quello dedicato alla storia di sesso tra Svevo e la ricca, e affascinante, Effie Hildegarde. Commovente è la narrazione dell’amore (non corrisposto) di Arturo per Rosa. Spietato il racconto dell’umiliazione di Mary, costretta ad acquistare merci a credito senza avere mai soldi per saldare il conto. Crudele il ritratto della madre di Mary, donna davvero detestabile. Un romanzo da leggere assolutamente, quindi, anche se leggermente inferiore a Chiedi alla polvere. Perché inferiore? Perché, innanzitutto, mentre Aspetta primavera sembra più una raccolta (anche se perfettamente organica) di racconti, Chiedi alla polvere è un romanzo fatto e finito. Inoltre, l’indecisione di Aspetta primavera (il romanzo è la celebrazione del mestiere di Svevo o la narrazione dell’adolescenza di Arturo?) in Chiedi alla polvere scompare, e il lettore è catapultato nella mente di un Arturo ormai deciso a diventare un grande scrittore, con effetti di coinvolgimento maggiori. Fante, nella prefazione, dice che “tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera” e, se lo dice lui, perché non credergli? Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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Acquanera - di Valentina D'Urbano
"Acquanera" è il secondo romanzo di Valentina d’Urbano. Viene dato alle stampe dopo l’ottimo esordio de "Il rumore dei tuoi passi" (che può vantare uno degli incipit più belli che mi sia capitato di leggere) e conferma i tanti pregi (e i pochi difetti) della scrittrice e illustratrice romana. Il romanzo è certo una storia di fantasmi, cimiteri e obitori, e ognuna delle sue 360 pagine trasuda inquietudine, cupezza e presenza della morte, ma è anche e soprattutto la storia di quattro generazioni di donne. Clara, Elsa, Onda e Fortuna sono tutte dotate di poteri paranormali, che vanno dalla capacità di vedere i morti e di parlare con loro (posseduta dalla medium Onda), all’abilità di Clara ed Elsa nel preparare unguenti e bevande miracolose, fino alle doti del tutto particolari di Fortuna, di cui non parlo per non spoilerare la trama. Il libro racconta la storia di ognuna di queste donne e si sofferma, in particolare, su quella di Fortuna, facendosi in questo senso romanzo di formazione. Fortuna cresce sperimentando l’odio e l’emarginazione pur non avendo, in apparenza, alcun potere sovrannaturale. Sconta la sua appartenenza a quella famiglia così inconsueta e la sua vita è un inferno, almeno fino a quando non incontra Luce, la figlia del guardiano del cimitero, anche lei odiata da tutti i bravi ragazzi, e le brave ragazze, del paese, per il suo aspetto sgradevole e per il suo odore fastidioso. L’amicizia con Luce (ragazza il cui passato è come un’ombra che grava da sempre su di lei) diventerà sempre più profonda e si trasformerà in qualcosa che nessuna delle due potrà più controllare (evito ogni spoiler). Altro protagonista del romanzo è il lago. Un lago che è pieno di cadaveri (non solo di suicidi). Un lago le cui acque assumono colori che, quando appaiono limpidi e puri come nei sogni di Elsa, simboleggiano la morte, mentre quando appaiono scuri e fangosi, come nell’ambiente che circonda la capanna in cui vive Onda, significano ricerca di un luogo appartato, lontano dal mondo dei vivi. Un romanzo psicologico, quindi; caratterizzato da immagini potenti e da una trama che ha un gran ritmo (tanto che se ne potrebbe facilmente ricavare un film). Peccato per il finale, che è piuttosto discutibile e non all’altezza di ciò che è venuto prima. Un romanzo che sarebbe da leggere assolutamente, quindi, se non risentisse pesantemente di una tendenza della scrittrice che già si era intravista nel brillante esordio letterario: quella di far muovere i protagonisti come se fossero pesci in un acquario, prigionieri di un tempo che passa eppure sembra non passare mai, ingabbiati in un luogo in cui nulla di ciò che esiste al di fuori di esso può entrare (non c’è politica, non c’è cronaca se non quella che riguarda la trama, non c’è musica, non c’è neanche geografia, non c’è nient’altro che il mondo disperato di queste donne) né influenzare minimamente le loro vite. A pensarci bene, anche certe illustrazioni della d’Urbano sembrano avere questa caratteristica, ma con una differenza: sono meno monocromatiche rispetto alla sua scrittura, hanno più sfumature, e dimostrano un’attitudine all’ironia e al sarcasmo che in questi primi due libri non si è vista. Chi vuole leggere questo romanzo deve prepararsi: nessuna delle sue pagine concede tregua. Dolore, disperazione, morte, emarginazione dominano il testo dall’inizio alla fine, senza mai un’apertura o il minimo spiraglio. Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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Rumore bianco - Don DeLillo
Don Delillo è un grande scrittore. Lo è per la qualità eccelsa dei suoi testi, per la sua capacità di scrivere dialoghi sempre originali, per l'abilità di creare personaggi interessanti. Non a caso è citato quale fonte di ispirazione da molte scrittrici e scrittori assai quotati. I suoi romanzi, tuttavia, hanno spesso trame poco potenti, che non inchiodano il lettore alle pagine e che, in termini di importanza, soccombono di fronte al peso preponderante di situazioni sempre al limite della follia e di dialoghi lunghi e molto ben articolati. “Rumore bianco” non fa eccezione. Parte piuttosto in sordina, con una sezione intitolata “Onde e radiazioni”, un centinaio di pagine in cui ci vengono presentati i principali protagonisti. Sono pagine davvero lente e occorre un atto di fiducia nei confronti dello scrittore per proseguire oltre con la lettura. La scarsa empatia che Delillo, come suo solito, sembra provare nei confronti dei suoi personaggi, che tratta anzi con spietatezza, evidenziandone gli aspetti più sordidi e gretti, non aiuta a entrare in simbiosi con i protagonisti della storia narrata. Con l’inizio della seconda parte, intitolata “L’evento tossico aereo”, arriva un primo cambio di ritmo e si cominciano a delineare gli intenti, che l’ultima parte del romanzo, “Dylarama”, sviluppa ampiamente. Di cosa parla questo libro? Contrariamente a ciò che lascia intendere il titolo, il tema centrale non è l’invadenza della tecnologia nel mondo moderno, che pure esiste. Il tema centrale sono le vite di tutti noi. Vite minacciate dall’inquinamento (nube tossica), dalle onde elettromagnetiche che agiscono sulle cellule del corpo umano, dalla delinquenza (che rende necessario il possesso di armi per autodifesa). In un ambiente sempre più ostile, gli uomini conducono le loro giornate secondo il ciclo produzione (lavoro) - consumo (il culto del supermercato) - famiglia. Ma le famiglie sono sempre più frammentate (Jack, il protagonista, è al quarto matrimonio e vive con la moglie Babette e molti figli nati dalle precedenti relazioni). In questo contesto minaccioso, la paura dilaga. Paura della morte, soprattutto. Una paura che neppure la fede in una delle tante religioni possibili può alleviare. Quando una nuova medicina sperimentale (il Dylar appunto), una droga capace di annullare la paura della morte, irrompe sulla scena, niente sarà più lo stesso, fino all’imprevedibile, e poco credibile, finale, in cui tutto si ricompone. Un piccolo messaggio di speranza? Un romanzo da leggere quindi, ma con attenzione, perché neanche i dialoghi accelerano il ritmo (quello tra Jack e Murray sulla morte e sull’aldilà occupa più di dieci pagine). Meno folle di “Cosmopolis”, meno rarefatto di “Body art”, meno creativo di “Great Jones Street” ma più a fuoco di questi e dell’ultimo, brevissimo, “Il silenzio”, il romanzo piacerà a tutti i lettori che amano la ricerca estrema della parola giusta e l’originalità dei testi. Marco Ciampolini - 2 anni fa |
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