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Un'amicizia
«Ma cos’è un’amicizia? Non avevo vincoli di sangue né giuridici, diritti e doveri, ero semplicemente lì con lei su quella panchina a franare. La abbraccia più forte che potevo. Le asciugai le lacrime, provai a contenere la sua disperazione mentre si ribellava […] tentai di rassicurarla, consapevole di mentire. Perché le parole a questo servono: a sperare, ingannare, abbellire e migliorare, ma la realtà è un’altra e se ne frega dei nostri desideri.»
Bea ed Elisa sono come il giorno e la notte, distanti e diverse, un universo parallelo che non si sa per quale gioco del destino o regola matematica violata, giungono a incrociare le loro strade e a vivere gli anni più intensi della loro vita insieme sino al sopraggiungere di quello che sappiamo già dalle prime pagine essere un punto di rottura che come le ha unite le porterà a separarsi.
Siamo a T una fatiscente cittadina di periferia situata in Toscana, nei pressi di Livorno, con vista panoramica sulle isole dell’arcipelago. Elisa è la straniera, la forestiera. È giunta da Biella con la madre e il fratello con sempre più gravi problemi di droga, per tornare a vivere con il padre che non vede se non in occasioni ben prefissate essendo i genitori separati. Non si ama, non spicca per bellezza nonostante i suoi capelli rossi e quelle lentiggini che le solcano il viso. È presa in giro dai compagni, sbeffeggiata. Vive di parole ed è grazie alle parole e alla biblioteca che vede per la prima volta Lorenzo, coetaneo compagno di liceo del quale si invaghisce. Ed è ancora tra le mura di questo complesso che il suo rapporto con Bea passa dall’essere quello di derisione a quello di amicizia. Lei che è la più bella, che è già famosa per i suoi servizi fotografici, che mai può permettersi di prendere un chilo o di avere un ricciolo libero da quella chioma rigorosamente piastrata, diventa la sua migliore amica.
Passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni. Siamo a cavallo degli anni duemila e con questi passano le vecchie abitudini del vecchio mondo e arrivano le nuove dettate da quella cosa chiamata internet ancora sconosciuta e perfino denigrata. Il padre di Elisa è un ingegnere e subito ne resta affascinato, ci si tuffa a capofitto e propone alle ragazze anche di aprire un blog. Erano tempi diversi, erano i primi spiragli di quello che sarebbe diventato il mondo e se Elisa è reticente, Bea ha già fiutato l’occasione e iniziato a perpetrare la sua strada. Si impone come la bella, viene denigrata e definitiva frivola per questo, eppure questo suo essere la porterà a fatturare 50 milioni di euro l’anno quando non sarà più Beatrice ma la Rossetti e di anni ne saranno passati quindici. Perché la Rossetti ci ha visto lungo e adesso tutto è cambiato, tutto ha uno spessore diverso. Anche la loro amicizia, un’amicizia che viene rivissuta per mezzo di diari di scuola e poi stesa su carta in un giorno con un altro in prossimità della Vigilia di Natale…
«Per quanto oggi possa suonare incredibile quando cominciarono a diffondersi i blog erano territorio di conquista non per quelle come Bea, ma per quelle come me. A chi navigava nel 2003 non fregava nulla di bellezza o di vestiti: erano aspiranti scrittori, oppure “amanti di qualcosa” come mio padre, che desideravano condividere la propria passione, persone in vena di esplorazioni e amicizie. L’imperativo era scoprire, non mostrarsi.»
Ma cosa ne è stato di Beatrice e di Elisa? Perché la loro amicizia è giunta alla fine? Cosa è successo? Silvia Avallone torna in libreria con “Un’amicizia”, opera che riporta l’attenzione del lettore a riflettere su un tempo che ormai ci sembra lontano anni luce ma che in realtà non lo è. Ci porta a guardarci indietro, a chiederci cosa è stato e cosa è, ci chiede di dare uno sguardo al nostro essere stati e al mondo che ci circonda. E ci chiede, ancora, se tutto questo, è davvero necessario, se una vita per essere vissuta ha davvero bisogno di essere raccontata.
Tanti sono i temi che affronta, senza paura e senza nulla risparmiare al conoscitore. C’è tanta filosofia, inoltre, tra queste pagine e c’è anche tanta introspezione. Lo stile narrativo è rapido, pungente, trattiene. Accelera per poi leggermente rallentare nella seconda parte quando è proprio la vicenda che ti chiede di diminuire la marcia della lettura per afferrare quei concetti, quei sottesi che chiedono di emergere tra le fila. La storia è interamente narrata da Elisa e il conoscitore è catapultato nella sua mente, nei suoi pensieri.
Un libro attuale, che chiede di essere letto, che parla di una storia che riguarda tutti noi e che semplicemente resta. Buona lettura!
«La vita ha davvero bisogno di essere raccontata, per esistere?»
Maria Darida - 1 anno fa
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Una perfetta sconosciuta - Alafair Burke
La trentasettenne Alice Humphrey mai si sarebbe aspettata che quel lavoro, caduto dal cielo proprio nel momento del bisogno, si sarebbe rivelato un’arma a doppio taglio. Quando infatti il sedicente Drew Cambell le propone di gestire una piccola galleria nel Meatpacking District, la “Highline Gallery”, la donna, che da otto mesi è in stato di disoccupazione, accetta senza porsi troppe domande. Non si insospettisce minimamente del fatto che l’autore delle foto esposte, Hans Schuler, non voglia (e si rifiuti di) apparire, né del fatto che un presunto anonimo benefattore lo abbia preso sotto l’ala, né dell’assenza ed irreperibilità di colui che l’ha contattata, tanto che, anche se ritiene il contenuto delle immagini alquanto opinabili, il suo unico pensiero è quello di, almeno per una volta, avere il merito delle sue imprese. Alice, figlia d’arte di Frank Humphrey, regista, e dell’ex attrice, Rose Sampson, nonché sorella del quarantunenne Ben Humphrey, fratello problematico con precedenti in materia di droga, da sempre cerca di riscattarsi dal marchio di “figlia di papà”. Quale migliore occasione? I preparativi iniziano e si prolungano per appena tre settimane; il lancio della galleria non manca di farsi attendere e sorprende addirittura la stessa direttrice che, per quante aspettative potesse nutrire, non sarebbe mai arrivata ad ipotizzare un così eclatante furore e corsa all’acquisto delle foto. Il giorno seguente, le accuse. Pornografia. Pedofilia. Riuscitasi a mettere in contatto con Drew, si accorda col medesimo per parlare dei fatti il mattino seguente. Giunta in Galleria viene subito colpita da una serie di elementi: le vetrate della medesima sono state interamente coperte da fogli di carta da pacchi, all’interno non riesce ad accendere le luci, tutti gli oggetti che ne caratterizzavano l’arredamento sono scomparsi, ed il suo capo è riverso in una pozza di sangue. La polizia, non tarda, inoltre, a sottoporre alla sua attenzione, una foto che sembrerebbe ritrarla nella posa di un bacio col defunto. Ma come questo è possibile, se, di fatto, ella a malapena lo conosceva ed il massimo del contatto fisico avuto altro non era che il premere le proprie dita sulla carotide per verificarne il battito cardiaco? Che qualcuno stia cercando di incastrarla?
Joann Stevenson, ragazza madre, ha cercato di offrire la migliore delle vite alla figlia quindicenne Becca. Adesso che finalmente è riuscita ad ottenere, tra mille sacrifici, un lavoro stabile e una casa di loro proprietà, è fiera di sé e dei suoi traguardi. Da un paio di mesi, inoltre, va avanti la frequentazione con quel docente che le ha rubato il cuore. Il mondo, quindi, semplicemente le cade addosso quando, al mattino si rende conto che l’adolescente è scomparsa. Cosa le è successo? E perché? Che la sua sparizione sia collegata in qualche modo alla Galleria di Alice?
Hank Beckman è stato più volte reguardito: deve smetterla di seguirlo. Deve farla finita. Eppure lui non può, non può non controllare le mosse di colui che è il colpevole della sua morte. Ellen, la cara sorella, aveva una dipendenza, e lui non se ne è accorto in tempo..
Con “Una perfetta sconosciuta” Alafair Burke, dà vita ad un thriller caratterizzato dall’intrecciarsi ed alternarsi di più trame che, piano piano, riportano ad un mistero unico.
L’opera è intrisa altresì di una penna semplice, chiara, gradevole seppur talvolta tenda ad anticipare troppo. Si legge facilmente ma non conquista per pathos ed intensità risultando a tratti acerba. Il lettore ha la sensazione di trovarsi in una dimensione in cui non è completamente parte, come se vi fosse un vetro tra lui e il contenuto dello scritto. Lo sviluppo degli avvenimenti è buono, seppur prevedibile.
Non solo. Se in un primo momento la lettura prende ed incuriosisce, nel resto il testo è tutto un sali/scendi, e questo proprio perché se da un lato è facile - come anzidetto - intuire le intenzioni della scrittrice (riuscendo così ad anticiparne le mosse), dall'altro, la stessa, "caricandolo" eccessivamente, finisce col renderlo macchinoso.
Nel complesso "Una perfetta sconosciuta" è un prodotto apprezzabile ma non eccelso, un volume con una buona base di partenza ma penalizzato dal "voler mettere troppo", dal "voler far troppo".
Consigliato a chi ama il genere o a chi cerca una lettura senza pretese, piacevole con cui trascorrere qualche ora diversa.
Maria Darida - 5 anni fa
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Una storia semplice - Leonardo Sciascia
Sciascia è sempre una certezza. Poliziesco breve ed intenso: un'intrigo di mafia e di droga. In tutto il libro queste due parole non sono mai nominate con grande maestria. Un piccolissimo libro da leggere tutto d'un fiato. Solo una mente brillante avrebbe potuto pensare un'intreccio così acuto in così poca narrazione.
Federico Melillo - 6 anni fa
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Usciti di Senna - Michel Bussi
Decisamente uno tra i thriller più avvincenti che abbia letto in quest'ultimo periodo. Durante l'edizione quinquennale dell'Armada di Rouen, un paesino lungo la Senna, si susseguono degli omicidi di marinai. Per risolvere l'enigma vediamo coinvolti Maline, una giovane giornalista e le forze dell'ordine guidate dal sempre più sfigato commissario Paturel. In un primo momento si sospetta di un delitto passionale, ma piano piano si aprono scenari sempre più intriganti con al centro un tesoro nascosto dai pirati. Non vi svelo altro, lascio alla vostra lettura il resto.
Valentina Pifferati - 7 mesi fa
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Venere nera - un film di Abdellatif Kechiche
E dire che non sono uno che di fronte ad un film si impressiona facilmente....Ma ieri sera ho dovuto soffrire molto per arrivare in fondo al bellissimo e straziante film di Abdellatif Kechiche, VENUS NOIRE,sulla storia del personaggio realmente esistito Saartjie Baartman. Nel ruolo della Venere Ottentotta l'attrice di origine cubana YahimaTorres...
Kechiche,di cui vedrò presto anche COUS COUS,ama davvero le donne e ne racconta esemplarmente nei suoi films e ciò è ammirevole per chi,proveniendo dalla Tunisia,deve fare i conti con una pesante eredità di cultura misogina schiettamente musulmana...
Angelo Amenta - 6 anni fa
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Vent'anni dopo - Alexandre Dumas
Non tutti sapranno che il romanzo "I tre moschettieri" è il primo di una trilogia, detta anche il Ciclo dei moschettieri.
"Vent'anni dopo" è il secondo ilbro della serie, ambientato per l'appunto dopo un ventennio rispetto al suo predecessore.
Anche se invecchiati, ritroviamo i nostri Athos, Aramis, Porthos e D'Artagnan che, nonostante si siano persi di vista, non esitano a formare nuovamente il noto quartetto per affrontare le vicessitudini che stanno sconvolgendo Parigi.
L'avventura prende inizio come ai vecchi tempi. I quattro prodi sono sempre pronti ad uno scontro armato, ma non disdegnano una bella scorpacciata di tanto in tanto.
Il tempo non li ha mutati e il mio preferito resta D'Artagnan, col suo spirito ironico da Guascone.
Se avete amato "I tre moschettieri", adorerete anche questo libro.
Valentina Pifferati - 2 anni fa
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Venuto al mondo - Margaret Mazzantini
«”Non devi pensarci, devi venire”.
“Perché?”
“Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?
[..] Di colpo mi chiedo come ho fatto a rinunciare a lui per tutto questo tempo. Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?» pp. 10-11
Gemma. Quando tutto ha avuto inizio, non era altro che una giovane donna, di circa ventinove anni. Oggi, invece, ne ha quasi cinquanta, è sposata con un ufficiale dei carabinieri, Giuliano, calmo e premuroso, un uomo che non si è tirato indietro dal tirare su quel figlio, Pietro, ora sedicenne, frutto di un passato che non può essere dimenticato. Una telefonata che arriva da Sarajevo. E’ Gojko, vecchio amico, poeta matto che simboleggia quei giorni indelebili nella memoria. E’ un richiamo a cui la protagonista non può sottrarsi. Perché quei dolori mai sopiti, quei dolori che non hanno mai smesso di battere sul cuore di Gemma chiedono di essere affrontati, e con loro vuol vedere la luce anche quella verità troppo a lungo celata. Ancora, ricordi di un eccidio senza morti, rendono impossibile provare emozioni. Di nessun genere.
E così Gemma e Pietro partono. La scusa ufficiale è quella di assistere ad una mostra fotografica in onore di Diego, grande amore, padre del ragazzo, e fotografo morto in terra straniera durante il suo lavoro, la realtà è permettere al giovane di fissare alcune immagini del padre, permettere alla madre di fare i conti con i propri fantasmi.
In un perfetto alternarsi di ieri ed oggi, Margaret Mazzantini affronta, con “Venuto al mondo” tematiche di grande impatto sociale nonché emotivo. In queste pagine, troverete, infatti, il dramma della maternità, un miracolo che può al tempo stesso rivelarsi dannazione ma anche il caos, la confusione in cui l’esistenza può cadere, per i fatti quotidiani che la compongono che per fattori esterni, quali la guerra, che con la loro disarmante criticità e infausticità, scompongono e distruggono le certezze.
Seppur il romanzo abbia un inizio lento, pedante e soprattutto nella prima parte farraginoso, e nonostante a tratti si perda nei sentimentalismi e moralismi, esso si dimostra portatore di grandi valori e contenuti pregnanti. Superate, invero, le prime trecento pagine, questo sopraggiunge con tutta la sua forza disarmante conquistando anche quel lettore che, inizialmente, non era riuscito a farsi rapire.
Buona anche la delineazione dei personaggi, tra tutti, Gojko, è il meglio riuscito. Senza difficoltà egli fa capolino nel cuore dell’avventuriero conoscitore riserbandosi un posto d’onore anche a conclusione della lettura.
Dal punto di vista stilistico, l’autrice si offre a chi legge attraverso un linguaggio troppo ricercato, un linguaggio fatto di epitaffi, parolacce e frasi brevi che, per quanto curate, finiscono con il far da ostacolo al proseguire dell’opera.
Nel complesso, il libro vale la pena di essere letto, ma ne consiglio la discoperta con la giusta propensione d’animo altrimenti potrebbe risultare faticoso e difficile da cogliere.
«..E la vita ride di noi
Come una vecchia puttana sdentata
Mentre ce la scopiamo a occhi chiusi
Sognando il culo di u giglio.. »
p. 198
Maria Darida - 5 anni fa
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Volevo solo averti accanto - Ronald H. Balson
Ben Solomon, ottantatre anni, è disposto a tutto pur di ottenere giustizia. Nato e cresciuto a Zamosc, l’uomo porta con sé ricordi che sono ancora oggi, a distanza di oltre sessaant’anni, vividi e dolorosi. La ferita che sanguina non accenna a risarcire, non potrà mai guarire. Ecco perché ha deciso di acquistare il biglietto per l’opera, ecco perché non ha il minimo dubbio sulle imputazioni che rivolge a Elliot Rosenzweig: per quanto quest’ultimo si spacci per caritatevole ed abbia fortissime influenze su tutta Chicago, Ben è deciso a smascherarlo poiché dietro la facciata, la parvenza di bontà si nasconde niente meno che Otto Piatek, “il macellaio” nazista che ha contribuito allo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. E c’è di più, Otto/Elliot, prima di macchiarsi indelebilmente di detti crimini, è stato cresciuto dai genitori di Solomon, ha mangiato alla loro tavola, ha condiviso momenti bui e non degli stessi, ha respirato la loro aria per poi voltare le spalle alla famiglia non appena ha iniziato a beneficiare dei lussi acquisiti con la forza dai tedeschi.
Ma come dimostrare la fondatezza di questa accusa? Tra tutti, l’unica speranza dell’anziano è l’avvocatessa Catherine Lockart, trentanovenne che dopo le remore iniziali farà l’impossibile per provare la reità di Rosenzweigt imparando altresì ad ascoltare, ad ascoltarsi. Perché per la donna l’incontro con quest’uomo non è solo un caso da risolvere, diventa una ricerca, un motivo per tornare a svolgere il suo lavoro non per le ore fatturate ma per il semplice dovere morale che è insito dietro la sua laurea. E vi riesce. Fondamentale è anche l’aiuto di Liam, investigatore privato da sempre di lei innamorato che avrà la funzione di sottoporre alla sua attenzione la missione dell’anziano nonché di ricercare tutte le prove fondamentali e necessarie per sbrigliare la matassa.
“Volevo solo averti accanto” è un romanzo che ci invita alla riflessione sotto molteplici aspetti. Ci insegna a diffidare dalle apparenze, a conoscere nel profondo, a sentire e a vedere non con gli occhi ma col cuore. E’ un elaborato che con una scrittura semplice e genuina rapisce lo scopritore per portarlo in una dimensione dove i valori della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della giustizia, della coerenza regnano sovrani. E’ un’opera che ci ricorda un dato di fatto della vita: tante persone si propongono quali presenti e disponibili, ma è soltanto nel momento del bisogno che avremo la consapevolezza di chi veramente sarà disposto a stare al nostro fianco per ragioni che esulano dalla convenienza.
Una storia senza pretese, forse, ma sicuramente capace di lasciare il segno. Un testo che sa farsi amare e che una volta concluso, vi mancherà.
«Ben respirò profondamente. Si guardò intorno, osservò le pareti decorate, i dipinti nelle cornici d’oro, gli ospiti ben vestiti che si gustavano le loro costate di manzo e i cabernet della California, il camino che emanava calore e confort. Quindi, con espressione triste, spiegò:”Tu ora sei seduta qui in questo tempio del lusso, sei un avvocato di successo, con una vita sicura sotto ogni aspetto, in un paese in cui una follia come quella nazista sembra inconcepibile. Oggi ripensiamo al flagello del Terzo Reich e scuotiamo la testa increduli. Come è potuta succedere una cosa simile? Perché gli ebrei furono così remissivi? E’ incomprensibile. Mio caro avvocato, non chiedermi con questa presunzione di spiegarti perché gli ebrei viennesi non lasciarono le loro case, la loro comunità, tutto ciò che conoscevano e amavano. Trovatela da sola una risposta razionale a un mondo che aveva perso il lume della ragione» p. 81
«Tutti noi rischiavamo di impazzire. Ma sai, è buffo: anche nel bel mezzo di un mondo che sta andando a pezzi si può sempre trovare una speranza a cui aggrapparsi, un futuro da sognare. Lo spirito umano ha una resistenza inesauribile. Io e Hannan passammo intere serate sul tetto a terrazza di casa nostra a guardare le stelle e a fare progetti per la nostra vita insieme. Il mondo intorno a noi stava sbriciolando, ma il futuro ci sembrava più bello che mai» p. 105
«Il male esiste, Catherine. Nelle tenebre del monte Moriah, dove non dimora la virtù, e nelle anime di coloro che se ne lasciano sedurre. E tutta l’umanità è responsabile quando si seguono, o si lasciano fare, i malvagi. Coloro che hanno perpetrato l’Olocausto, ma anche quelli che vi hanno assistito e ne hanno reso possibile la perpetrazione, quelli che ne hanno tratto profitto e quelli che hanno voltato la testa…Sono tutti responsabili. L’Olocausto […] non è accaduto per volontà di Dio, ma per volontà degli invasati dal demonio» p. 152
Maria Darida - 5 anni fa
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Works - Vitaliano Trevisan
Che cos’è esattamente Works di Vitaliano Trevisan? Un memoir, certo, ma anche un ritratto a tinte fosche del tanto celebrato nord-est del miracolo economico, un punto di vista critico su quel che resta della società industriale vista dal suo interno.
Mai come in questo caso è opportuno scomodare la celebre frase di Whitman: “Chi tocca questo libro tocca un uomo”. Ed è infatti l’uomo Vitaliano Trevisan che si mette a nudo in questo lavoro lungo seicentocinquanta pagine, scritto in cinque anni e infarcito di note che, di fatto, sono ulteriori estensioni del testo (cosa che fa venire in mente Infinite Jest di Foster Wallace, ma le similitudini tra i due romanzi si fermano qui). Il racconto inizia nel 1976 – quando l’autore aveva sedici anni – e termina nel 2002.
La motivazione che spinge Trevisan a compiere il percorso narrato - fatto di colloqui di lavoro, assunzioni, dimissioni, crisi aziendali, cassa integrazione e mobilità - sarà sempre la stessa: “non ci sono i soldi”. Solo col tempo l’autore comincia a selezionare, tra le opzioni lavorative che gli si presentano di volta in volta, quelle che gli consentono di mantenere la testa sgombra a sufficienza da permettergli di scrivere. Salvo poi scoprire, di fatto, che il mestiere dello scrittore mal si concilia sia con il contemporaneo svolgimento di attività manuali – che liberano la testa ma torturano il corpo – sia con le professioni dell’intelletto – che hanno l’effetto esattamente opposto.
Operaio in una fabbrica di gabbie per uccelli, magazziniere in una ditta trasporti, muratore, cameriere, geometra in vari studi professionali, venditore di arredi, impiegato in aziende che producono arredi per negozi o mobili per cucine, gelataio in Germania, lattoniere e altro ancora: ognuno di questi lavori è un’esperienza dolorosa, di cui l’autore nulla ci risparmia. Trevisan traccia ritratti impietosi degli imprenditori veneti, si sofferma a lungo sulle tristi meccaniche che determinano invidie, rivalità e ripicche tra colleghi d’ufficio e affronta senza pregiudizi ideologici le dinamiche del lavoro in produzione, premurandosi di descriverne anche gli aspetti più tecnici. Ogni nuovo mestiere è vissuto dallo scrittore come un passaggio necessario da compiere, non solo per garantirsi il pane, ma soprattutto per raggiungere il suo obiettivo ultimo: la scrittura.
Neppure i dettagli più oscuri del percorso dell’autore ci vengono taciuti: lo spaccio della droga per integrare paghe da fame, i tradimenti degli amici, i rapporti difficili con la madre e la sorella, i giudizi trancianti degli altri, il senso costante del fallimento, il matrimonio che va a rotoli. Non mancano brevi passaggi su certi temi caldi degli anni Settanta (terrorismo, rivoluzione mancata, riflusso), e sull’evoluzione delle politiche neo-liberiste italiane ed europee di fine anni Novanta, che aprirono la porta all’istituzionalizzazione del precariato. Trevisan si ostina a chiamare “padroni” gli imprenditori, ma litiga con Toni Servillo che – occupandosi della messa in scena di un suo testo – vorrebbe che gli operai indossassero la tuta blu “alla Cipputi per così dire (…) dimostrando di avere la classica immagine dell’operaio che sembra essersi fossilizzata in tutte le teste borghesi e piccolo-borghesi”.
Un libro da leggere dunque, nonostante la stanchezza che alla fine prende il lettore, alle prese con un’opera lunghissima e stilisticamente imperniata su una prosa che ingloba il dialogo nel flusso della scrittura. La difficoltà di provare empatia per quest’uomo emotivamente denudato, quest’uomo portato per carattere a essere contro - contro i padroni, contro i colleghi, contro i familiari, contro la burocrazia, contro i partiti e, spesso, contro se stesso e le proprie scelte - penalizza il romanzo. Conquistano invece la grande capacità tecnica di Trevisan - che scrive davvero bene ed è capace di assicurare alla narrazione un ritmo costante, certo con pochi sussulti ma scorrevole - e la profondità dell’analisi che, per ampiezza e dettaglio, ha pochi paragoni in Italia, almeno nel campo letteratura industriale.
Queste le parole con cui lo scrittore conclude il romanzo: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”.
Marco Ciampolini - 12 mesi fa
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[1]: Salvare le ossa - Jesmyn Ward
«Non gli lascerò più la possibilità di vedermi. Non gli lascerò vedere niente finché nessuno di noi avrà più scelta, e allora nessuno potrà fingere di non vedere, nessuno potrà ignorare, e forse ciò che vedremo ci tramuterà in pietra» p. 109
Mississippi. Bois Sauvage, un bayou caratterizzato da fame, miseria, catastrofi naturali, povertà. Nella fossa, una depressione argillosa attorniata da boschi, querce, rifiuti, pollai fatiscenti, tir, elettrodomestici abbandonati, si erge una casa dal colore della ruggine che sin dal primo sguardo fa dubitare della sua stabilità. In questa fatiscente struttura vive la famiglia Batiste composta da un padre vedovo, alcolizzato, dispotico che sopravvive con un sussidio statale, e quattro figli tutti minorenni. Di questi quattro, tre sono di sesso maschile e una, soltanto una, la quindicenne Esch, è una donna. Ella è una sognatrice che vive quel mondo reale fatto di violenze e privazioni con gli occhi della mente e con gli occhi dei miti che legge sui libri. Con tutti i suoi fratelli ha un rapporto molto stretto, con Randall, giocatore di basket, è quasi genitoresco essendo lui colui che si sostituisce al padre quando questo non è in grado di provvedere alla famiglia perché ubriaco o assente, con Skeetah, che ha un legame strettissimo con la cagna China, è quasi in simbiosi, con Junior, il più piccolo e per cui la madre è morta di parto, di protezione. Sono stati loro a crescere il bambino, a insegnargli tutto quello che sa.
Esch è ancora la voce narrante del romanzo, ha conosciuto il sesso all’età di dodici anni e lo ha anche praticato compulsivamente non negandosi mai perché concedersi è più semplice che negarsi, perché sin dal principio è stato come “nuotare nell’acqua” e anche sotto questo aspetto si rivede interamente nelle Dee di cui è appassionata. In particolare si sente molto vicina a Medea essendo innamorata di Manny, giovane fidanzato con un’altra da cui però la nostra protagonista scopre di star aspettando un bambino. Questo è il suo segreto, un segreto di cui lei per prima non si è resa conto sino al sopraggiungere delle nausee. La ragazza non ha idea di cosa significhi essere madre: è cresciuta in un mondo maschile, ha perso la sua in una età in cui fatica quasi a ricordarla, non ha alcuno con cui potersi confidare e da cui poter imparare, con cui confrontarsi e ponderare le proprie scelte. Ecco perché osserva China, ecco perché si chiede se quello che lei ha con i cuccioli che ha appena partorito è e significa essere madre. Ancora si interroga sul gesto estremo che la cagna compie verso uno dei suoi stessi figli, un gesto agli occhi di noi umani che leggiamo quasi incomprensibile. Al contempo, non riusciamo a sottrarci all’empatia, ci sentiamo vicini a questa poco più che bambina timida e silenziosa, a questa bambina che non sa di poter dire di no, a questa bambina che non conosce l’amore e che non sa che cosa sia. Lo stesso atto sessuale per lei non è un momento di piacere, una condivisione con l’altro bensì è un gesto meccanico con cui gli uomini si soddisfano. Soltanto con Manny, forse, comprende di poter a sua volta provare qualcosa ma essendo ancora acerba, giovane e inetta al sentimento, non focalizza quel che in realtà lui vuole da lei.
Fra tutti i fratelli c’è un legame di mutua protezione, un rapporto riservato fatto di silenzi e sguardi ma che mira a far da scudo dalle prepotenze del padre che paradossalmente è l’unico che percepisce il pericolo dell’uragano imminente tanto da far di tutto per preparare le casa, per procurarsi più provviste possibili, per salvare i suoi figli che sono tutto quel che gli resta. Un uragano, il “Katrina” che si mantiene di fatto sullo sfondo delle vicende. Si sa che c’è, è percepito come un pericolo imminente, eppure soltanto gli ultimi due capitoli sono dedicati al suo arrivo e alla sua capacità di devastazione. Il resto dell’opera si focalizza sull’attesa di questo e in particolare sulle vicende che vedono coinvolti i vari protagonisti. Perché le giornate sono scandite ad eventi più importanti, pregnanti, da necessità e urgenze più impellenti. Assisteremo così a risse, corse per i boschi, scontri tra cani, riflessioni e pensieri ma anche a ricordi dei tempi che furono. In tutto ciò colpisce nuovamente la figura del padre che nonostante il suo dispotismo e i suoi innumerevoli difetti, rimane legato alla defunta moglie con tutto sé stesso. È impensabile per lui allontanarsi da lei anche quando un incidente lo ferisce brutalmente, anche quando la vita della famiglia Batiste è seriamente in pericolo a causa di un ciclone molto più forte e violento delle aspettative. A dimostrazione di ciò, la fede. Un oggetto simbolico che sancisce un legame profondo e intramontabile che nemmeno la morte può separare. E lo stesso cataclisma, ancora, è lo strumento con cui l’autrice ci dimostra quanto questa famiglia apparentemente disarcionata e sfaldata sia in realtà unita e compatta nel suo essere. Non solo, al suo termine, è anche il mezzo con cui la solidarietà umana si offre al mondo aprendosi le porte dei più fortunati in aiuto a coloro che al contrario, nonostante le precauzioni, si sono visti privare di tutto.
«Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. Il suo carro era una tempesta terribile e nera, e i greci avrebbero detto che era trainato da draghi. La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lasciati vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata di sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.» p. 304
La Ward con “Salvare le ossa” riesce in una impresa tutt’altro che semplice e mediante una scrittura densa e morbida al contempo, una scrittura che si rilassa, accelera e poi nuovamente si distende, crea un ritmo sincopato che stringe implacabilmente il lettore. Il risultato finale è quello di un romanzo a più strati, un romanzo duro, complesso e articolato che disturba per la crudeltà e la crudezza che rappresenta ma che tocca anche le più intime corde di riflessione. L’autrice crea ancora, oltre che alle circostanze, dei personaggi che si fanno amare, tutti indistintamente seppure per motivi diversi e ricrea altresì ambientazioni che sono tangibili con mano. Il conoscitore sente gli odori, vede i colori, percepisce i suoni della fossa.
Primo capitolo della trilogia di Bois Sauvage “Salvage the bones” è un elaborato che lascia il segno e che merita a pieni voti di essere letto.
«Lei tornerà, e si ergerà, diritta e maestosa, senza più una goccia di latte. Abbasserà lo sguardo sul cerchio di luce che abbiamo acceso dentro la Fossa, e allora saprà che sono stata attenta, che ho lottato. China abbaierà e mi chiamerà sorella. Nel cielo soffocato di stelle, c’è un grande silenzio di attesa. Lei lo saprà che sono madre» p. 308
Maria Darida - 4 anni fa
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