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La perfezione non è di questo mondo - Daniela Mattalia
una lettura che scalda il cuore . Assolutamente consigliato
Eleonora Cioni - 5 anni fa
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La più amata - Teresa Ciabatti
«Io sono la regina, mi rimiro nello specchio. Mi chiamo Teresa Ciabatti, ho quarantaquattro anni, e a ventisei dalla sua morte decido di scoprire chi fosse davvero mio padre. Diventa la mia ossessione. Non ci dormo la notte, allontano amici e parenti, mi occupo solo di questo: indagare, ricordare, collegare. A quarantaquattro anni do la colpa a mio padre per quello che sono. Anaffettiva, discontinua, egoista, diffidente, ossessionata dal passato. Litio ed Efexor prima, Prozac e Rivotril poi, colpa tua, solo colpa tua, papà» p. 33
Non è semplice parlare di questo romanzo autobiografico. Non è semplice valutarne le emozioni, le contraddizioni, le sensazioni. Perché. Perché a tratti lo si odia, a tratti lo si ama. A tratti si è in simbiosi con la protagonista, madre e figlia alternativamente, a tratti si è in totale dissonanza con esse. Non le si comprende, risultano sfuggenti. Altrettante vengono percepite quale prigioniere di un universo dimostratosi più grande del previsto, ed ancora risultano indisponenti; la prima per la sua incapacità a reagire, la seconda per la sua ostentazione del lusso avuto e perduto.
Ma chi è Teresa Ciabatti. E’ la figlia del professore, è la figlia di Francesca Fabiani, è la sorella gemella eterozigota di Gianni Ciabatti. E’ prima una bambina viziata, regina indiscussa del suo castello ad Orbetello, prima in tutto per grazia divina, per grazia di nome, per padre dirigente dell’ospedale ove il regno è instaurato e dove egli è considerato uomo buono al cui passaggio si aprono frotte e frotte di fedeli seguaci e ammiratori e stimatori perché ha studiato in America, perché è un luminare, perché a Lorenzo Ciabatti (1928-1990) basta un semplice cenno del capo per ottenere quel che vuole, basta una semplice telefonata per smuovere mari e monti, di poi, un’adolescente fragile, complessata dall’essere in sovrappeso, scossa dall’assenza ingiustificata di un padre che è sinonimo di impero, ricchezza, lusso, prestigio, vittima di una madre, Francesca (1939-2012), anestesista che ha lasciato tutto perché, come dicevano in ospedale, non si può essere madre e medico, almeno negli anni ’70 e soprattutto se donna, ed ancora adulta egoista, anaffettiva, disincantata, diffidente, egocentrica.
Una donna che vuol sapere chi era Renzo, che vuol capire perché è diventata l’adulto incompleto che è. E’ una sopravvissuta, una persona che nei suoi quarantaquattro anni di vita si sente fallita, incapace, inadatta. Una donna che sa che la colpa della sua condizione è da attribuire solo e soltanto a quei genitori, ed in particolare a quel babbo, così misterioso, silenzioso, ricco di segreti. Tanti i perché, tante le domande, pochissime le risposte. Diventa un’ossessione per Teresa. La verità prima di tutto. La verità le spetta. E’ suo diritto. E’ suo dovere. Dovere perché un domani dovrà a sua volta spiegare a sua figlia perché sua madre è così. Perché sua madre non è riuscita a donarle affetto. Perché sua madre è stata incapace di garantirle un futuro adeguato ma soprattutto ricco di emozioni e sentimenti. Il motore dell’uomo. La valvola dell’essere. Questo è il chiodo fisso della Ciabatti, la sua missione, l’obiettivo primario suo e per riflesso del lettore.
Ammirevole il coraggio, discutibile il tentativo. Perché a più riprese chi legge si chiede inesorabilmente il perché di questo romanzo. E’ una confessione sincera atta a mettersi a nudo? E’ l’ennesimo espediente letterario di una figlia viziata di attirare attenzione su di se? E’ un tentativo di ottenere successo mediatico? Brama di fama di essere una nota scrittrice, lei che ha quattro romanzi di – a suo dire – non successo alle spalle? Questo è in parte il pensiero che naturalmente sovviene a chi legge. Perché è innegabile che nello scorrere delle pagine il dubbio c’è. Una motivazione è necessaria poiché altrimenti non è giustificabile per il diretto conoscitore delle vicende questo tripudio di ostentazione, di ricchezza, di futilità, questa rabbia per il paradiso perduto, per un’inadeguatezza ereditata. Questa attribuzione di colpe e questa mancanza di auto-responsabilità, questa ingiustificabilità del non essere riuscita a crescere, di essere rimasta una bambina nei panni di un’adulta.
Eppure per l’avventuriero conoscitore è al contempo impossibile lasciare a metà lo scritto. Subentra la componente psicologica, l’analisi, la voglia di entrare nella mente di questa autrice eclettica. Si cerca così di andare oltre le apparenze, di valutare quel che vi è dietro la facciata, quel che vi è dietro quel bisogno di avere quando forse quel che veramente ella ha sempre desiderato è un po’ di semplice e genuino affetto. Meno sfarzo, più presenza. Un genitore vero, concreto, partecipe, tangibile, capace di brontolarla quando vi era da brontolare, di stimarla quando vi era da lodare. Chissà… Sta di fatto che purtroppo Teresa difficilmente riuscirà a trovare risposta a tutti i suoi quesiti, troppo tempo è passato, quante carte sono sparite, cadute nell’oblio di silenzi e sotterfugi. Non le resta che consolarsi sulla scia del fatto che “il pesce puzza dalla testa” o ancora sull’assunto che “le colpe dei padri ricadono sui figli”.
Tuttavia alla fine di questo viaggio nello ieri e nell’oggi, in questa ricostruzione di infanzia felice, fragile, turbolenta, cosa resta se non l’immagine riflessa in uno specchio, una donna che deve ripartire da un punto perché dopo quel poco che è venuta ad apprendere non può restare ferma ma non può nemmeno andare avanti? Cos’altro fare se non cercare di ripartire, di darsi una mossa, se non cercare di diventare quegli adulti che tanto sono mancati?
Stilisticamente l’opera si dimostra intelligente, acuta nonché caratterizzata da uno stile mutevole, graffiante, incisivo, impulsivo, nervoso. Si ama e si odia. Si ama o si odia. Smuove, destabilizza, si incunea, si fa strada desiderosa di farsi conoscere. Di fatto, dunque, a prescindere dalla apprezzabilità o meno, non lascia indifferenti.
«Marilyn allora sospira: sai quante ne ho raccolte in vita mia. Creatura speciale, risplende di luce propria, occhi, capelli, pelle. Pelle bianchissima, come… come un cadavere. Ogni volta che papà ricorda l’incontro, ogni volta che rievoca la bellezza di Marilyn, ogni volta che torna con la memoria in quell’ascensore, io chiedo: gli somiglio un po’? E ogni volta, scrutandomi con attenzione come se non mi avesse mai vista prima, lui risponde: no» p. 25
Maria Darida - 7 anni fa
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La porta - Magda Szabó
«Di una persona a volte si sente che fiore potrebbe essere se fosse nata sotto forma vegetale: e lei non era sicuramente una rosa, la rosa non è un fiore innocente, offre i suoi petali carminio in modo quasi impudico. Sentii subito quel che Emerenc non avrebbe potuto essere, ma non quel che avrebbe potuto essere, non sapendo ancora nulla di lei»
Due donne, due vite, due realtà lontane, apparentemente parallele ed inconciliabili, di fatto, destinate ad incrociarsi, fondersi, scontrarsi. Senza una ragione ben precisa, senza un’effettiva motivazione. Così, inspiegabilmente.
Una, la voce narrante, è una scrittrice, da sempre dedita alle sue storie, da sempre inadatta ad occuparsi della casa nonché della propria esistenza e dei propri affetti. E’ in attesa, questa donna, in attesa di un successo e di una notorietà che tarda ad arrivare e che forse, non arriverà nemmeno mai. Innegabile che, questa figura, rimandi a più riprese, alla stessa Szabo. Che sia lei stessa la enunciatrice della storia? Vive col marito, detta protagonista, il quale a sua volta è scrittore, il quale a sua volta conduce una esistenza isolata ed anche arida, vista la volontaria scelta di non avere figli.
L’altra è invece Emerenc, un’anziana donna votata al lavoro manuale, un’anziana donna che di parole ne spende pochissime, che non crede nella cultura ed ancora meno in quel lavoro consistente nel continuo battere a macchina, e che non si fa scegliere per essere assunta in una famiglia, è lei che, dopo aver ricevuto le giuste referenze, decide se accettare o meno quello stesso nucleo di persone quali datori di lavoro. Del suo passato ella è unica custode, è per lei impossibile rendere testimoni altri del suo vissuto. Quella porta che separa il suo appartamento dal resto del mondo, è riprova di questo quanto di altri misteri che si celano dietro il mito e la veste di questa domestica d’altri tempi.
E’ un rapporto che nasce e si sviluppa in salita, quello che lega le due donne. Ha inizio infatti con una serie di scontri frontali nonché con una moltitudine di incomprensioni che, soltanto una perpetrante, reiterata ed obbligata frequentazione riuscirà a smussare di quelle punte aguzze ed acuminate. Basti pensare che Emerenc, che esige molto e si offre incondizionatamente, che è di caritatevole e disposta ad aiutare tutti, è però incapace di perdonare. Quanti sforzi dovrà fare la narratrice per seppellire, in più occasioni, l’ascia di guerra e tentare di riappacificare gli animi? Quante volte Viola, motivo di litigio, finirà con l’essere l’unico espediente per riavvicinarsi a quella domestica così irreprensibile e fiera delle sue talvolta, incomprensibili, prese di posizione? Quante volte Emerenc dovrà puntare i piedi pur di far smuovere quella padrona così incapace e irrisoluta? Un legame, quello rappresentato, che è costantemente sul filo del rasoio, ma che, ciò nonostante, è imprescindibile. La presenza dell’una nella vita dell’altra è una costante a cui è impensabile rinunciare.
Perché, dietro la facciata, si cela il bisogno. Il bisogno affettivo, il bisogno di riscoprire la fiducia nell’altro, il bisogno dell’aspettativa, il bisogno di provare, per un’altra volta, dopo i tanti ferimenti, a confidare nuovamente di (e in) qualcuno, anche a costo di ricevere l’ennesimo tradimento. Perché la solitudine che le accomuna non è la soluzione, non è l’unica via di fuga prospettabile.
Gli anni passano e con il loro discorrere, la stessa confidenza muta. La scrittrice è tutrice del passato dell’anziana ma anche del suo più grande dei segreti. Varca quella porta, quella linea di demarcazione tra il dentro e il fuori. Ma quello di Emerenc non è un gesto fatto a cuor leggero, è un gesto che è sinonimo della sua irreprensibile moralità, che è riprova di più completa ed indissolubile fedeltà. E’ un atto, il suo, che ripercorre l’animo della donna, che è espressione della pura e più sincera umanità che le appartiene. Poiché, al di là di quel carattere scontroso e burbero, ella è uno spirito autentico, integro, onesto.
E’ quando è vinta dalla malattia, è quando dovrà affidarsi agli altri che verrà tradita, che verrà ferita da quell’unica persona di cui veramente si è fidata. Magda si dimostrerà fedele solo e soltanto a se stessa, mostrerà di essere detentrice di una moralità che non è genuina quanto frutto di ferrea disciplina, romperà quel trascorso inviolabile, infrangerà e sgretolerà l’esistenza della compagna tanto da privarla dell’unica cosa che concretamente le permetteva ancora di vivere e andare avanti in un presente e in un futuro che non sente appartenergli, che ormai, l’accompagna per abitudine più che per divenire.
«Emerenc voleva abbandonare questo mondo dopo che le avevamo distrutto l’intelaiatura che reggeva la sua esistenza e la leggenda aleggiante intorno al suo nome. Era d’esempio a tuti, aiutata tutti, era un modello. [..] Emerenc era pura, invulnerabile, era ciò che tutti noi, i migliori di noi, avremmo voluto essere. Emerenc, con la fronte perennemente coperta, con il suo viso liscio come la superficie di un lago, non aveva mai chiesto niente a nessuno, bastava sempre a se stessa, si era accollata i pesi degli altri senza mai dire quello che pesava a lei e quando, finalmente, avrebbe potuto dirlo, io ero andata a fare il mio numero in televisione, lasciando che la smascherassero nell’unico momento umiliante della sua vita, lordata dalla malattia.. [..] Emerenc era diventata qualcosa di assurdo di fronte all’intera comunità, tutto il lavoro di una vita era stato annientato da quel singolo episodio per cui sarebbe sempre stata ricordata»
Sarà, tuttavia, tardi che Magda capirà il suo errore, che comprenderà il suo tradimento. Una conclusione avverso la quale non vi sarà alcuna possibilità di appello.
Un romanzo forte, delicato, disarmante, è “La porta” di Magda Szabò, un elaborato che si insinua nel profondo, che fa soffrire, che arriva con una vigore inaspettato durante e dopo la sua discoperta. E’ ricco di amore, di condivisione, di dialoghi esilaranti e riflessivi, di amicizia, di altruismo, di religione (e riflessioni annesse), di desiderio di dolcezza, di aspettativa, di speranza, di abbandono di quella solitudine incessante, di dolore; è uno scritto che in ogni suo frangente, in ogni suo personaggio (a titolo di esempio basti pensare a Viola, un cane di sesso maschile che è la chiave con cui concretamente interpretare la figura dell’anziana) vive e si fa vivere. Coinvolgente, accorto, profondo, toccante.
Maria Darida - 6 anni fa
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La portalettere - Francesca Giannone
"La Portalettere" è un’opera completamente priva di stile e come tale, salvo rare e lodevoli eccezioni, è da derubricarsi nella letteratura di genere “rosa”, dato che in Italia i generi si distinguono con i colori. "Quando leggo un romanzo", diceva Céline (e iddio solo sa quanto mi stia sullo stomaco), "ricerco lo stile dell’autore perché di storie è pieno il mondo". Lo stile, per dirlo in breve, è la somma non algebrica tra diversi addendi: la "forma mentis" dell’autore (spesso la mancanza di sanità mentale ha creato capolavori), l’"ésprit du temps" (la lingua che viene usata sia nell’ambiente ristretto dell’autore, sia nel mondo che accoglie fisicamente l’autore in un dato periodo), sia l’"intentio auctoris" (di cui Flaubert era un maniaco ovvero la cura per ogni singola frase e, anche, il significato che si cerca scrivendo: è lavoro? Si viene pagati a pagine? Sono convinto di scrivere l’opera di riferimento per il prossimo millennio?). In tutta l’opera ho individuato solo una frase di stile, in prima pagina: "Umido di afa, il vento faceva oscillare le foglie della grande palma al centro della piazza deserta". È un po’ poco per un libro che, seppur generosamente rilegato, supera le quattrocento pagine. Il resto è scrittura, solida, banale.
Le avvisaglie comunque erano già nella prima riga: "La notizia si diffuse come un lampo lungo ogni strada e vicolo del paese". Chi non ha studiato letteratura non noterà forse niente di particolare ma per coloro che hanno, invece, studiato non sarebbe necessario sottolineare quanto quest’incipit sia tremendo.
1) La similitudine come un lampo è banale ed è corredo dell’italiano standard. Delle due, l’una: o l’autrice l’ha messo inavvertitamente e non ha notato niente di strano e quindi non è una grande scrittrice (il che non vuol dire che non sappia scrivere o che sia una brutta persona), oppure l’intenzione dell’autore è parodica, un po’ come se si iniziasse un racconto con un incipit chiaramente rubato come "Quel ramo del lago di Como" (e in effetti, questa sì, è una frase di stile). Cosa avrebbe potuto metterci? Prendiamo a prestito Flaubert che pure è citato nel libro, mettiamoci un bell’avverbio pesantissimo che in italiano forse abbiamo: velocemente, celermente, rapidamente, lestamente, prontamente, sollecitamente, sveltamente, alla presta, tempestivamente, ci stiamo avvicinando ma che dire di rattamente (un po’ vecchio), istantaneamente (ci siamo quasi), fulmineamente (!), subitaneamente (!!) e, buon ultimo, repentinamente?
2) L’uso del passato remoto. Il romanzo, sin dalla sua nascita (ma NON nella sua evoluzione) ha un uso prediletto di questo tempo. Esso significa che qualcosa è avvenuto, è finito ed adesso ne cogliamo i frutti oppure ne aggiustiamo i danni. La caratteristica principale del passato remoto è che è rassicurante. È un dato di fatto che pone il lettore e l’autore entrambi con le spalle al muro evitando di farsi domande, quelle domande che invece la letteratura dovrebbe stimolare. Il passato remoto è la risposta. State per leggere una storia fatta e finita, prendere o lasciare. C’è chi prende e c’è chi lascia.
Perché c’è chi lascia? È presto detto: perché negli Stati Uniti i fumetti di avventura e di guerra sono stati sostituiti dai supereroi? Perché la quotidianità non ha niente di interessante. A farci caso i grandi romanzi ottocenteschi sono pieni di supereroi: il popolo di Balzac obbediva e subiva delle leggi della società che per la prima volta venivano narrate in maniera quasi sistematica. Il popolo di Zola erano dei campioni di sfortuna. Il popolo di Flaubert erano dei campioni del niente che realizzavano che ingrandendo il proprio io a dismisura non li avrebbe portati letteralmente (è il caso di dirlo) da nessuna parte. Ne "La Portalettere" i nomi sono tutti assolutamente dimenticabili: Carlo, Antonio e Anna. L’autrice ci aggiunge un’altra ventina di comprimari, mio nonno li avrebbe chiamati Cecco, Beppe e Tonio. Perbacco, mettici un nome memorabile tipo Agamennone o Baldassare anche così per variare. Dopo poche pagine si comincia a perdere i riferimenti: chi è Carlo? Chi è Daniele? Chi è Lorenza?
La descrizione dei personaggi langue e quindi ci si perde neanche tanto volentieri, quello che fanno è vivere la loro vita, si amano, lavorano, si lasciano, si riprendono ma, ahimè, a meno che non si riesca a legare il lettore a un determinato personaggio, ciò che questo personaggio fa, e non è mai e poi mai niente di che, diventa incredibilmente non interessante. L’ama. Chi?, ah. Non l’ama, chi? Ah. Muore, chi? Ah. È per questo che si lascia un romanzo, che io ho letto perché essendo “di moda” volevo vedere cosa ci fosse scritto e confrontarmi ogni tanto con un libro “di cassetta”.
Ci sono dei momenti particolarmente negativi, ne cito due per tutti: a pagina 17 c’è una sinestesia: "Si lisciò prima i baffi e con gli occhi chiusi s’inebriò di quell’odore speciale che il suo paese aveva sempre avuto, un miscuglio di pasta fresca, origano, terra bagnata e vino rosso". A parte che essendo toscano quando si parla di vino tendo ad inalberarmi. Immaginiamo la scena, lui e lei scendono nella piazza del paesello rigorosamente in pieno meriggio perché al sud fa sempre caldo (stereotipo). Lui e lei abitavano in Liguria (mica a Oslo) ed adesso sono in provincia di Lecce. Ma davvero camminando per le strade di un piccolo paese salentino si sente l’odore di pasta fresca, origano e vino rosso? L’unica possibilità è che il torpedone avesse avuto un incidente e fosse finito dentro un’osteria, sterminando tutti gli avventori. Ma perché non si può scrivere: "Si lisciò prima i baffi e con gli occhi chiusi si inebriò al ricordo di quell’odore speciale che stava per rivivere: un miscuglio ecc…"?
L’altro è a pagina 205: La mattina del 25 novembre, nella cabina elettorale, Anna prese la matita e indugiò a lungo fissando la scheda. Poi tracciò una croce sul simbolo del Partito Comunista. Nessuno lo avrebbe mai saputo, all’infuori di lei stessa. E nient’altro contava. Come? Cosa? Stragulp! In un paesello rurale del Salento appena dopo guerra? Su cento voti ci saranno stati si e no dieci voti comunisti e tutti sapevano chi fossero. TUTTI avrebbero saputo che c’era un voto in più e di chi era. Chi era comunista in campagna e al sud, a quei tempi, doveva stare in casa con il fucile pronto. Da qui si vede che l’autrice è di giovane età. Ovviamente posso sbagliarmi e che Lizzanello sia stato nell'immediato dopo guerra un paese con una mentalità relativamente moderna ma ancora nel 1958, vado a memoria, Ugo Gregoretti fece un documentario sui lavoratori dei latifondi siciliani, gente che viveva in baracche mentre a Milano sfilavano Balenciaga e le sorelle Fontana (citate nel libro) e che non aveva la minima idea di cosa fosse l’ormai decennale Repubblica Italiana e che, in tutta probabilità, non erano nemmeno segnati all’anagrafe, come gli animali da cortile. C’è su YouTube.
La letteratura di genere, tuttavia, è questa: personaggi senza profondità con nomi banali che vivono la loro vita che le persone leggono per evitare l’impegno e confrontarsi con la complessità dello scibile. Ed è umano e comprensibile che la gente non abbia la minima intenzione di farsi nuove domande senza aver prima risposto a quelle questioni che sono già aperte sul tavolo in attesa di risposta. Ma non viene anche a voi in bocca il sapore di tempo perso per non aver imparato nulla?
Leandro Martini - 5 mesi fa
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La primavera perfetta - Enrico Brizzi
Enrico Brizzi non ammetterà mai, nemmeno sotto tortura, che il Luca Fanti protagonista del suo ultimo romanzo altri non sia che l’Alex del suo "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", invecchiato di 27 anni e ammaccato dalla vita. Troppe cose coincidono: l’origine bolognese, la famiglia di appartenenza (composta, in "Jack Frusciante", dal Cancelliere, dalla Mutter e dal Frère de lait; dal Capotreno, da Sandra e da Olli ne "La primavera perfetta"). Ci sarebbero anche il rock, il suicidio di un amico e tante altre storie, ma voglio fermarmi qui. Ciò che conta è che Brizzi scrive di nuovo un bellissimo romanzo, maturo, molto più classico nelle forme rispetto all’opera di esordio (non troverete, qui, quel fraseggio gergale e ricercato che caratterizzava l’opera prima, ma questo è diretta conseguenza del fatto che Brizzi è ormai autore affermato e sicuro dei propri mezzi, che non ha più bisogno di mostrare le sue funamboliche capacità letterarie e di stupire). Un romanzo peraltro lungo, ma assai scorrevole, triste a tratti ma mai deprimente. Un romanzo che parla principalmente del complicato rapporto che si instaura tra due fratelli maschi, ma anche di quelli non meno conflittuali tra padri e figli (Luca è contemporaneamente figlio, ma anche padre di un ragazzo e di una ragazza), tra mogli e mariti e tra vecchi amici. E non è finita qui: un posto di rilievo nella storia lo occupano sia il ciclismo, grande passione di Brizzi, sia la vita in una grande città come Milano, assai complicata per chi viene da una realtà più a misura d’uomo come quella di Bologna. Io l’ho trovato davvero appassionante, a tratti avvincente, spesso commovente. E poi c’è Luca, un grande personaggio: un antieroe che sbaglia tutto quello che un uomo può sbagliare ma che, alla fine, riesce a redimersi, grazie all’aiuto dei suoi amici, di un uomo d’altri tempi (Brenno) e di un fratello campione con cui ha un rapporto di amore-odio. Consiglio fortemente la lettura di questo romanzo, in particolar modo a chi ama le storie in cui i sentimenti giocano un ruolo fondamentale.
Marco Ciampolini - 2 anni fa
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La ragazza dello Sputnik - Murakami Haruki
Da grande amante di Murakami ho letto la maggior parte dei suoi romanzi (in ordine casuale) e mi sono piaciuti tutti, soprattutto per i tratti di realtà onirica che li caratterizzano.
Questo è forse il primo libro che invece mi lascia con l'amaro in bocca. La storia è ben sviluppata e i personaggi hanno un buon approfondimento, soprattutto il narratore di cui, nonostante non veniamo mai a conoscenza del nome, risulta comprensibile a livello empatico. Eppure mi sembra che manchi qualcosa. Il libro si chiude troppo frettolosamente e manca una spiegazione (anche se onirica) che giustifichi la scomparsa di Sumire.
Insomma, questo non è affatto tra i libri meglio riusciti di Murakami. Fortuna che non ho iniziato a leggerlo proprio partendo da questo romanzo, altrimenti è probabile che non avrei mai proseguito.
Valentina Pifferati - 3 anni fa
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La ragazza fantasma - Sophie Kinsella
Questo è definitivamente uno dei libri più divertenti che io abbia mai letto. E come tutti i libri della Kinsella, a parte la serie "I love shopping", ha delle profondità e dei messaggi molto belli. Se volete stare veramente bene per qualche ora, leggetelo! Oltre ad essere divertente, è anche un libro scritto molto bene.
Kristina Wallin - 5 anni fa
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La ragazza nella nebbia - Donato Carrisi
«Voglio dirle una cosa… Ho imparato che esistono due frangenti di tempo in cui fare le cose. L’adesso e il dopo. Rimandare può sembrare saggio, a volte c’è bisogno di ponderare bene le situazioni e le possibili conseguenze. Ma, purtroppo, in certe circostanze riflettere troppo può essere scambiato per esitazione o, peggio ancora, per debolezza. Tardare significa aggravare le cose. E non c’è peggiore pubblicità, mi creda»
Avechot. Anna Lou Kastner, sedici anni, non particolarmente bella, dai lunghi capelli rossi e quelle leggere lentiggini sul viso, timida, minuta e amante dei gatti, è scomparsa. Di lei non si hanno più tracce, eppure Vogel, l’agente investito del caso, non ha dubbi: non si tratta di un allontanamento volontario ma di ben altro. C’è un mostro e lui è pronto a tutto pur di offrirlo al suo pubblico. Perché se trovi il cattivo avrai servizi in diretta, fama, notorietà, interviste su interviste, prime serate e soldi a palate. E per il suo pubblico, l’uomo dai raffinati completi, non ha remore, scrupoli o esitazioni. Deve accontentarlo. Che la ragazza sia ferita, che sia morta, che sia con un ragazzo, per lui non ha importanza. Lei non è nulla più che la vittima, non è altro che un nome che verrà dimenticato, che sparirà nella nebbia, un nome che invoca una giustizia vecchia e farraginosa che segue un binario diverso da chi invece aspetta di addentare e puntare il dito su un colpevole qualunque. Perché contano i media, contano i dati, gli indici di gradimento, il successo. Ma chi si è macchiato di questo crimine e perché? Che sia nuovamente l’uomo nella nebbia?
Non è semplice realizzare un thriller di rilievo e spessore, non è semplice soprattutto in un’era come quella attuale dove si crede che quel quid in più sia dato dalla violenza e da un mix di scene cruente in cui le vittime sono sottoposte a di tutto. Carrisi, partendo da una storia semplice, lineare, quasi banale, oserei dire, riesce a differenziarsi dando prospettiva alle vicende narrate, dando spessore ai suoi protagonisti. E’ un perfetto burattinaio di quelle che sono le evoluzioni dell’opera, è un perfetto burattinaio che porta il lettore dove vuole senza mai cadere nel brutale, senza mai cadere nel cliché e anzi, offrendo proprio a questo eclettico conoscitore tutti gli strumenti per restare col fiato sospeso, per vivere pienamente quella che è la stoccata finale. Perché l’autore ti offre il killer, ma con astuzia, fa sì che il killer stesso cerchi te talché, il viaggiatore, eletto a pubblico, eletto a giuria popolare, non ha bisogno di indizi per emettere la sua sentenza.
Il tutto mediante uno stile leggero, una trama a prima vista scontata, un ritmo narrativo ben cadenzato che non manca di accelerare là, dove dovuto.
In conclusione: abile, scaltro, funzionante.
«Perché la cattura del colpevole ci fa illudere di essere al sicuro, e in fondo questo ci basta. Ma c’è una risposta migliore: perché la verità ci coinvolge, ci rende complici. Ha notato che i media e l’opinione pubblica, insomma noi tutti pensiamo al colpevole di un crimine come se non fosse umano? Come se appartenesse a una razza aliena, dotata di un potere speciale: fare del male. Non ce ne accorgiamo, ma lo rendiamo… un eroe. Invece di solito il colpevole è un uomo banale, privo di slanci creativi, incapace di distinguersi nella massa. Ma se lo accettiamo così, allora dobbiamo ammettere che, in fondo, un po’ ci somiglia. »
Maria Darida - 6 anni fa
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La rilegatrice di storie perdute - Cristina Caboni
Sofia Bauer a seguito del suo matrimonio con Alberto De Santis ha dovuto accantonare tutte le sue passioni nonché il suo lavoro in biblioteca. Essendo il legame giunto a conclusione, la donna decide di separarsi dal compagno. Da questo momento la sua vita cambia: se da un lato un misterioso libro riesce ad affascinarla e a risvegliare tutti i suoi interessi, dall’altro, Tomaso Leoni, grafologo che l’accompagna nella risoluzione del segreto che ruota attorno a quelle pagine, forse riuscirà a farle battere il cuore come nessuno è mai riuscito a fare.
E’ mediante “Discorso sulla natura”, primo volume de “L’elogio della perfezione” (composto da: “Discorso sulla natura”, “Discorso sull’uomo” e “Discorso sul pensiero”) di Christian Philipp Fohr, che la protagonista viene a conoscenza dell’esistenza di Clarice Marianne Von Harmel, giovane nobile nata e cresciuta nel 1800 e in qualche modo legata al tedesco. Nel restaurare il testo, ormai lacero e rovinato dal tempo, essa recupera una lettera da quest’ultima scritta. Chiaramente questa rinvia agli altri capitoli, ma perché? Che indichi l’esistenza di un disegno più grande collegato alla trilogia? E che ruolo ha Clarice in tutto questo? Affiancata da Tomaso, Sofia non si fermerà davanti a nulla, perché deve scoprire dell’arcano. E sarà tramite questa analisi che ritroverà anche se stessa.
Con un linguaggio chiaro e elegante, Cristina Caboni dà vita ad un elaborato piacevole che racchiude al suo interno molteplici riflessioni su quella che è la condizione della donna e la sua evoluzione nei secoli. Lo scritto si fa scoprire rapidamente da chi legge e invoglia ad andare avanti soprattutto per la riscoperta dell’enigma che si cela dietro la figura dell’autrice delle lettere.
Unica difficoltà che ho riscontrato nello scorrimento è stata l’eccessiva impostazione fiabesca del componimento. La sensazione è infatti quella di trovarsi di fronte ad un testo che negli intenti ha un’ottima base di presupposti ma che nel concreto fatica a risultare plausibile perché troppo novellato. A più riprese, non celo, di essermi trovata a pensare di essere di fronte ad una favola.
Nel complesso, quindi, un libro gradevole, non impegnativo, adatto a chi ama le storie romantiche e con quell’alone di mistero radicato nel passato. Da leggere ma con questi presupposti.
«Non sarò certo io a doverle ricordare che i libri sognano. [..] Un libro sogna. Il libro è l’unico oggetto inanimato che possa avere sogni» p. 83 (cit. di Ennio Flaiano).
Maria Darida - 6 anni fa
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La salita dei saponari - Cristina Cassar Scalia
Imitazione mal riuscita di Camilleri nell'uso del dialetto. Racconto piuttosto confuso e personaggi con scarso approfondimento psicologico. Finale da dimenticare.
Giancarlo Mattei - 2 anni fa
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