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Le braci
«Il generale la osservava incuriosito, col busto ancora proteso. Le due vite fluivano assieme, con lo stesso lento ritmo vitale dei corpi molto anziani. Si conoscevano a fondo, più di quanto si conoscano madre e figlio, più di due coniugi. La comunione che univa i loro corpi era più intima di qualsiasi altro vincolo. Forse a causa del latte. Forse perché Nini era stata la prima a vedere il generale nell’attimo della sua nascita, coperto del sangue impuro in cui vengono al mondo gli uomini. Forse a causa dei settantacinque anni che avevano trascorso insieme, sotto lo stesso tetto, mangiando lo stesso cibo, respirando la stessa aria stantia della casa, con la stessa vista sugli alberi davanti alle finestre – avevano condiviso ogni cosa. Nessuna parola poteva definire il loro rapporto. Non erano né fratelli né amanti. Esiste qualcosa di diverso, e se ne rendevano oscuratamente conto. Esiste una fratellanza particolare che è più stretta e profonda di quella che unisce i gemelli nell’utero materno. La vita aveva mescolato i loro giorni e le loro notti, ciascuno dei due era consapevole del corpo e dei sogni dell’altro» p. 20 La vendetta. E’ soltanto per merito di questa che Henrik è ancora vivo. E adesso che Konrad ha scritto, è giunto il momento di assaporarne ogni aspetto, ogni gusto e retrogusto. La loro è un’amicizia che dura sin dalla nascita, è un sentimento indissolubile, che va oltre il canonico legame di sangue. Eppure, per quanto vicini, i due, non potrebbero essere più diversi. Differenti sono le origini sociali, differenti sono le disponibilità economiche, differenti sono i caratteri. Ed allora, com’è possibile, che essi siano al contempo così affini, così indivisibili, così uniti? E perché, ancora, quel legame si è rotto? Cosa è accaduto per far si che Henrik abbia aspettato ben quarantuno anni per la resa dei conti? Perché Konrad all’improvviso scompare senza dare spiegazioni e notizie? Perché il generale è sempre stato così certo del fatto che prima o poi questo sarebbe tornato per affrontare quei silenzi, quel “non detto” che a lungo è stato covato?
«Ma come tutti i baci umani anche questo, alla sua maniera tenera e grottesca, è la risposta a una domanda che non è possibile affidare le parole.» Maria Darida - 5 anni fa |
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Le ceneri di Angela - Frank McCourt
Eccellente, vale davvero la pena di essere letto, la traduttrice ha compiuto un mezzo miracolo nel rendere in italiano il fraseggiaare irlandese Gianni La Capra - 3 anni fa |
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Le cronache di Narnia - C.S. Lewis
Forse vi domanderete cosa si provi a leggere una saga fantasy per l'infanzia alla soglia dei 30 anni e questo è ciò che posso dire: è fantastico!
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Le libere donne di Magliano - Mario Tobino
E’ su un colle il manicomio, su un piccolo colle nella pianura lucchese. Il poggio si chiama S. Maria delle Grazie, il paese più vicino è Magliano e nella consuetudine locale, essere stati a Magliano significa essere stati matti. La struttura si divide in maschile e femminile e ciascuna divisione è ordinata e disposta secondo il grado di agitazione e pericolosità dei pazienti. Si parte dal livello dei più tranquilli e si arriva agli agitati, passando, tra l’uno e l’altro, ad un delirio all’altro. Conta tra i 1.039 e i 1.045 malati, assistiti da circa duecento infermieri (molti dei quali improvvisati e/o appena più eruditi dei contadini perché affezionati e fedeli alla mentalità chiusa, bigotta e stratificata della campagna in quanto “nel manicomio vedono l’aiuto finanziario alla loro impresa familiare e trattano gli ammalati con quella sagacità, ed anche quel distacco, che hanno i contadini a potare le viti; e però mantengono sempre un solido fondo umano, anche se si deve togliere una corteccia per arrivarci”) e vari medici. Tra questi, Tobino.
«Gli ho regalato un pacchetto di sigarette, e mi ha risposto con una gentilezza che i sani non hanno: “non le fumerò, le terrò per ricordo» Avvalersi, oltretutto, della scelta narrativa del diario attribuisce allo scritto il carattere-forza di testimonianza; delle condizioni di vita e di degenza delle ricoverate, ma anche di quella che è una patologia spesso e volentieri inspiegabile nei suoi meccanismi di origine e di sviluppo.
«Questi matti sono ombre con le radici al di fuori della realtà, ma hanno la nostra immagine (anche se non precisa), mia e tua, o lettore. Ma quello che è più misterioso domani potranno avere, guariti, la perfetta immagine, poi di nuovo tornare astratti, solo parole, soltanto deliri. Dunque è il nostro incerto equilibrio che pencola, e insuperbiamoci e insieme siamo umilissimi, che siamo soltanto uomini capaci delle opposte cose, uguali, nel corso delle generazioni, alla rosa dei venti» p. 29 La sua analisi si dipana su molteplici fronti, in particolare, nella delineazione della struttura quale luogo di protezione e di tutela dal mondo esterno che, ancora reduce dal secondo conflitto mondiale, è intriso di fame, ignoranza, paura, ingenuità, pregiudizio, ed ancora nella demarcazione sottile di quel labile confine che comporta la designazione del soggetto all’una o all’altra categoria di “sani e malati”.
«Così abbiamo, nel reparto medici, diretto inflessibilmente dalla malata Lella:
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Le sette morti di Evelyn Hardcastle - Stuart Turton
Sarei una bugiarda se non vi dicessi che sono stata attirata da questo libro unicamente dalla copertina e dal titolo dal suono alquanto bizzarro.
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Le tre del mattino - Gianrico Carofiglio
Era appena adolescente, Antonio, quando gli è stata diagnosticata la patologia dell’epilessia idiopatica. Dopo un primo consulto in Italia, il giovane, con il padre, matematico ed insegnante, e la madre, docente di lettere, ormai separati, decide di recarsi in Francia, a Marsiglia, presso lo studio del Dottor Gastaut, un luminare nel settore della malattia de qua. A seguito di questo la vita del paziente torna ad essere “quasi normale”, può riprendere gran parte di quelle abitudini a cui era stato costretto a rinunciare e la sindrome sembra ormai essere sotto controllo. Trascorsi tre anni (siamo circa nel 1983), padre e figlio – ormai diciottenne – tornano in quel de la ville francese per il responso ultimo: sarà Antonio definitivamente guarito oppure dovrà continuare a sottoporsi alla terapia?
«Ero scettico e lui per convincermi ha citato un grande matematico polacco, Stefan Banach: diceva che i buoni matematici riescono a vedere le analogie ma i grandi matematici riescono a vedere le analogie tra le analogie. E’ una definizione geniale, e il mio amico diceva che la stessa cosa vale per i giuristi: quelli bravi colgono le analogie, le omogeneità e le disomogeneità, i grandi le analogie fra le analogie. Sono capaci di portare il discorso su un livello diverso.» «Se la gente crede che la matematica non sia semplice, è soltanto perché non si rende conto di quanto complicata sia la vita» Maria Darida - 5 anni fa |
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Le vie del senso - Annamaria Testa
Consigliato in occasione de Il Maggio dei Libri 2022
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Lei - [un film di Spike Jonze
La presenza di Scarlett Johansson nel cast è limitata alla sua voce che comunque caratterizza con sfumature affascinanti il sistema operativo di cui si innamora,ricambiato,il protagonista. Chiunque voglia bearsi della sua interpretazione,dovrà guardare il film nella traccia originale oppure accontentarsi in alternativa della voce di Michela Ramazzotti. E il paragone premia senza alcun dubbio la Johansson! Angelo Amenta - 7 anni fa |
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Leone - Paola Mastrocola
Un libro che non arriva fino in fondo. Le parti dove descirve i sentimenti del bambino sono molto belle, ma per il resto manca di sostanza. Non vedo neanche la magia che ci dovrebbe essere.
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Lo straniero - Albert Camus
COSÌ È... Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Il primo incontro del lettore con l’uomo avviene con la scoperta della morte della madre. Sin da queste iniziali battute egli appare come un individuo anaffettivo, apatico; in realtà egli, come chi legge, è vittima di quel sentimento a cui è impossibile dare un nome quando una persona cara, ed ancora di più un genitore, viene a mancare. Per questo, di primo acchito, viene spontaneo rifiutarlo, egli è diverso dal comune immaginare sé stessi. E se già da questa primordiale partenza il lettore nutre nei confronti del protagonista, sentimenti ambivalenti, nel susseguirsi della vicenda egli risulta essere ancora più lontano dalla dimensione dell’odierno conoscitore. Una colluttazione con un arabo sulla spiaggia ed il conseguente gesto del protagonista, ne segnano le sorti: verrà arrestato e condannato a morte e mai cercherà conforto nella religione. Durante le fasi processuali, tra l’altro, viene spontaneo chiedersi: ma Meursault è a processo per aver ricoverato la madre in un ospizio, per non aver pianto al suo funerale e per non aver chiesto perdono a Dio, o perché ha ucciso un uomo? Altra riflessione si sostanzia in quelli che sono gli ultimi momenti della sua vita: l’assurdità palese della situazione mixata ad un universo di circostanze di indifferenza e insensibilità verso l’umanità induce, a ritenere che il reo possa trovare consolazione solo in quel destino comune che alla “fine dei giochi” lo accomuna ad ogni incensurato, ponendoli – entrambe le “categorie” – indistintamente sullo stesso identico ago della bilancia.
«E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi» p. 107 «Non mi ero reso conto di quanto i giorni potessero essere al tempo stesso lunghi e brevi. Lunghi da vivere, senza dubbio, ma così dilatati da finire per riversarsi gli uni negli altri. Sino a perdervi il proprio nome. Ieri e domani erano le uniche parole che conservassero un senso per me» p. 108 «Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era neanche sicuro di essere vivo, perché viveva come un morto. Certo, io sembravo a mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e della morte che mi aspettava. Si, non avevo altro. Ma almeno possedevo quella verità quanto lei possedeva me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in un modo e avrei potuto vivere in un altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto quella cosa ma avevo fatto quest’altra. E dopo? Era come se avessi aspettato per tutta la vita quel minuto e quell’alba che mi avrebbero giustificato. Niente, assolutamente niente aveva importanza, e sapevo bene perché. Anche lui sapeva perché» p. 155 Maria Darida - 6 anni fa |
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