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La casa per bambini speciali di Miss Peregrine - Ransom Riggs
A volte è veramente difficile credere a quanto ci viene raccontato, soprattutto se il narrato ha a che fare con la possibilità che esistano terrificanti mostri bramosi di sangue, vendetta e potere. Questo Jacob lo sa molto bene, egli ha infatti per anni creduto che le storie enunciate dal nonno Abraham non fossero altro che le classiche favole inventate dall’adulto per tenere buono il bambino e perché no, svilupparne la fantasia. Ed è solo quando il corpo di Abe viene rinvenuto privo di vita a seguito di quello che viene catalogato come l’assalto di animali selvatici, che il nipote inizia a rendersi conto che forse non tutto quello che aveva recepito dal defunto era menzogna.
Ma c’è soltanto un modo per scoprirlo, ed è quello di recarsi sull’isola. Non sa cosa troverà, sa soltanto che deve andarvi, deve sciogliere la matassa, far luce sul mistero che per anni si è mantenuto intorno a quella figura così cara quale l’ebreo polacco era.
“La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” è un romanzo semplice, rapido e stilisticamente fluente. L’idea di partenza è buona così come interessante è lo sviluppo della stessa, due sono però le pecche che ho riscontrato: la prima si sostanzia nel fatto che per circa ¾ del romanzo la sensazione trasmessa dalla lettura è quella di trovarsi di fronte ad una smisurata introduzione, lo scritto incuriosisce ed invoglia chi legge ad andare avanti ma al tempo stesso lo sfianca e lo lascia con un non piacevole retrogusto di insoddisfazione perché l’azione, la svolta nel mistero sembra non arrivare mai; la seconda è determinata dal finale in quanto dopo questo abnorme preambolo l’epilogo giunge in nemmeno 60 pagine e dunque la soluzione all’enigma viene propinata in modo talmente rapido da non essere gustata, apprezzata come altrimenti si dovrebbe. Non solo, è chiaro che il testo nasce quale autoconclusivo e che soltanto quale conseguenza del successo ottenuto l’autore abbia optato per la stesura di un seguito, pertanto questa chiusa di battute poste in essere alla velocità della luce, proprio non va giu.
In conclusione, il primo volume della saga di Ransom Riggs si presenta piacevole ma non eccelso a fronte delle motivazioni proposte, pertanto, se ne consiglia la lettura a chi è in cerca di un libro rapido, con una trama gradevole ed un enigma capace di catturare l’attenzion, ma non impegnativo.
Maria Darida - 6 anni fa
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La ciociara - Alberto Moravia
«Così è la guerra, pensai: tutto sembra normale e invece, sotto sotto, il tarlo della guerra ha camminato e gli uomini hanno paura e scappano, mentre la campagna, lei, continua, indifferente, a buttar fuori frutta, grano, erba e piante come se nulla fosse»
Classe 1957, “La Ciociara” è il risultato dell’esperienza vissuta in prima persona da Moravia durante i nove mesi di permanenza in quel di Fondi, e più precisamente, del periodo intercorrente tra il settembre del 1943 ed il maggio del 1944.
Traendo spunto da un fatto realmente accaduto, l’autore introduce il personaggio di Cesira, contadina originaria della Ciociaria, trasferitasi a Roma a seguito del matrimonio con un pizzicagnolo, il quale venuto a mancare prematuramente le lascia in eredità non solo il negozio (a cui si somma un’attività di borsa nera sempre più promettente), non solo l’abitazione, ma anche, Rosetta, la figlia della coppia, giovane, ingenua, casta e pura.
A causa del sempre più costante e presente pericolo della guerra, la madre decide di abbandonare la capitale per tornare nella terra natia dai genitori. Sin dal principio il viaggio si dimostra essere ricco di rischi, minacce e azzardi, eppure, la donna non transige: a Roma non si torna, la campagna e, di poi, le montagne sono la sola destinazione, l’unico riparo a cui possono auspicare, e nulla e nessuno può farla desistere dal proposito.
Ma si sa, tutto ha un prezzo, tutto si paga e tutto il seminato pian piano ritorna. E’ così anche per Cesira e per Rosetta che tra quei monti tanto agognati, tra quei pastori tanto furbi e disperati, tra povertà ed ignoranza, cercano di sopravvivere, aggrappandosi, come tutti, alla speranza della liberazione, un giorno, e a quella della vittoria dei tedeschi, un altro.
Tra tutti, soltanto Michele, che è il personaggio chiave dell’opera, sembra essersi reso davvero conto di quel che significa la Guerra, di quel che questa realmente è e rappresenta. Perché quel che essa determina, lascia e comporta, non è soltanto la morte, ma anche e non di meno, una vera e propria devastazione dell’essere, un vero e proprio oltraggio alla cultura, alla tradizione, all’individuo, alla libertà, alla vita. Perché il conflitto colpisce l’onestà, la pietà, la ragione. E trasforma, muta, plasma a sua immagine e somiglianza sino a che non subentra la paura, un istinto primordiale che dall’interno consuma e divora ogni boccone di speranza, di buoni propositi, di futuro. Pochi si interrogano su quelle che sono le cause che hanno portato alle armi, l’unico pensiero è il cibo, sia quando c’è che quando non c’è, l’unico moto che spinge ad andare avanti è l’idea del domani. Siamo pedine in mano ad altri, alleati, nemici, presunti “amici”.
« ”Se tu sapessi di dover morire domani, parleresti di roba da mangiare?” “No”. “Ebbene, noi siamo in questa condizione. Domani o tra molti anni, non importa, moriremo. E dovremmo, dunque, in attesa della morte, parlare e occuparci di sciocchezze?” Io non capivo bene e insistetti: “Ma di che cosa dovremmo allora parlare?” Lui ci pensò ancora una volta e disse: ”Nella presente situazione in cui ci troviamo, per esempio, dovremmo parlare delle ragioni per cui siamo finiti qui.” “E quali sono queste ragioni?” Egli si mise a ridere e rispose: “Ciascuno di noi deve trovarle da sé, per conto suo”. Io dissi allora: ”Sarà, ma tuo padre parla di roba da mangiare appunto perché questa manca e si è, per così dire, costretti a pensarci per forza”. Lui concluse allora:” Può darsi. Il guaio si è, però, che mio padre parla sempre di roba da mangiare, anche quando c’è e non manca a nessuno”.»
Trascorrono i mesi e la tanto agognata liberazione si palesa. Giorni di festa sono quelli in cui gli americani distribuiscono le loro sicurezze effimere per, di poi, rilasciare nel baratro della disperazione gli sfollati e questi uomini e donne privati della loro quotidianità. E, allora, cosa può restare ora che anche il passaggio dei liberatori è giunto? Cosa aspettare, in cosa credere, adesso che questa aspettativa tramutata in attesa è venuta meno?
Attraverso un linguaggio forte, calato nei personaggi che nella loro semplicità sono concreti e tangibili, che nella loro genuinità dei modi e delle intuizioni si fanno amare ed odiare, abbracciare e consolare, che invitano chi legge ad entrare nel testo e spronare ad una reazione, ad una riflessione tra presente e passato, scelte ed ostinazioni, scelte ed altre scelte che avrebbero, chissà, forse potuto modificare gli avvenimenti, l’autore dà vita ad un romanzo che riesce pienamente a raggiungere il suo fine ultimo. E mediante questa penna rude che sa adattarsi alle origini di questa donna contadina ed umile, a questa madre che prima cerca di tutelare a trecentosessanta gradi la figlia per rendersi successivamente conto di esserne stata la rovina, tanto da cadere nella più profonda disperazione per quel colpo latente e profondo che colpisce al fianco, che conduce alla perdizione di sé, alla sventura, Moravia descrive il lascito di una guerra che non si ferma con il solo proclamo del “cessate le armi”, perché la guerra non è soltanto quel che è stato, la guerra è anche quel che è, ed una volta giunta al termine, si è perso in ogni caso, si è perso prima di tutto noi stessi, perché non sappiamo più chi siamo né chi eravamo.
E lo stupro, non è solo quello fisico, ma anche quello morale, di un paese privato della sua identità e che non può permettersi di non fare domande, di non cercare risposte….
«Si, lui, di certo, mi aveva spiegato in poche parole il senso della vita, che a noi vivi sfugge, ma per i morti deve essere, invece, chiaro e lampante; e la mia disgrazia aveva voluto che io non capissi quello che lui diceva, benché quel sogno fosse stato veramente una specie di miracolo; e i miracoli, si sa, sono miracoli appunto perché tutto vi può succedere, anche le cose più incredibili e rare. Il miracolo c’era stato, ma soltanto a metà: Michele mi era apparso e mi aveva impedito di uccidermi, era vero, ma io, per colpa mia di certo, perché non ne ero degna, non avevo inteso perché non avrei dovuto farlo. Così dovevo continuare a vivere; ma come prima, come sempre, non avrei mai saputo perché la vita era preferibile alla morte»
«Allora queste parole di Michele mi avevano lasciato incerta; adesso, invece, capivo che Michele aveva avuto ragione, e che per qualche tempo eravamo state morte anche noi due, Rosetta ed io, morte alla pietà che si deve agli altri e a sé stessi. Ma il dolore ci aveva salvate all’ultimo momento, e così, in certo modo, il passo di Lazzaro era buono anche per noi, poiché grazie al dolore, eravamo alla fine, uscite dalla guerra che ci chiudeva nella sua tomba di indifferenza e di malvagità ed avevamo ripreso a camminare nella nostra vita, la quale era forse una povera cosa piena di oscurità e di errore, ma purtuttavia la sola cosa che dovessimo vivere, come senza dubbio Michele ci avrebbe detto se fosse stato con noi»
Maria Darida - 5 anni fa
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La colonna di fuoco - Ken Follett
«Era sempre stata lì, ogni giorno della sua vita: solo il cielo sopra di essa cambiava con le stagioni. Gli diede una vaga ma potente sensazione di conforto. Le persone nascevano e morivano, le città prosperavano e tramontavano, le guerre cominciavano e finivano, ma la cattedrale di Kingsbridge sarebbe rimasta fino il giorno del giudizio»
Con “La colonna di fuoco”, classe 2017, giunge a termine la trilogia iniziata nel 1989 con “I Pilastri della Terra”, proseguita con il “Mondo senza fine” edito nel 2007 ed avente ad oggetto le vicende storiche tra il XII al XVI secolo.
Gli avvenimenti si aprono nel Gennaio del 1558 a Kingsbridge, città immaginaria inglese teatro delle avventure sin dal primo romanzo, con il ritorno a casa del diciottenne Ned Willard, dopo un anno di assenza e di permanenza in quel di Calais. La situazione sin da subito appare ben diversa da come l’aveva lasciata: se da un lato, problematiche di espansione e mantenimento territoriale si affacciano nella realtà del popolo britannico, dall’altro, il cuore del giovane è messo a dura prova vedendosi sottrarre, Margery, la donna che ama, a causa di un matrimonio combinato atto a garantire alla famiglia Fitzgerald, aristocratica, il titolo nobiliare. Mentre Ned è, infatti, un protestante e un commerciante, Bart Shiring, visconte di Shiring, cattolico, è considerato il pretendente perfetto per raggiungere l’obiettivo della famiglia. Della volontà della quindicenne, dei suoi sentimenti, non può tenersi conto, lo scopo finale ha priorità assoluta. E proprio per questo, non esistono scrupoli, tanto che i genitori decidono di far leva sulla profonda fede e devozione in Dio della futura moglie, pur di, strapparle la promessa di acconsentire all’unione.
Costretto a lasciare nuovamente Kingsbridge, ed ingaggiato da Sir William Cecil, il consigliere di Elisabetta Tudor che dopo la sua incoronazione vedrà tutta l’Europa rivolgerglisi contro e che affiderà a quest’ultimo il compito di creare una rete di spionaggio incaricata di proteggerla dai numerosi attacchi nemici, il protagonista si ritroverà ad essere uno degli uomini a far parte dei primi servizi segreti britannici esistenti. Il suo amore per la giovane Margery sembra ormai condannato, e per quasi mezzo secolo, questa condizione parrà essere procrastinata. Ma sarà davvero così?
Nel contempo, mentre la lotta tra cattolici e protestanti ha raggiunto livelli particolarmente infuocati, la Francia ha dichiarato guerra alla Spagna per il controllo del regno di Napoli e altri stati della penisola italiana, e l’Inghilterra si è schierata con la Spagna. La Francia, di fatto, riesce a riprendersi Calais ma non anche gli stati italiani tanto agognati.
In questo contesto si inserisce Pierre Aumande, figlio illegittimo di una mungitrice di Thonnance-les-Joinville residente a Parigi, che vivendo di espedienti, una volta al cospetto della famiglia Guisa non esita ad accettare l’incarico di ricerca dei protestanti. L’investigazione su questi ultimi, sui luoghi da loro frequentati ed in cui si riuniscono per celebrare i “riti blasfemi” nonché sui loro modi di diffusione del credo, porteranno all’introduzione della figura di Sylvie Palot, figlia di Giles e Isabelle Paolt, la cui casa è sita all’ombra della grande cattedrale di Notre-Dame, abitazione al cui pian terreno si colloca il negozio di famiglia, esercizio destinato alla vendita e produzione di libri. Altra unione politica fondamentale, sarà quella tra Francesco, quattordicenne figlio maggiore di Enrico II e della regina Caterina ed erede al trono di Francia, e Maria Stuarda, una rossa di straordinaria bellezza di appena quindici anni, regina di Scozia.
Sul versante di Siviglia, Barney Willard dovrà in primo luogo affrontare problemi legati alle persecuzioni religiose, assisteremo infatti a proclamazioni di ereticità avverso tutte le confessioni diverse dalla cattolica, ed in particolare, avverso la protestante e la musulmana. Ebrima, mandingo di origine, servo all’inizio del racconto, riuscirà a diventare un uomo libero, e dunque a realizzare il suo sogno.
E’ in questo scenario che si insinuano, ancora, le famiglie Wolman e Willemsen, atte a rappresentare i Paesi Bassi; è in questo scenario che gli estremisti clericali seminano volenza, sfruttando i diversi culti a proprio interesse e valenza, poiché fine essenziale è quello di imporre a prescindere da tutto, il potere e la supremazia, poiché fine essenziale è vincere sulla tolleranza e sul compromesso, nonché, piegarne i sostenitori.
Attraverso un linguaggio fluente, avvalorato altresì da una serie di personaggi ben costruiti che sanno amalgamarsi perfettamente ai protagonisti che hanno fatto la storia (a titolo esemplificativo possono annoverarsi tra i presenti: Maria Tudor, Elisabetta Tudor, Sir William Cecil, Sir William Allen, Sir Francis Walsingham, Enrico II, Caterina De Medici, Maria Stuarda, Giacomo Stuart, Giacomo VI di Scozia e re Giacommo I D’Inghilterra, e molti altri ancora), Ken Follett dà vita ad un romanzo storico di grande spessore, un elaborato completo sotto tutti i punti di vista, uno scritto che è capace di conquistare il cuore di lettori eterogenei, anche di quelli che non sono tra gli amanti del genere.
E vi riesce grazie ad un’impostazione chiara ed esaustiva, un’impostazione che tramite il mutamento di prospettiva (si passa dalla Gran Bretagna, alla Francia, passando per la Spagna e per i Paesi Bassi) nulla risparmia e nulla lascia al caso. Non solo. L’opera è completata da minuziose descrizioni (che consentono a chi legge di rivivere sulla pelle le avventure delineate) nonché da dialoghi ben calibrati e bilanciati tra loro, dialoghi che sono fondamentali per la delineazione degli eroi che colorano queste pagine. Il risultato finale è quello di trovarsi di fronte ad una perla di semplice e rara bellezza, una perla che seppur dipani le sue vicende in secoli turbolenti ma ad oggi lontani, in realtà si presenta e si palesa di grande attualità.
Questo, grazie anche – e non di meno – alle molteplici tematiche che vengono affrontate. L’inglese non si risparmia e con occhio acuto riesce a mixare problematiche quali il conflitto religioso, le guerre ivi relative, le ostilità radicabili nell’estremizzazione del concetto di razza, di sangue puro ed impuro, gli odi, le discriminazioni, le violenze del più forte sul più debole, la questione e posizione femminile, le lotte di potere e di avidità, ed anche quel desiderio sempre più pressante di libertà, una libertà sognata, irrealizzabile, e di poi conquistata, ma così difficile da mantenere…….. Perché, quando si può davvero affermare di essere liberi? Cos’è questo concetto così labile, inconcreto, intangibile eppure fondamentale per la vita di ognuno di noi? Quando possiamo veramente ritenerci privi di catene?
In conclusione, Ken Follett non delude e regala al grande pubblico la degna conclusione per una eccelsa trilogia. “La colonna di fuoco” si fa amare sin dalle prime battute e chiede a gran voce di essere letta perché sa che non scontenterà. Ed è proprio così. Non disillude, bensì, regala emozioni e riflessioni di non poco conto.
Maria Darida - 5 anni fa
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La donna abitata - Gioconda Belli
Lavinia è una studentessa di architettura presso la facoltà di Bologna che, una volta conseguiti questi, decide di tornare in patria, a Faguas, luogo ove trova impiego presso un prestigio studio. Si stabilisce altresì nella casa che la zia, con cui ha trascorso attimi essenziali della sua vita, ed ormai venuta a mancare, le ha lasciato. Detta manifestazione di indipendenza suscita il disappunto tanto dei genitori quanto del ceto dei “verdi” a cui ella appartiene. E’ inoltre qui che essa conosce Felipe, uomo affascinante con cui inevitabilmente inizia una relazione talvolta offuscata dai misteriosi impegni di questa figura a tratti sfuggente. Il primo pensiero va alla possibilità di un tradimento, alla possibilità di non essere la sola, alla possibilità che egli frequenti altre donne. Detto timore viene meno una notte come tante quando egli fa ritorno a casa con un uomo ferito da un colpo di arma da fuoco. E’ così che Lavinia scopre le attività segrete del compagno, è così che scopre che egli è impegnato nella lotta di liberazione tanto che, dopo un primo momento di sconcerto e terrore, arriverà a maturare il desiderio di entrare con lui in clandestinità.
Con “La Donna abitata” Gioconda Belli riesce, attraverso l’ambientazione in una ipotetica città dell’America Latina chiamata Faguas, a far rivivere al lettore quella che è stata la dittatura di Somoza. La storia non ha fretta, parte con calma e con calma si sviluppa, ben descrivendo quelle che sono le amicizie della protagonista, le sue ambizioni nonché l’universo ovattato che la congiunge e separa dalla povertà che la circonda. Una condizione, quest’ultima, che esiste ed è tangibile con mano seppure sia parallela a quella ricchezza che tenta di offuscarla facendo buon viso a cattivo gioco. Lavinia dal canto suo segue il modello occidentale europeo ed utilizza questo archetipo anche quale espediente giustificatorio volto a chi può permettersi di chiudere gli occhi innanzi all’indigenza altrui.
In queste prime premesse si inserisce Itzà, spirito di una guerriera atzeca, figura spontanea, genuina, concreta che non comprende e si spiega questa passività. Ella è inoltre un personaggio da non sottovalutare; con la sua autenticità si presenta stratificata, complessa, caratterizzata da mille sfaccettature. Rappresenta il passato, rappresenta il conio delle antiche tribù nonché lo strumento con cui far fronte a questa indifferenza. E’ il mezzo con cui Lavinia può essere risvegliata dissipando il conflitto interiore.
Pacificazione, questa, che porterà a stravolgere anche il senso della vita, dell’esistenza. Vivere e morire assumeranno un significato, saranno espressione delle scelte e delle volontà che sono proprie del percorso di ognuno su questa terra.
Quello di Gioconda Belli è un romanzo forte, crudo, intenso. Un testo dove uno stile elegante e pacato sa essere al contempo tagliente ed efferato, sa essere al contempo appassionato e creativo, sa mostrare al lettore il conto che ogni colpa e merito comporta. Un elaborato dove il sentimento, gli ideali, l’amore, il femminismo, il riscatto, la politica, la povertà, la ricchezza, la guerra, i conflitti esterni ed interiori, sono colonna portante ma anche punta dell’ice-berg di una serie di contenuti estremamente vasto e articolato.
Maria Darida - 6 anni fa
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La felicità del cactus - Sarah Haywood
Un libro da leggere! Spiritoso, leggero, ma con un sottofondo molto serio. Lo consiglio a tutti.
Kristina Wallin - 3 anni fa
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La guardarobiera - Patrick Mcgrath
Londra, 1947. La guerra è ormai finita, eppure i lasciti di questa sono ancora vividi nella mente, negli odori, nelle abitudini, nelle esistenze degli abitanti. Non bastano i residui bellici a rattristare il cuore e le anime dei protagonisti, a questo dolore si aggiunge quello determinato dalla morte inattesa del noto Charlie Grice, personalità di spicco della scena teatrale, padre della talentuosa Vera e marito dell’inconsolabile Joan, guardarobiera al Beaumont Theatre di origine ebraica.
E’ disperata Joan, non può accettare che il suo Gricey sia morto, non è contemplabile. Loro sono stati inseparabili per 27 anni, sono stati una persona sola, una unica anima. Donna forte e dedita al lavoro, reagirà alla perdita prima assumendosi la colpa di quanto accaduto, successivamente maturerà l’idea che in realtà il compagno sia sopravvissuto, in parte, nel corpo di un altro uomo: Daniel Francis alias Frank Stone attore che sostituisce il defunto nel ruolo del Malvolio de “La dodicesima notte” di Shakespeare.
Da questo momento ha inizio un’assidua frequentazione tra la donna e Daniel-Charile, una frequentazione che ha radici nel passato, che è raffigurata nel presente che è prospettata nel futuro. Un sempre maggiore livello di confidenza ed intimità faranno vacillare ogni supposizione sino a che una spilla a cui si sommeranno altri scenari immaginari, non verrà rinvenuta. Grice/Frank finiranno l’uno con l’offuscare l’altro tanto che si perderà irrimediabilmente il confine tra finzione e realtà. La donna non avrà altra scelta che abbandonarsi all’alcool e alla follia. E Vera? Cosa ne sarà di lei?
La crudeltà della vita e il fantasma, l’ossessione e la rappresentazione scenica, il fallimento che sta sopraggiungendo e la dimensione psicologica. Cosa è vero e cosa è palcoscenico?
Nonostante Joan sia una prima attrice indiscussa, una donna che possiede profondità, introspezione e che è capace di trasmettere il dolore, il lutto, l’incredulità, la rabbia, la disperazione nonché l’ossessività e la indefinitezza che è propria di Patrick McGrath, “La Guardarobiera” è un elaborato ben diverso rispetto a quelli a cui lo scrittore ci ha abituato. Sin dalle prime pagine ci ritroviamo in un viaggio nella mente che è sempre sulla doppia linea della normalità/follia, sulla doppia linea della recita/realtà, in un percorso che è totalizzante ma anche affiancato da trama precisa e chiara. E’ proprio quest’ultimo l’elemento differenziante rispetto agli altri componimenti del narratore: il filo conduttore delle vicende è inequivocabile seppur egregiamente sviluppato e i personaggi nonostante la vedova, sono tutti meno totalizzanti tanto che si abbandonano ad una conduzione delle vicende più romanzata. Il tutto è avvalorato da uno stile narrativo fluente ma tuttavia a tratti eccessivamente descrittivo.
In conclusione, coinvolgente, cupo, magnetico.
Maria Darida - 5 anni fa
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La lunga vita di Marianna Ucria - Dacia Maraini
Marianna, duchessa appartenente al casato degli Ucrìa, è muta sin dalla tenera età. Eppure ella ricorda, e la signora madre in punto di morte glie lo conferma, di aver udito, di aver parlato. Sa che dalle sue labbra sono usciti dei suoni articolati, e che tutto quel che è stato fatto per tentare di farle riacquistare i sensi perduti è vano poiché la ragione per quale essa ne è stata privata è un trauma subito durante i suoi cinque anni di vita, una violenza che la sua famiglia nega, si rifiuta di voler accettare, custodendolo, tra l’altro, come un segreto che mai dovrà essere rivelato. Mutola e rinchiusa nei suoi pensieri, la donna non ha altro mezzo che la scrittura per comunicare; uno strumento questo che, insieme alla lettura, diventa molto più che un mero tramite per trasmettere le sue volontà e i suoi desideri.
Come consuetudine, per le figlie femmine di buona stirpe non vi è altra scelta per il futuro se non quella di un matrimonio combinato oppure del convento di clausura, soluzione dagli ingenti costi e dunque da limitare a soltanto alcuni dei discendenti. Ma chi mai vorrebbe al suo fianco una compagna menomata irrimediabilmente? Una persona c’è. Ed è così che a soli tredici anni Marianna si ritrova sposata a Pietro, un anziano zio di ben 37 anni più grande di lei, un uomo col quale inizia un percorso caratterizzato da assenza d’affetto e atti sessuali miranti esclusivamente a procreare. Tante le gravidanze a cui la signora Ucrìa è sottoposa, troppi i lutti che colpiscono i suoi cari, fra questi la perdita più atroce sarà quella del figlio Signoretto colpito e stroncato dal vaiolo a soli quattro anni. La morte dell’unico figlio verso il quale davvero la madre ha provato un senso materno di affetto la indurrà a cambiare radicalmente il suo atteggiamento verso il mondo esterno, talché, se da un lato inizierà a rifiutare le attenzioni sessuali di quel “signor marito zio”, dall’altro si rifugerà completamente nella lettura per poi riscoprire il piacere dei sensi, dell’amore con quell’uomo da cui tanto è fuggita, che tanto ha rifiutato, le cui attenzioni ha tanto temuto. Arriverà ad un punto di non ritorno la nostra cara protagonista, cosicché si lascerà alle spalle la sua terra e i suoi averi partendo con la cara, fedele ed ormai trentacinquenne Fila alla volta del continente per far fronte a quella ribellione interiore inaccettabile per l’epoca eppure essenziale per conoscere davvero se stessa.
Dedicato ad un’antenata dell’autrice, “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, è un romanzo magnetico che magistralmente ricostruisce usi e costumi, accadimenti, pregiudizi, miserie e povertà della Sicilia del 1700. Fortemente incentrata sulla figura femminile, l’opera invita il lettore alla riflessione grazie al susseguirsi di una serie di avvenimenti testimoniati ed interpretati da solidi protagonisti, capaci, con la loro rispettiva verità e le loro espressioni gergali, di rendere concreta la realtà che viene pagina dopo pagina ricostruita. Perno dello scritto è la donna che con Marianna vince il pregiudizio, vuole rompere gli schemi, uscire da quella mentalità stereotipata e retrograda.
Stilisticamente l’elaborato è caratterizzato da una penna forbita e ricercata nonché è avvalorato da espressioni tipiche siciliane che se da un lato rendono veritiera la vicenda, dall’altro ne appesantiscono il defluire.
«Uscire da un libro è come uscire dal meglio di sé. Passare dagli archi soffici e ariosi della mente alle goffaggini di un corpo accattone sempre in cerca di qualcosa è comunque una resa. Lasciare persone note e care per ritrovare una se stessa che non ama, chiusa in una contabilità ridicola di giornate che si sommano a giornate come fossero indistinguibili»
«Può una donna di quarant’anni, madre e nonna, svegliarsi come una rosa ritardataria da un letargo durato decenni per pretendere la sua parte di miele? Che cosa glielo proibisce? Niente altro che la sua volontà? O forse anche l’esperienza di una violazione ripetuta tante volte da rendere sordo e muto tutto intero il suo corpo?»
«Sapete, alle volte è l’amore degli altri che ci innamora: vediamo una persona solo quando essa chiede i nostri occhi»
Maria Darida - 5 anni fa
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La mia bottiglia per l'oceano - Michel Bussi
«Qual è secondo voi il miglior inizio possibile per un romanzo?” “ Un morto!” risponde senza esitare la comandante Faréyene. “Ci sei andata vicina” esclama contento il professore di scrittura (…) Meglio di un cadavere è nessun cadavere! Solo una sparizione.»
Michel Bussi, scrittore francese eclettico e dal gran talento narrativo, torna in libreria ancora una volta con un romanzo molto originale edito per Edizioni E/O e che riprende in mano niente meno che un famoso giallo di Agatha Christie. Il tutto tra cibi esotici, veleni, luoghi, cimiteri abbandonati, inseguimenti nella giungla, testamenti e chi più ne ha, più ne metta.
Caratteristica pregnante del giallista francese è la capacità di ambientare romanzi gialli particolarissimi in luoghi altrettanto variegati, il tutto mixando una trama avvincente con una buona dose di suspense.
Siamo nelle isole Marchesi, Hiva Oa, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. È qui, luogo ove è venuto a mancare Paul Gauguin, che si svolge una strana e insolita gara di scrittura. Pierre Yves François (PYF) indice qui un concorso ove cinque aspiranti scrittrici si dedicheranno alla scrittura al fine di redigere il loro romanzo e vedere decretare un vincitore. La vincitrice verrà pubblicata e otterrà la fama e la celebrità auspicata. Sarà nella pensione Au Soleil Redouté che egli organizzerà il laboratorio di scrittura a cui partecipano le cinque donne: Clémence, trentenne e sportiva, sognatrice, immaginifica ma anche espansiva, Eloise, coetanea, malinconica, diametralmente opposta e introversa, Faréyne, quarantenne, comandante di commissariato a Parigi e fissata con lo scrivere, accompagnata dal marito Yann, capitano di gendarmeria, Marie Ambre, quarantenne, benestante, tendente al bere, accompagnata dalla figlia sedicenne Maima e Martine, settantenne, blogger di grande successo, amante della scrittura e oltre quarantamila follower.
Tuttavia la vita è imprevedibile e molto spesso non va come vorremmo. Lo stesso sarà per Marie-Ambre, Clémence, Eloise, Martine, Farèyne, le cinque prescelte, che si ritroveranno davanti a indagini che le condurranno sino a un epilogo che porterà alla rivelazione di una inaspettata realtà. Eh sì, perché a distanza di poche ore dal loro arrivo PYF sparirà nel nulla, non lasciando nessuna traccia se non i suoi vestiti piegati su uno scoglio e un sasso con degli strani simboli tatuati. Ed ancora, quale sarà il vero significato delle 5 statue scolpite che verranno rinvenute nei pressi dell’hotel dove soggiornano le cinque aspiranti scrittrici? La sparizione dell’uomo sarà solo l’inizio di una serie di misteri che si susseguiranno tra scomparse ma anche misteriose morti.
«Le Marchesi si odiano o si amano, disgustano o incantano. Alcuni le considerano uno degli ultimi paradisi terrestri, altri le vedono come il giardino maledetto del Tiaporo, il diavolo della Polinesia.»
Tra tatuaggi e tatuatori, statue votive e tiki che rimandano a riti misteriosi, ciottoli abbandonati e testamenti, il tutto per una perfetta e ben riuscita parodia de “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. A far da filo conduttore il desiderio di amare, essere amati e il successo letterario, un successo talmente ambito da andare oltre ogni prezzo e scrupolo.
Tra le pecche dell’opera vi è quella di una trama che nel suo voler essere più complessa e misteriosa rischia di finire con l’essere un poco più farraginosa da seguire tanto da far perdere di intensità e ritmo alla narrazione. A ciò si aggiunga anche l’uso di termini della cultura locale che non sempre rendono agevole la lettura.
Tra i pregi il chiaro ed inequivocabile omaggio a una delle scrittrici regine del giallo più affascinanti di sempre. Una di quelle scrittrici che non ci si stanca mai di leggere e che ogni volta che vengono lette riservano sorprese, colpi di scena e riflessioni.
Un libro godibile, all’altezza delle aspettative anche se non tra i migliori dell’autore a causa del suo tendere a perdersi in una densità talvolta controproducente.
Maria Darida - 14 giorni fa
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La mia vita per la libertà - Mohandas Karamchand Gandhi
Prima di leggere questo libro non sapevo molto riguardo Gandhi. Nella mia mente il personaggio era collegato al signore minuto, occhialuto, vestito con tipici abiti indiani. Le sue gesta mi erano quasi del tutto estranee, anche se ero a conoscenza del fatto che fosse stato sopprannominano Mahatma (grande anima) durante le battaglie civili che ha sostenuto.
Grazie a questa autobiografia ho scoperto la vera profondità e complessità che lo definivano. Lungi da essere un personaggio illuminato, nella sua vita ha sostenuto grandi sforzi e dissidi interiori per arrivare ad essere quello che conosciamo. Era costantemente alla ricerca di nuovo sperimentazioni, metteva in discussione qualsiasi cosa fosse considerata giusta o sbagliata.
Ha sofferto e gioito per e con il suo popolo. Gandhi è stato umile, servizievole, idealista e al contempo dubbioso, egoista, irremovibile. Ha ispirato milioni di persone in India e continua ad ispirarne altre tuttora.
Una lettura che consiglio caldamente a chi volesse approfindire la propria cultura personale.
Valentina Pifferati - 3 anni fa
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La perfezione non è di questo mondo - Daniela Mattalia
Torino. Adriano, ottantaduenne professore di filosofia in pensione, non è riuscito a superare la morte di Giulietta, la donna con cui ha condiviso tutta la sua vita. Da quando questa è venuta a mancare, è stato colto da una solitudine senza eguali, da una solitudine che non ha confini. Non può fare quindi a meno di girare per i reparti delle Molinette, luogo di ricordi ma anche luogo dove l’anima della consorte è ancora presente sotto la forma del fantasma. “Perché sei ancora qui, mia amata Giulietta? Come posso fare per aiutarti?” si chiede l’anziano uomo.
Olga, settantacinquenne in pensione che ha dedicato la sua vita a Bruno, uomo sposato che le ha inevitabilmente spezzato il cuore, adesso vive con il piccolo René, un delizioso gatto dal manto rosso e dalle molteplici fusa.
Gemma, ventinovenne, libraia nonché volontaria del Filo d’Argento è amica di “cornetta” di Olga nonché una ragazza solare ed altruista cresciuta senza la figura di un padre. Una mattina come un’altra, durante il suo canonico percorso di jogging, avrà un incontro ravvicinato del terzo tipo con Archibald, bracco coccolone di proprietà di Fausto, fidanzato di Susanna, donna della Torino bene, disegnatore e giornalista dai capelli fulvi, scarmigliati e dagli occhi tendenti al color oro.
Ed ancora Angelo, tassista allegro e loquace, il cui nome è tutto un programma, amico del fantasma Ernesto, sarà colui che con il suo mezzo intesserà le fila dell’opera, collegando, sulla scia della storia principale – quella di Adriano – le vite dei vari personaggi concepiti da Daniela Mattalia.
Sotto la falsa riga di un testo leggero e di facile scorrimento, l’autrice dona al grande pubblico un elaborato ricco di contenuti che con semplicità entra nel profondo dell’animo inducendo alla riflessione.
Forza di questo è la tematica mixata allo stile: attraverso un linguaggio apparentemente dai toni leggeri viene infatti affrontata, mediante il canale della solitudine, la problematica della fine della vita. Ottimo, in tal senso, il bilanciamento delle emozioni e delle vicende. Pagina dopo pagina queste scorrono parallelamente tra loro, ma senza mai cadere nel melodrammatico.
La scrittrice riesce inoltre a porre l’attenzione anche su un altro aspetto della vita attuale, quello dell’isolamento. L’anziano, in particolar modo, ma anche il giovane, tende a chiudersi, a lasciarsi andare allo stato di emarginazione che è proprio della realtà circostante. Perché il giovane non ha tempo per ascoltare l’anziano e l’anziano non ha desiderio di adattarsi alla frenesia di una vita che ha già vissuto e per cui ha già fatto e lottato. Finiscono così per risultare invisibili agli occhi dei più. Questo aspetto è messo in evidenza in particolar modo dall’ormai vedovo, ma anche da Olga nonché dalla madre di Gemma e dal suo convivere con frivolezze atte a “riempire le giornate” pur di non pensare a quell’uomo che quindici anni prima l’ha lasciata con una figlia da crescere. E Gemma stessa, che notate bene è volontaria al call center per anziani, spesso è la prima a non vedere, a non ascoltare. Sarà una circostanza particolare a farle aprire gli occhi, a farle rivalutare quella figura che ha accanto e che così frequentemente ha sottovalutato.
«Gemma, a ventinove anni, sapeva ormai che la vita può ingarbugliarsi parecchio. Ma non aveva ancora capito una cosa fondamentale. Che sua madre puntellava le proprie giornate con innocue finzioni di ogni tipo perché il marito non c’era più da tanto tempo e Gemma c’era, sicuro. Ma dove, miciola. Dove sei esattamente. Perché mica ti sento» p. 40
Fausto al contrario rappresenta il mezzo con il quale ciascuno può riflettere sulla propria relazione amorosa. All’inizio del componimento egli è fidanzato con la figlia di un notaio, dall’aspetto bellissimo, ma chiaramente viziata (basti pensare al fatto che è lei che vuole a tutti i costi il cane così come è sempre la stessa che non esita a proporre di farlo stare in terrazza pur di non averlo tra i piedi. Ho detto tutto). Con il proseguire degli avvenimenti questa relazione inizierà ad andare stretta al grafico che finirà con l’interrogarsi in modo sempre più risolutivo sugli aspetti che sono propri della compagna.
«Sto dicendo che se la tua compagna di vita si fa trascinare, se ti devi voltare indietro per sapere che c’è, non va bene. Non andrà bene. Ma nemmeno funziona se è davanti a te e ti tira, ti dice di fare questo e quello e vorrebbe decidere per tutti e due. Ed è più che una passeggiata, capisce? E’ una specie di danza, e se il ritmo non è armonioso, si spezza. Le sembra sbagliato?» p.106
In conclusione, la novellatrice è riuscita a dar vita ad un romanzo con i giusti tempi, con personaggi ben costruiti e non stereotipati che non faticano ad entrare nelle grazie di chi legge, nonché a far meditare su argomenti e sentimenti propri dell’animo umano che spesso disturbano per la loro intensità ed espressione.
Un volume fresco, non impegnativo, che si esaurisce in una giornata ma che ci invita, infine, a guardare il nostro mondo con un’ottica positiva, un’ottica che tenga conto tanto delle imperfezioni quanto delle perfezioni, perché sono le piccole cose a fare la differenza.
«”Mi interessano,” aveva spiegato serissimo Angelo, “i personaggi che si uccidono, vorrei sapere perché rinunciano alla vita, che non sarà un granché ma è sempre meglio esserci che no. Passiamo secoli e secoli a non esistere e una manciata di anni a essere vivi. Non le sembra follia sprecare l’occasione?”
“Ma quelle dei romanzi sono vite inventate”, aveva obiettato Adriano.
“Gli scrittori non inventano”, aveva replicato lui. “O meglio, inventano per capire. E si cerca di capire la realtà. Sempre”.
[..] “Scusi, ho visto il rosso all’ultimo. E sì che faccio questo mestiere da una vita.”
“Non importa. Sa come si dice, la perfezione non è di questo mondo”. Che rilassante banalità.
“Se è per questo, neppure dell’altro”». P. 123
Maria Darida - 6 anni fa
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