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Leone - Paola Mastrocola
Un libro che non arriva fino in fondo. Le parti dove descirve i sentimenti del bambino sono molto belle, ma per il resto manca di sostanza. Non vedo neanche la magia che ci dovrebbe essere.
Non lo consiglio.
Kristina Wallin - 4 anni fa
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Lo straniero - Albert Camus
COSÌ È...
Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Il primo incontro del lettore con l’uomo avviene con la scoperta della morte della madre. Sin da queste iniziali battute egli appare come un individuo anaffettivo, apatico; in realtà egli, come chi legge, è vittima di quel sentimento a cui è impossibile dare un nome quando una persona cara, ed ancora di più un genitore, viene a mancare. Per questo, di primo acchito, viene spontaneo rifiutarlo, egli è diverso dal comune immaginare sé stessi. E se già da questa primordiale partenza il lettore nutre nei confronti del protagonista, sentimenti ambivalenti, nel susseguirsi della vicenda egli risulta essere ancora più lontano dalla dimensione dell’odierno conoscitore. Una colluttazione con un arabo sulla spiaggia ed il conseguente gesto del protagonista, ne segnano le sorti: verrà arrestato e condannato a morte e mai cercherà conforto nella religione. Durante le fasi processuali, tra l’altro, viene spontaneo chiedersi: ma Meursault è a processo per aver ricoverato la madre in un ospizio, per non aver pianto al suo funerale e per non aver chiesto perdono a Dio, o perché ha ucciso un uomo? Altra riflessione si sostanzia in quelli che sono gli ultimi momenti della sua vita: l’assurdità palese della situazione mixata ad un universo di circostanze di indifferenza e insensibilità verso l’umanità induce, a ritenere che il reo possa trovare consolazione solo in quel destino comune che alla “fine dei giochi” lo accomuna ad ogni incensurato, ponendoli – entrambe le “categorie” – indistintamente sullo stesso identico ago della bilancia.
Questo particolare personaggio di Camus, un uomo senza mappa e senza coordinate, un individuo non immorale ma perduto proprio come lo scrittore nella realtà immagina essere coloro che popolano il suo tempo, spiazza ed infastidisce tutti coloro che, abituati ad uno sviluppo e maturazione del protagonista, assistono al suo mancato pentimento. Egli infatti non si giustifica, non si difende. Si limita a rispondere con dei brevi “si”, “no”, “Non ho niente da aggiungere” alle domande che gli vengono poste e questo perché nel suo intimo sa che verrà condannato perché così è e così è sempre stato: come non ha potuto decidere della sua nascita similarmente non potrà decidere della sua morte. Che questa accada per espiare ad una pena o semplicemente per vecchiaia, malattia, incidente stradale o altro, non fa la differenza.
In tanti modi può essere interpretato “lo straniero” di Camus. Certamente l’analisi può partire dal concetto di responsabilità. Lo straniero è di fatto irresponsabile perché subisce gli eventi sottraendosi alla ragionevolezza perché solo chi è consapevole di ogni suo gesto può agire per modificare il suo futuro, il suo destino. Camus dunque muove dal presupposto: responsabilità e ragionamento come strumenti per migliorare le vite di chi entra in contatto con noi (e di conseguenza le nostre), ragionamento e responsabilità nell’ottica di azioni che hanno un significato, un peso, così come ogni parola. E lo scrittore sceglie, sceglie sempre perché non ci sono mali peggiori da evitare, o prese di posizione da difendere, bensì decisioni da condividere e da valutare per poterne pienamente constatare il senso ed evitare dunque di procedere per dogmi e illusioni. Ma quindi chi è lo straniero? Lo straniero non è chi appartiene ad una diversa cittadinanza o chi non si riconosce in se stesso, è tale chi convive con un denominatore comune di sofferenza, difficoltà e debolezza. E solo e soltanto agendo il soggetto potrà fare qualcosa; forse non potrà cambiare il mondo, ci sussurra Albert, ma certamente potrà migliorare la propria qualità di vita.
Per Camus scrivere è una forma di liberazione. Sin dalla tenera età è abituato ai sacrifici; figlio di lavoratori concepirà l’ideologia come una macchina di giustizia troppo lontana dalla vita reale. Fondamentale è l’equilibrio, condizione a cui per primo si sottopone poiché egli è per primo estraneo a tutto: alla Francia che lo considera algerino, all’Algeria che lo considera straniero, ai comunisti che lo considerano un reazionario e paradossalmente anche ai conservatori che lo considerano comunista. Questa condizione di estraneità lo sottopone ad una riflessione continua ed incessante che non lo abbandona mai e che lo porta ad interrogarsi sul senso della vita e su quali sono i motivi per cui valga la pena viverla. Con “lo straniero” affronta tutto questo – concludendo ed approfondendo il ragionamento ne “la peste –, consacra l’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo, e riesce a descrivere l’esistenza come un qualcosa che, casualmente ma non senza causa, semplicemente, accade.
«E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi» p. 107
«Non mi ero reso conto di quanto i giorni potessero essere al tempo stesso lunghi e brevi. Lunghi da vivere, senza dubbio, ma così dilatati da finire per riversarsi gli uni negli altri. Sino a perdervi il proprio nome. Ieri e domani erano le uniche parole che conservassero un senso per me» p. 108
«Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era neanche sicuro di essere vivo, perché viveva come un morto. Certo, io sembravo a mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e della morte che mi aspettava. Si, non avevo altro. Ma almeno possedevo quella verità quanto lei possedeva me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in un modo e avrei potuto vivere in un altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto quella cosa ma avevo fatto quest’altra. E dopo? Era come se avessi aspettato per tutta la vita quel minuto e quell’alba che mi avrebbero giustificato. Niente, assolutamente niente aveva importanza, e sapevo bene perché. Anche lui sapeva perché» p. 155
Maria Darida - 6 anni fa
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Lo strano caso dell'apprendista libraia - Deborah Meyler
Esme Garland, ventitré anni, è una giovane ragazza inglese in quel di New York. Dottoranda presso la Columbia, la studentessa ha instaurato una presunta relazione amorosa con Mitchell van Leuven docente di economia appartenente ad una famiglia più che benestante. Vuoi per la disattenzione di lui, vuoi per l’ingenuità di lei, la jeune femme si scopre incinta (non ha bisogno nemmeno di constatare un ritardo nel ciclo per rendersene conto, è per lei sufficiente un mero maggiore appetito durante un pranzo con il compagno per appurarsene. Il test di gravidanza, non farà che confermare la sua autodiagnosi). Che fare? Abortire o tenere il bambino? Dirlo al padre oppure tacere? Alla fin fine escono soltanto da poche settimane ed hanno avuto un unico rapporto senza protezione… Sulla scia di questi pensieri la Gardland opta, senza francamente aver ponderato bene le conseguenze e la portata delle sue scelte, di proseguire con la gravidanza.
Sa benissimo di essere sola avendo i genitori in terra madre, di non poter contare sul professore, di non avere risorse economiche per mantenere il nascituro ma non vuole interrompere il flusso di vita che le sta crescendo dentro e così va avanti, con il dottorato da un lato, e trovandosi un lavoro presso la Civetta – una deliziosa libreria locale, dove presterà la sua opera nel pomeriggio – dall’altro. E’ qui che conoscerà Luke, George, Dennis e tutta una serie di personaggi che nel concreto la sosterranno nei mesi che l’aspettano.
Dal punto di vista amoroso, la ragazza si ostina. E’ chiaro ed inequivocabile che Mitchell non la ricambia; più volte infatti l’ha tradita, ha mal reagito alla rivelazione di poter diventare padre (non sia mai! Un figlio fuori dal matrimonio con il mio rango sociale? Ma non scherziamo) e non è mai venuto meno ai suoi impegni e ai suoi interessi per aiutare la libraia. In ogni momento, di difficoltà e non, lui non si è mai dimostrato disponibile inducendo Esme a fare affidamento quando sulla vicina di casa Stella, quando su Luke, quando sui colleghi di lavoro. E’ il classico padre padrone che la vorrebbe relegare dietro ai fornelli, e che insensibile ai desideri della fidanzata (arriverà persino a chiederle di sposarla pur di ottemperare all’errore fatto, richiesta che nel suo intimo cela una inesauribile sete di controllo), vorrebbe pianificare ogni sua attività giornaliera; attività in cui ovviamente non è contemplato il dottorato. Il lavoro? Nemmeno questo è apprezzabile poiché lo staff della Civetta è eccessivamente maschile.
E lei? Semplice, lei tace, assorbe e si fa schiacciare da lui sino alla “rivelazione”. Il problema è che Esme confonde l’amore con l’infatuazione senza accorgersi di chi ha veramente accanto, senza ascoltare quel che il suo istinto ed il suo cuore le sussurrano.
Stilisticamente l’opera non cattura, si perde in dettagli di poco conto, non approfondisce gli aspetti che al contrario avrebbero potuto fare leva sul lettore, primo fra tutti Luke e la Civetta. I personaggi non funzionano, sono scarsamente delineati, superficiali così come i dialoghi che li vedono partecipi. Non solo, l’autrice si incaponisce in modo aberrante sulla figura di Mitchell, che diventa una fissa per la protagonista (ed un riccio sotto un piede per il lettore), quando invece, sfoltendo su questo aspetto (che è quasi la totalità dell’opera, badate bene) e concentrandosi maggiormente sulla libreria e i rapporti umani – non necessariamente amorosi –, avrebbe reso l’elaborato nettamente più piacevole, di facile scorrimento e concreto. Il titolo è oltretutto fuorviante, inadatto, inadeguato.
Apprezzo l’idea del finale in sospeso, chiaro tentativo di dimostrare quanto la vita in realtà sia in bilico e quanto non si possa sempre auspicare al “lieto fine”, ma nel complesso il testo non convince, non arriva. Se si esclude la libreria, troppe sono le leggerezze, troppi gli aspetti tirati via, troppe le circostanze lasciate al caso.
Maria Darida - 6 anni fa
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Lo stupore di una notte di luce - Clara Sánchez
E’ già trascorso un anno e mezzo dagli avvenimenti di Dianium; un anno e mezzo che per Sandra è una vita intera. Il piccolo Julian, detto Janìn, figlio della protagonista e di Santi, è nato ed è un bambino allegro e spensierato che si gode la sua infanzia tra sorrisi, giovialità e dentini che spuntano. La giovane donna ha altresì rinunciato ai piercing e alla florida chioma rossa che la caratterizzava, e tornata al moro naturale, ha trovato impiego nel negozio della sorella, uno store di abiti e bigiotteria dove è socia seppur il capitale sia stato interamente versato dalla consanguinea, ed ha acquistato un appartamento in cui crescere l’infante. Julian, l’ottantenne zelante che abbiamo conosciuto né “Il profumo delle foglie di limone” non ha lasciato la Spagna, non ha fatto ritorno dalla figlia Esther, si è stabilito in pianta stabile ai “Tre ulivi” luogo ove ha avuto modo di constatare che nonostante il colpo inflitto con la sua denuncia, la Confraternita, ha ancora degli adepti, e la venerazione nei confronti de “Il macellaio di Mauthausen”, da tutti conosciuto come Bert, ne è una prova. Ma l’anziano non ha piena consapevolezza di quanto gli ingranaggi dell’organizzazione siano ancora attivi; dovrà attendere l’arrivo di Sandra, a cui nel mentre viene depositato un bigliettino nel passeggino di Janin, scritto chiaramente riferito ai fatti di Dianium, per averne contezza.
Ma non è finita qua. Tanti sono i misteri che si celano dietro le pagine di questo nuovo e tanto atteso seguito di una delle opere più discusse degli ultimi anni. Un sospetto muove infatti l’ottantenne: e se Salva, l’amico e compagno di campo di concentramento che lo aveva indotto a recarsi in Spagna per rivelare al mondo l’esistenza della colonia nazista, non fosse morto per un collasso cardiocircolatorio bensì fosse stato ucciso per quello che aveva scoperto? E perché la Confraternita ha un così forte interesse nei confronti del figlio di Sandra? Cosa stanno pianificando le nuove leve?
Con “Lo stupore di una notte di Luce” Clara Sanchez dà vita ad un degno sequel del best seller che l’ha resa nota e consacrata al pubblico letterario; un romanzo dove la trama di per sé è abbastanza semplice e lineare ma caratterizzata da quel giusto mix di mistero e curiosità che induce chi legge ad andare sempre avanti sino a scoprire di questo. Ribadisco, la narrazione non presenta particolari caratteri di novità e/o originalità, va letta con la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un elaborato che ha nei suoi intenti quello di far rivivere la magia de “Il profumo delle foglie di limone” e al tempo stesso di approfondire le vicende senza esagerare, evitando di risultare eccessivo.
Lo stile adottato è il medesimo che già chi ha letto il precedente conosce, ovvero quello dell’alternarsi della voce narrante tra Julian e Sandra. Altra peculiarità è data dal fatto che l’autrice ripercorre passo passo e sinteticamente gli avvenimenti che hanno delineato le scorse vicende talché la lettura è agevole anche per chi si avvicina per la prima volta alla saga nonché alla Sanchez.
Infine, il linguaggio è sufficientemente elaborato, non troppo prolisso e fluente. I personaggi non sono particolarmente delineati ma arrivano, risultano concreti; in particolare Julian e la sua coscienza di non avere più vent’anni. Nel complesso una piacevole lettura, non eccelsa ma adatta a chi vuole trascorrere qualche ora in compagnia di una storia che sa farsi apprezzare.
«Di fronte alla morte, [..], i desideri smettono di avere anche solo la minima importanza» p. 11
«Si sorride perché si è felici o perché qualcuno si sbaglia del tutto e ci vorrebbe un secolo per farglielo capire» p. 228
«E il fatto è che esiste un male che è peggiore del male, lo sorpassa e si addentra in una profondità senza legge. Qualcosa che assomiglia al colore nero assoluto, che non può essere attraversato da nessun tipo di raggio. Il male assoluto camuffato da bene, che continua a regnare tra di noi quando ormai crediamo che il male in sé sia sotto controllo. Sarà possibile un giorno mettervi fine una volta per tutte? Troppo complicato per questo povero vecchio, che adesso non vuole fare altro che riposare» p. 393
Maria Darida - 6 anni fa
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Lone survivor - directed by Peter Berg
nell inizio …. sembrava il solito film dei marins americani
poi con il passare del tempo scopri quanto è bello---
mi è piaciuto tantissimo...…….
Gianmarco Lunardi - 4 anni fa
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Lungo cammino verso la libertà - Nelson Mandela
Di tanto in tanto mi piace cimentarmi con la lettura di un'autobiografia per scoprire storie di vita vissuta da personaggi che hanno fatto la differenza nel mondo. Devo ammettere che questa è stata una lettura molto lunga, ma ne è valsa la pena. Vi lascio un passo che mi è particolarmente rimasto impresso:
"Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione, o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l'amore, per il cuore umano, è più naturale dell'odio."
Valentina Pifferati - 2 anni fa
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? - Philip K. Dick
Per molti leggere di un universo in cui gli uomini convivono con gli androidi, in cui l’umanità ha colonie sparse per la galassia e l’essere robotico è la fonte di compagnia/servitù per eccellenza per il nostro genere di appartenenza è un qualcosa di inconcepibile, implausibile. Eppure sempre più la tecnologia si sta muovendo verso questi lidi, verso questi nuovi traguardi, tanto che le opere di autori maitre del settore quali Asimov e Dick, seppur appartenenti a due tipi di fantascienza distinti, non sono più così improbabili, inimmaginabili, anzi.. Come noto “ma gli androidi sognano pecore elettrice” è il romanzo da cui è stato tratto il celebre“Blade Runner” e se dunque siete amanti della tipologia è il testo adatto a voi.
Le vicende narrate si svolgono interamente nell’arco di una giornata estremamente lunga e faticosa per il protagonista, il cacciatore di taglie Rick Deckard; 8 nuovi androidi modello Nexus 6 illegalmente fuggiti da Marte hanno fatto ritorno sulla Terra e suo compito è quello di ritirarli (eliminarli) quanto prima. Il problema è che questi prototipi sono perfette riproduzioni degli organismi autentici, le differenze sono minime e dunque sempre più complesso è individuarli, non commettere l’errore di colpire un corpo notoriamente considerato vivente anziché un prodotto della scienza.
Non solo, la Terra è descritta come un luogo distrutto da una polvere che cade dal cielo come pioggia, questa ha primariamente colpito le cavallette, di poi gli uccelli ed infine tutti gli altri abitanti del pianeta, nessuno escluso, anche l’uomo infatti non è immune da suoi effetti tanto da, una volta esserne venuto in contatto, essere classificato quale “un cervello di gallina” o un “cervello di formica”, catalogazione a cui segue l’essere ridotto a lavori dove è richiesta la minima intelligenza e l’interdizione al migrare verso altri corpi celesti. La popolazione mondiale è perciò decimata, la maggior parte si è trasferita su Marte o altre colonie e i restanti vivono dediti al “mercerianesimo” una pseudo religione che fa leva sul legame empatico ed il cui messia altro non è che Mercer, da qui il nome della fede. Ma chi è questo Dio? Non è altro che un ubriacone, non è altro che mercificazione (Mercer non significa infatti Mercy bensì merchandise) e come fa l’organismo autentico a prendere consapevolezza di tale assunto? Grazie, ironia della sorte, all’androide che svela all’umanità che non esistono ideali assoluti a cui tendere, che ciò che è bene per uno non è necessariamente bene – ne tantomeno male – anche per l’altro, che in definitiva gli uomini non sono poi così veri perché credono ciecamente nella finzione, così, per partito preso senza interrogarsi sull’autenticità.
Un aspetto che viene particolarmente evidenziato nel testo è il legame con gli animali. Mentre nella nostra società il benessere è rappresentato dall’oggetto in sé per sé (dall’avere il telefono di ultima generazione al SUV superaccessoriato) nel mondo dispotico di Deckard questo è costituito dalla proprietà di un animale vero e non elettrico. Il “catalogo Sidney” offre la stima dei prezzi di ciascuno di questi, e il nostro protagonista non è immune dal desiderio di possederne uno vero tanto che decide di concludere il lavoro, nonostante tutti i dubbi morali che lo assalgono durante lo scorrere degli avvenimenti, soltanto per poter coronare tal desiderio.
Il romanzo è intriso di neologismi, numerose sono le questioni che vengono poste al lettore che pagina dopo pagina indirettamente arriva a chiedersi cos’è veramente l’umanità, cosa rende umani e cosa no, quanto inficiano la coscienza e la consapevolezza su tale requisito, quanto alla fin fine gli androidi siano semplici prodotti di laboratorio e non anche qualcosa di più. Considerazioni a cui va aggiunto il fatto che attualmente ciò che ci permette di porci sul “piedistallo” è appunto il possesso di qualità quali l’intelletto, la conoscenza, la coscienza rispetto agli animali, nostri attuali metri di paragone. Qui la domanda sorge spontanea. E se lo scenario mutasse e dunque la società non fosse composta soltanto dal binomio uomo-animale ma a questo si aggiungesse il fattore androide, prodotto di laboratorio capace di dimostrarsi più utile in determinati incarichi, più versatile nello svolgimento di molteplici funzioni, su quali elementi potremmo fondare la nostra pretesa di superiorità? Quali caratteri potremmo addurre al fine di evidenziare una loro appartenenza al solo genere macchina ed una nostra qualità preponderante sull’organismo cibernetico? Dick ci suggerisce una risposta e questa è l’empatia, la capacità di immedesimarsi negli altri, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni, gioie e sofferenze, e lo fa a tratti con particolare rudezza (basti pensare alla mutilazione del ragno dinanzi a J.R. Isidore).
Eppure lo stesso autore sembra volerci suggerire, tra le righe ,che anche questa qualità è un qualcosa che non ci dà una sicurezza totale in quanto gli androidi, descritti quali soggetti con una propria individualità, intelligenza, capaci di fare del bene quanto di complottare per raggiungere scopi talvolta moralmente discutibili, non è detto che non acquisiranno mai tale caratteristica così come, il loro altro handicap identificato nella brevità della vita per ancora l’incapacità di riprodurre le cellule, non è un ostacolo invalicabile poiché il loro creatore uomo con le scoperte scientifiche riuscirà a correggere anche queste piccole imperfezioni. E quando anche questo traguardo sarà raggiunto, cosa ci differenzierà davvero da loro? Niente. L’umanità si sarà auto-annientata.
Il testo va assaporato, non è una di quelle opere che possono tranquillamente leggersi in un paio di giorni perché con significato relativo, è composto da capitoli brevi, scelta che permette alla mente del lettore di restare sempre vigile.
Maria Darida - 6 anni fa
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Macchine come me e persone come voi - Ian McEwan
Questo romanzo è stato una vera sorpresa. Ne avevo sentito parlare alla radio durante il periodo della sua uscita e avendomi incuriosita l'ho segnato nella mia lista dei libri da leggere. Dopo circa un anno e mezzo sono arrivata a leggerlo senza nemmeno ricordarmi di cosa parlasse (faccio spesso così, almeno evito di rovinarmi l'effetto sorpresa) e, che dire, è stato geniale. La storia è ambientata negli anni 80, ma non sono quelli realmente accaduti, bensì una versione alternativa, una sorta di realtà parallela alla Sliding Doors. La tecnologia è molto più avanti della contemporanea, tanto che sono appena usciti in commercio Adam e Eve, robot umanoidi capaci di fare qualsiasi cosa. Tranne provare sentimenti, cosa che i robot non potranno mai fare. Oppure si? Lo scopriremo solo col tempo tramite gli occhi di Charlie e Miranda, protagonisti con una lunga serie di difetti grazie ai quali riusciamo ad entrare in empatia. Questa storia ha proprio tutto: un po' fantascienza, un po' romanzo rosa, un po' giallo e perché no, anche storia (diversa, ma talmente plausibile da farvi andare a controllare come sono andate realmente le cose). Insomma, ve lo consiglio senza se e senza ma.
Valentina Pifferati - 2 anni fa
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Macerie prime - Zerocalcare
Il continuo di macerie prime. Mi è piaciuto molto la risoluzione, come si intrecciano le vicende dei protagonisti in una realtà parallela e nelle relazioni di Zero. Il mondo interiore di zero calcare con tutti i riferimenti al mondo immaginario e reale di una generazione che ci è familiare. Alla fine le vicende si sbrogliano e si ricongiungono. Mitizzazione e smitizzazione si bilanciano e si rincorrono sullo sfondo dell’attualità e delle vicende personali del protagonista.
Antonio Rossi - 2 anni fa
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Malinverno - Domenico Dara
«Osserva sempre la gente con attenzione, Astolfo, fissa i particolari, che ognuno, la sua storia vera, non la porta stampata sulla faccia ma nascosta dentro pieghe invisibili della pelle.»
Astolfo Malinverno sin da quando ha memoria, ha memoria delle parole. Articolate dalla madre, narrate dalle voci, lette dai libri. Parole che sono balsamo per il cuore, moto per vivere la vita con quell’emozione mancata, sentimento, verità. Un po’ come lo stesso ricordo di quella madre che tenendolo stretto al petto oltre che a insegnargli ad ascoltare i battiti del cuore, gli insegnava a osservare le esistenze vicine e lontane. È nato con un difetto alla gamba, leggermente più corta, eppure, è proprio questo difetto che gli consente da adulto di diventare il bibliotecario di Timpamara e inaspettatamente, poi, anche il custode di quelle anime accomiatate nel suo cimitero.
«Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie.»
Ed è dal momento in cui viene incaricato di prendersi cura anche di quel luogo ove sono custodite le spoglie mortali dei cari degli abitanti del paese, che la sua vita cambia. Seppur all’inizio egli prenda con confusione l’incarico attribuitogli, ne rimanga perplesso, sorpreso, stranito, di poi si rende conto che al contrario quel luogo è una casa esattamente come la biblioteca e che, come nelle più inaspettate delle sorprese, lo sente suo. È durante uno dei suoi giri di perlustrazione iniziali che l’occhio gli cade sulla tomba di una donna dai lineamenti magnetici, dall’assenza di alcun riferimento sulla nascita, la morte, il nome, le origini. Ella è un’anima che lo ha chiamato e da allora lui la chiamerà Emma come la Emma di “Madame Bovary” di Flaubert. I giorni passeranno tra sogno, immaginazione, desiderio di conoscere il vero e tanta introspezione perché Malinverno per mezzo di questa donna del ritratto comincerà a interrogarsi sul suo vissuto, sul suo essere, sui suoi legami. E tutta quella quotidianità ostinatamente e minuziosamente costruita negli anni verrà ulteriormente infranta da un’altra figura che subentrerà nella sua vita con un mistero a farle da cappotto.
«Ci sottovalutiamo. Pensiamo di non essere capaci di affrontare certi dolori ma poi, alla prova dei fatti, dai meandri inesplorati del nostro organismo emergono minute molecole di sopportazione che si mischiano alle piastrine del sangue e irrobustiscono il corpo e ci fanno sopravvivere, malgrado ogni tentazione di arrendevolezza, come se Natura sapesse quanti dolori può distribuire, conoscesse la portata d’ognuno e mandasse il dolore giusto, quello che colma le misure senza affondarle, che noi nemmeno sapevamo di essere così resistenti ma Natura sì, Natura sapeva.»
Ha inizio da questi brevi assunti l’ultimo lavoro di Domenico Dara, testo quello presentato, che è intriso di una malinconica dolcezza e che con grande sensibilità e semplicità ci porta a guardarci dentro, a porci a nostra volta delle domande. È un libro intriso anche di nostalgia ma anche di tanta umanità, una umanità che trasuda da ogni pagina per mezzo della voce non solo del protagonista ma anche per mezzo delle voci di tutti gli abitanti del paese. A far da cornice e a esser parte portante dello scritto è ancora la letteratura, prevalentemente – ma non esclusivamente – classica che passando dal Don Chisciotte a Moby Dick ricompone quello che è l’io di Astolfo. Quest’ultimo è un protagonista che naturalmente suscita empatia nel lettore, che entra nelle sue grazie, in parte per la sua sensibilità, dolcezza e gentilezza, in parte per la grande immedesimazione che suscita. Ancora, ad impreziosire vi è la curiosità di far luce sull’arcano, un arcano a mio modesto parere intuibile ma la cui intuibilità non inficia sul proseguimento della lettura perché a prevalere è il viaggio posto in essere dal lettore per mezzo della voce di Malinverno.
L’opera scorre tra le mani del conoscitore con ritmi diversi. Accelera, rallenta, accelera ancora. Scuote per quel carattere malinconico che la caratterizza, per quell’aspetto nostalgico di cui è impressa, arriva per quella dolcezza sottesa che l’accompagna eppure può suscitare due reazioni diverse in chi legge: può trattenerlo o può respingerlo. E questo a causa della prosa narrativa di cui è caratterizzato. Questo continuo riferimento alla letteratura è uno degli aspetti forti del titolo ma anche più deboli perché rischia di far perdere di vista quello che è il filone centrale della narrazione e rischia altresì di far scemare l’interesse che se all’inizio è onnipresente ed è mosso anche da questo carattere, a lungo andare ne risente, affaticando e appesantendo l’avventura. Ancora, a rischiare di respingere il lettore vi è il tema che viene trattato che non è dei più semplici e nemmeno dei più allegri. Se queste ambientazioni e queste argomentazioni non sono di vostro interesse, infatti, il volume non riuscirà a colpirvi.
Ultimo nemico è la logica. Logica e riscontro nella verità che può rendere fallace alcuni passaggi nodali dell’evoluzione delle vicende, soprattutto se nel corso della vita si è vissuto almeno una parte di quell’esperienza che è la realtà della separazione da un legame e la realtà cimiteriale. Ecco perché consiglio la lettura di “Malinverno” staccandosi dalla logica, staccandosi dal dato del vero a ogni costo.
“Malinverno” è una storia che va letta lasciandosi trasportare dalle parole, facendosi condurre per mano da Dara, senza porsi troppe domande e senza cercare troppe risposte. È un viaggio introspettivo e come tale va vissuto. E allora sì che arriverà con tutta la sua forza e tutto il suo contenuto. Viceversa, potrà subire delle battute d’arresto, essere vissuto come farraginoso.
Infine, lo stile. Domenico Dara è dotato di una prosa magnetica, evocativa, musicale. Incuriosisce, trascina, trattiene ma rischia anche di “andare fuori rotta” per le digressioni continue che possono portarlo a essere un po’ troppo prolisso. Il libro conta 329 pagine ma sarebbe arrivato anche con una cinquantina di queste in meno, o comunque con qualche piccolo taglio o limatura. Ciò rischia di renderlo un autore non per tutti. Cosa che non deve essere necessariamente considerata come un difetto, anzi.
Leggere “Malinverno” è una esperienza sensoriale. Lascia tanto e arriva durante la lettura ma soprattutto dopo questa, a distanza di tempo. Commuove, emoziona, palpita.
«Perché se il destino dei libri è morire come esseri viventi, anche gli uomini, quando smettono di respirare, non diventano che storie.»
Maria Darida - 2 anni fa
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