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Tutta la luce che non vediamo - Anthony Doerr
«Vede cose che gli altri non vedono. Che cosa non ha fatto, la guerra, ai sognatori» p. 487
«Aprite gli occhi e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre» ci sussurra, attraverso i suoi personaggi, Anthony Doerr. La sua voce è un invito costante, leggero e penetrante che va ben oltre le parole, che va ben oltre la mera e semplice facciata, che giunge diretto sino al cuore tale è la verità di queste semplici, eppure tangibili, espressioni.
1934. Marie-Laure Leblanc vive a Parigi col padre, fabbro presso il museo del luogo, quando ad appena sei anni perde la vista a causa di una cataratta congenita bilaterale insanabile.
Werner Pfenning, otto anni, orfano, vive con Jutta, la sorella seienne, nell’orfanotrofio tedesco gestito da Frau Elena. Munito di grande intelligenza ed attitudine matematica, ben presto scopre le radio e da quel momento, quelle onde, diventano la sua vita. Studia da autodidatta ed inconsciamente spera di poter fuggire al destino delle miniere, luogo ove sarebbe stato inevitabilmente destinato al compimento del quindicesimo anno di età nonché unica fonte di sostentamento della zona e rea confessa della morte del padre.
L’imminente scoppio della guerra muta le sorti di ciascun protagonista. La ragazza, che pian piano ha imparato a leggere il braille, fugge dalla capitale col padre per recarsi a Saint-Malo, cittadina bretone protagonista storicamente nota per i fatti di guerra occorsi; il giovane, grazie alla sua fama di riparatore, viene notato da un ufficiale e destinato all’Istituto di educazione nazionalpolitica di Schulpforta dove imparerà l’arte militare, i segreti della scienza, ma anche a far fronte ai rumori della coscienza, percepiti, vissuti mediante il tramite di Friedrich, seppur inascoltati, perché ancora non maturo il tempo. Werner che d’altra parte è sempre stato piccolo per la sua età e che badava a sua sorella, di fatto difficilmente si è sottratto ad un compito, difficilmente non ha fatto ciò che ci si aspettava da lui.
Passano gli anni, salti temporali ci aiutano a ricostruire la loro storia, il loro cammino, il loro inevitabile fugace incontro. E non vi è odio né giudizio, in queste pagine, ma soltanto consapevolezza. La prima sensazione che viene percepita dal lettore è proprio questa assenza, si fa rapire dai fatti, dalle voci narranti, si immedesima in ciascun protagonista, eppure non giudica né il tedesco né il francese. Empaticamente li comprende, tanto che la sofferenza da ciascuno provata, diventa sua. Propria, unica, intima. Passo dopo passo scopre un volto nuovo del Secondo conflitto Mondiale, riflette su una semplice costante: la guerra, da qualsiasi parte la si osservi, da qualsiasi fronte la si combatta, non porta mai vincitori, ma solo vinti. Perché il prezzo da pagare è sempre alto, e si conta in vite umane che prima di essere strappate al loro ultimo alito, al loro ultimo respiro, affrontano un percorso di dolore e privazione che è sempre peggio della morte in sé. Perché alla fine dei giochi, “il sangue è sempre rosso”. E questa distanza dal giudizio, questa assenza di preconcetti, di colpevoli ed innocenti, induce alla riflessione.
Ma “Tutta la luce che non vediamo”, non è solo questo. Partendo da detto presupposto dipana la sua forbice attraverso due protagonisti così diversi e così eguali, entrambe giovanissimi, entrambe attaccati alla loro valvola di sfogo – la lettura, lei; la radio lui – pur di sopravvivere, pur di andare avanti e convivere con il malessere. Ella, con i libri, fa fronte alla solitudine determinata dall’assenza del padre di cui si perdono le tracce una volta che viene arrestato in quel che doveva essere un breve soggiorno a Parigi. Con questi vive, vede, supera il limite dei non vedenti, è parte integrante di quel romanzo, “Ventimila leghe sotto i mari”, che l’accompagna per tutti quegli anni di nascondiglio. Lui, con le sue onde radio, cerca di non pensare al conflitto, alle parole della sorella che ha sempre visto, che ha sempre saputo, si interroga sul giusto e sullo sbagliato, prende consapevolezza di quel che lo circonda ma soltanto sul finale trova il coraggio di staccarsi da quel che gli altri gli dicono di fare, da quel che gli altri si aspettano che faccia, per essere individuo e non truppa. Per essere persona che medita e ragiona e non mero esecutore di comandi.
Ed è proprio nell’epilogo che questo messaggio arriva travolgente, irrefrenabile. Perché la vita va avanti, il suo flusso è inarrestabile, il tempo passa, il passato non perdona, il ricordo non abbandona. Non ci sono vincitori, non ci sono vinti, ma sopravvissuti. Ognuno col suo bagaglio di fantasmi, ciascuno con la sua perdita, cadauno con le sue colpe.
Avvalorato, infine, da un’alternanza di voci e spazi temporali, passando altresì dalla Francia alla Germania, dal 1934 al 1944 e successivi, il premio Pulitzer 2015 Anthony Doerr, ci regala un romanzo di tutto rispetto, un’opera che alla sua conclusione manca, un elaborato che nella sua semplicità rivela verità concrete, uno scritto che si fa vivere dalla prima all’ultima pagina. Indelebile.
«Segui il percorso logico. Per ogni effetto c’è una causa, per ogni frangente una soluzione. A ogni serratura la sua chiave. Puoi tornare a Parigi, puoi rimanere qui, puoi proseguire.» p. 114
«”Quando ho perso la vista, Werner, mi hanno detto che ero coraggiosa. Quando se né andato mio padre, mi hanno detto che ero coraggiosa. Ma il mio non è coraggio; non ho scelta. Mi sveglio e vivo la mia vita. Tu non fai lo stesso?”
“No, da anni. Salvo oggi. Oggi forse l’ho fatto”» p. 456
«[..] Il tempo è una pozza rilucente che ci portiamo fra le mani; bisognerebbe usare ogni energia per proteggerla. Combattere, impegnarsi davvero per non perderne nemmeno una goccia» p. 462
«Che grandi navette di anime possano volarsene in giro, fioche ma udibili se si ascolta con sufficiente attenzione? Fluttuano sopra i comignoli, solcano i marciapiedi, e passano dall’altra parte: l’aria è una biblioteca e un archivio di ogni vita vissuta, ogni frase pronunciata, ogni parola trasmessa, che ancora riecheggia.» p. 509
Maria Darida - 6 anni fa
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Tutte le fiabe - Jacob e Wilhem Grimm
Quante volte ognuno di noi ha sentito pronunciare nella sua vita il caro vecchio e familiare “C’era una volta”? E quante volte ancora questo è stato seguito da una narrazione chiara ed accattivante, avente ad oggetto una trama semplice a sui seguiva una morale altrettanto forte ed il classico lieto fine dove tutti vivevano “felici e contenti”? Sicuramente tutto ciò è dettato dal desiderio dell’uomo adulto di far sognare e far vivere gli anni dell’infanzia nel modo più spensierato possibile ad ogni piccolo della famiglia.
In realtà, però, queste storie apparentemente ingenue, genuine, nella loro versione originale discostano dalle trasposizioni edulcorate di cui sopra. In passato infatti le fiabe avevano lo scopo di educare alla vita, di insegnare al bambino che non sempre le cose vanno come vorremmo, che spesso la quotidianità ci spiazza, ci lascia senza fiato, ma che essenziale è non arrendersi alle avversità, fondamentale è imparare dai propri errori così da essere pronti ad affrontare quelli che saranno i futuri ostacoli. Sicuramente detta impostazione dipende anche dal mutamento sempre maggiore che l’esistenza stessa ha avuto, trattasi infatti, quello in cui predette si sviluppavano, di una fase storica in cui la praticità e la concretezza erano alla base della giornata, non c’era spazio per le frivolezze e/o per le distrazioni. Le ore scorrevano rapide in quelle che erano le fatiche lavorative e domestiche dell’uomo e della donna, per giungere ad un crepuscolo di stanchezza, prole e routine.
Queste novelle, tra l’altro, non venivano concepite esclusivamente per il pubblico infante, soventemente erano destinate anche agli adulti che avevano a loro volta il compito di ascoltare e di trasmettere il concetto della natura umana, per quella che era ma anche integrandola con elementi magici e fantastici. Ecco perché le versioni autentiche delle storie sono spesso più crude e violente, non sono mitigate (basti pensare, ad esempio, che le matrigne di Biancaneve e Hansel e Gretel erano in realtà le loro madri naturali, ma poiché era fondamentale tutelare il ruolo materno, così come era impossibile accettare che una mamma potesse essere malvagia, esse furono tramutate in matrigne). Non solo, gli stessi originari protagonisti non dovevano per forza essere “buoni”, ovvero soggetti immuni dalla malvagità, anzi! Generalmente questi erano proprio giovani maledetti, ragazzi maltrattati e/o abbandonati, uomini che rivaleggiano ed ancora persone spinte da animosità maligne nonché dedite ad abusare del proprio potere.
Nelle versioni prime, non si ha paura di mostrare l’aggressività ne tanto meno si auspica all’oggigiorno consono lieto fine. Questo perché siffatta qualità è propria della natura umana, ne è parte, e negarla, anche se questo può far storcere il naso a molti, sarebbe come smentire una parte di se stessi. A riprova di ciò basti pensare alla fiaba dei piccoli di cinque o sei anni che, nella prima versione, giocano al “macellaio”: mentre uno fa il macellaio, un altro cuoce ed il terzo è il maiale. Il macellaio assale il maiale e gli taglia al gola mentre il cuoco raccoglie il sangue in una ciotola. Viceversa nella seconda abbiamo due fratellini sempre dediti al medesimo gioco. Quello che fa il macellaio sgozza l’altro. La madre sopraggiunta sul luogo a seguito delle urla, colpisce al cuore il figlio rimasto. Il terzo figlio, lasciato dalla mamma per soccorre il ferito, muore annegando nel catino. La donna, realizzata la morte di tutti e tre i suoi discendenti, viene a sua volta a mancare di crepacuore. Chiara è la violenza/aggressività insita nel racconto eppure, nella sua lettura integrale troverete quella che ne è la morale, il suo perché.
Evidente è dunque che tra gli obiettivi dei narratori vi era quello di trasmettere quella che appariva essere la realtà, la concretezza, la verità di una società basata sulla funzionalità, povera e pessimistica. Ma non fatevi intimorire da ciò, né dovete ipotizzare di trovarvi di fronte ad un elaborato horror. Queste favole, dei fratelli Grimm, così come di tanti altri autori, seppur più dure delle versioni che conosciamo, arrivano e sono tutte intrise di etica ed insegnamento proprio perché non ovviano alla verità dei fatti del tempo in cui sono scritte.
Stilisticamente l’elaborato è fluente, erudito, e capace di suscitare molteplici spunti di riflessione. Da leggere e da non sottovalutare.
Maria Darida - 6 anni fa
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Un adulterio - Edoardo Albinati
«Restava solo lo sforzo di esistere, lo sforzo inutile, il costo, il peso, l’ansimare, il volere, la faticosa rapina di un attimo appresso all’altro, inghiottire l’aria, inghiottire il proprio respiro. Tutto ciò non appena staccava le mani dal corpo di quella donna, come si stacca la spina di un apparecchio dalla corrente e inizia il consumo dell’energia accumulata. Tanta? Poca? Possibile, già agli sgoccioli?» p.26
Erri e Clementina non possono resistere a quella passione che li travolge e consuma. E’ impensabile. Il loro è un amore che brucia, che esige di essere vissuto anche se questo significa compiere un adulterio. Un adulterio che è ultimato consapevolmente, senza indugio alcuno, senza rimpianto e senza rimorso. Il tutto si dipana e sviluppa nel lasso di tempo di un fine settimana su un’isola che, con i suoi colori e profumi, fa da cornice a questo sentimento irresistibile.
Da queste brevi premesse ha inizio l’ultimo romanzo di Edoardo Albinati, uno scritto che assume le forme di un lungo racconto, che si esaurisce in appena 126 pagine e poche ore di scorrimento. Il tema trattato, al contempo, non spicca di originalità essendo quella del tradimento una della problematiche che sono maggiormente ricorrenti nella letteratura di tutti i tempi.
Il testo dell’autore si distanzia dai consueti elaborati, incentrati sulla inevitabile e successiva conseguenza del gesto compiuto, per il fatto che detta passione si distacca dal senso di colpa: il desiderio sessuale è legittimato ed avvalorato da quella trasgressione e pulsione inarrestabile a cui è inimmaginabile far fronte. L’amore, è secondo questa prima analisi, un qualcosa che dovrebbe essere vissuto senza vincolo alcuno, e a prescindere dagli effetti che le nostri azioni possono arrecare a noi stessi quanto a chi ci circonda.
Ed è da qui che “Adulterio” si sofferma e muta la propria prospettiva: la storia dei due protagonisti, come altre relazioni clandestine della realtà, non riesce a sopravvivere a questi due giorni di paradiso apparente. Perché l’amore è un legame affettivo e come tale ha bisogno di confini, di progetti, di stabilità ed anche e non di meno di fedeltà reciproca. Amare è rispetto, condivisione, emozione e non umiliazione, menzogna, inganno.
«Ora che lo avevo per le mani non lo desideravo più ma mi sembrava stupido lasciarmelo sfuggire. Si, eri forse tu quella persona attesa, ma oramai con te potevo solo commettere adulterio. Infrangere qualcosa invece che costruirlo» p. 123
Ancora, Albinati ci fa riflettere su quelle che sono le opportunità della vita, su quelle tentazioni che soventemente ci mettono alla prova con la loro attrazione fatale. Da qui sono introdotti quei limiti imposti dalla coscienza, dalla morale, dagli insegnamenti di vita ricevuti. Perché paradossalmente, rispetto all’impostazione della storia narrata che potrebbe sembrare un inno alla libertà, l’amore ha bisogno di vincoli, di relazione, ha bisogno di essere coltivato giorno dopo giorno, di maturare e crescere sotto il sole e sotto la tempesta.
A ciò si somma uno stile narrativo scarno, diretto, breve che conquista soltanto a tratti. La lettura, vuoi per le argomentazioni trattate, vuoi per brevità, resta sospesa tra i due poli della piacevolezza e non.
Si apprezza per la morale ma non necessariamente per la successione degli eventi che tendono a calcare la mano – volutamente – sulla sfera dell’intimità fisica.
«Ma non la chiedo, non la esigo, la felicità. Non la merito. Quella che mi hai dato u in questi giorni già mi sta schiacciando. Mi leva il fiato. Sono priva di forze dopo due giorni appena. Appena mi sento felice, subito divento triste, te ne sei accorto? Te ne sei accorto amore mio?» p. 124
Maria Darida - 6 anni fa
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Un canale didattico su You Tube
Se c'è qualcuno interessato a visionare brevi video didattici, vi segnalo il mio canale didattico su You Tube:
https://www.youtube.com/channel/UCLUepJqqrucOGOP3Zknpt1g
Il canale di solito è frequentato da studenti universitari e insegnanti. Ci trovate alcuni riferimenti a libri e a progetti svolti.
Buona visione! Mariangela
Mariangela Giusti - 3 anni fa
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Un colpo al cuore - Piergiorgio Pulixi
In un “Colpo al cuore” Piergiorgio Pulixi dona ai suoi lettori uno scritto composto da tre voci narranti: il vicequestore Vito Strega e le due ispettrici, già conosciute ne “L’isola delle anime”, Mara Rais, dura, dai modi bruschi e impulsiva, ed Eva Croce, dall’acutezza ben mixata al riserbo. Le due donne, in particolare, di origini diverse, l’una milanese e l’altra sarda, hanno tra queste pagine un ruolo ancora più coinvolgente e fatto di emozioni che diventano ancora più tangibili nello scorrimento di vicende che le mettono a dura prova.
Vito Strega, dal suo canto, è un uomo affascinante e dalla corporatura possente e da sempre attratto anche dal male. Caratteristiche, queste, che non lo rendono inosservato al passaggio e che lo portano anche al non riuscire a mimetizzare la sua brillantezza nell’investigazione. Dal passato tormentato, criminologo, da vicende personali che non sembrano volerlo lasciare in pace, da un lavoro che lo spreme fino al midollo per quanto sia acuto e perspicace, è una figura emotiva, dal suo canto fragile, preda e vittima di se stessa.
Lo stesso relazionarsi con il mondo di “fuori” è per lui difficoltoso. Il suo loft è il luogo in cui ritirarsi e star bene, lui, i suoi spazi, la gatta nera decisamente gelosa ma anche rispettosa degli spazi, non invadente e a sua volta acuta. Le confidenze sono invece riservate a una ragazzina, adolescente, che altro non è che una vicina.
“Occhio per occhio, dente per dente”. È questa la filosofia che muove il serial killer ideato da Piergiorgio Pulixi, un serial killer molto particolare che ha deciso di riparare ai torti della giustizia. Se non ci pensa la legge a risolvere e condannare il colpevole individuato, sopraggiunge lui. Lui e la sua maschera dai tratti demoniaci, lui e quel video con cui rende il destinatario egli stesso complice. Perché con votazioni anonime il destinatario esprimere il suo giudizio, nessuno lo saprà ma alla fine il risultato finale sarà una punizione e una tortura senza possibilità d’appello per il colpevole. Ma è concepibile individuare una vendetta alla Dantès?
Il tutto tra la Sardegna e Milano, in un perfetto mixarsi di colpi di scena e situazioni al limite. Al tutto si somma uno stile narrativo fluido, ben ritmato, una trama ben costruita e solida che coinvolge e trattiene.
Nella creazione del pathos, nel coinvolgimento emotivo, nella denuncia verso retroscena di un vivere fatto di apparenze e di una giustizia terrena che spesso è disattesa e lascia posto ed adito a una giustizia individuale e crudele dell’uomo detentore del presunto vero e giusto.
Un libro che gioca anche con la musica, basti pensare al titolo omonimo di Mina, che ben trattiene e incuriosisce, con qualche cliché ma nel complesso piacevole.
Maria Darida - 14 giorni fa
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Un cuore nero inchiostro - Robert Galbraith [i.e. J. K. Rowling]
14 settembre 2011. Josh Blay ed Edie Ledwell non sono ancora consapevoli del successo della loro idea. Tutto è nato in un cimitero, dalla passione per il disegno e l’arte, dal legame amoroso e sentimentale. “Un cuore nero inchiostro” è approdato su YouTube e nessuno si sarebbe mai aspettato cotanto riscontro mediatico, nemmeno, appunto, i creatori. I fan si moltiplicano, nasce anche un gioco ispirato alla saga chiamato “Il gioco di Drek”. Il fandom è entusiasta ma al tempo stesso non perdona. Non perdona l’approdo a YouTube, non perdona Edie. Se Josh è visto come un idolo nonostante la vera mente e motore tra i due sia la donna, è Edie ad essere dipinta come un mostro ingordo di fama e denaro. Da qui partono i soprannomi quali IngordEdie, Edie Contaballe, Edie Mangiatutto e chi più ne ha, più ne metta. Anomia, uno dei moderatori nonché co-fondatore insieme a Morehouse del gioco, non ammette errori. Non le concede possibilità di perdono. È mosso da un astio incontrollabile, sa tutto, ogni mossa e segreto del passato e presente della donna. Anomia che non rimanda tanto ad anonimo quanto a mancanza di normali standard sociali ed etici. Ogni occasione è buona per darle contro e scagliarsi contro di lei. Quattro anni. Quattro lunghi anni di continui attacchi a Edie.
Anno 2015. Cormoran Strike e Robin sono al Ritz. La serata ha preso una piega completamente inaspettata, una piega che potrebbe incidere sul futuro del duo. I casi però sono tanti e questo permette ad entrambi di “far finta di niente” e rimandare il discorso a data da destinarsi. Quando Edie Ledwell bussa alla porta dell’agenzia è una donna esausta, provata dagli anni di oppressione di Anomia, desiderosa di fermarlo e di conoscere la verità. Ha tentato il suicidio, è vero, ma adesso vuole provare a riprendersi la sua vita e a toglierla dalle mani del fandom. L’agenzia non può però aiutarla, non sono esperti di crimini informatici e scoprire chi è Anomia è quasi impossibile per chi non è del settore. Questa, almeno, la risposta di Robin che vede sul collo della donna dei lividi. Tuttavia, qualcosa cambia nel corso della vicenda perché poco dopo l’incontro con Robin la coppia viene ferita. Un grave doppio accoltellamento avvenuto nel cimitero di Highgate che ferisce a morte Edie Ledwell, di anni 30, e Josh Blay, di anni 25, sopravvissuto ma con gravi lesioni e paralisi conseguenti. Ma chi potrebbe essersi macchiato di questo reato? Sembra che le vittime siano state colpite da un taser e poi accoltellate alle spalle. Adesso non si tratta più di un crimine informatico e nonostante le indagini siano svolte dalle autorità vengono investiti del caso anche Cormoran, Robin e tutta la loro squadra al fine di scoprire chi sia Anomia e, se possibile, far anche giustizia. I sospetti di Scotland Yard, ad ogni modo, vertono tutti su un’organizzazione di estrema destra con finalità terroristiche e ideologie razziali.
«Era in momenti come quello che a Robin riusciva difficile rimanere arrabbiata con Cormoran Strike, per quanto irritante lui potesse essere in genere.»
Robert Galbtraith, alias J.K. Rowling, dona ai suoi lettori un romanzo stratificato, complesso, arguto. Un libro caratterizzato da molteplici tasselli che prendono forma e campo. Nulla è dato per scontato e nulla è come appare. Pagina dopo pagina il lettore viene travolto in un caso sempre più arzigogolato che porta, nel vero senso della parola, ad aprire un vaso di Pandora.
Al tutto si somma una prosa pulita, limpida, accattivante, mai prolissa. E non deve spaventare nemmeno la mole, il romanzo è godibilissimo e rappresenta un perfetto giallo all’inglese, con i giusti tempi e il ritmo mai troppo lento, mai troppo veloce. Qualche novità sul fronte sentimentale ma non quelle che molti lettori auspicherebbero, anzi. Vi è una maggiore presa di consapevolezza ma a far la differenza è il giallo. Un giallo che muove nell’attualità facendo riflettere sulla forza dei social e il loro impatto nel mondo circostante, sulla forza della parola del singolo se comunicata con i giusti mezzi sulla massa, l’effetto boomerang di quel che diventa virale, l’ossessione, la persecuzione anche mediatica, la vendetta e poi vi è il crimine, il crimine che esce dallo schermo e diventa concreto e reale. Il sangue che macchia il gioco che non è più solo questo. Ed ancora vi è la riflessione dettata da tutto quel che consegue anche il celarsi dietro uno schermo, l’accettarsi, il vivere con le proprie ossessioni, paure, deficienze. Il crearsi uno specchio, una maschera, in cui essere quel che non si è. Indossare i panni di quel che vorremmo essere, di un mito che non siamo ma che è esente da tutte le nostre paure e i nostri limiti fisici e psichici. Queste e molte altre sono le riflessioni che vengono suscitate da queste pagine.
Infine, ma non per importanza, la struttura del testo: dal prologo sino alla conclusione, anche l’impaginazione è espressione di attualità e riporta anche circostanze e dati che molti di noi hanno vissuto nella dimensione del web con maggiori o minori interazioni social e non. Questo rende ancora più corposo e veritiero il componimento.
L’attenzione non cala, la curiosità è tanta, il desiderio di conoscere chi è Anomia e chi ha ucciso Edie, ferito Josh, attuato il meccanismo complesso che si cela dietro i delitti, è insaziabile e il lettore, come in un perfetto rompicapo, si cala nei panni di Cormoran e Strike e prova a individuare egli stesso il colpevole. Perché i reati che si delineano sono su più piani ma sono veramente tante le dimensioni e i multilivelli di analisi che vengono descritti.
In conclusione, un altro godibilissimo capitolo delle avventure di due personaggi che si fanno sempre più apprezzare e che leggere è sempre un’attesa che poi viene ripagata. Uno di quei libri che il conoscitore si gode battuta dopo battuta e che desidererebbe non finissero mai. A quando il prossimo J. K. Rowling/Galbtraith?
«Robin ebbe l’impressione che fosse così assorto nei suoi pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stavano facendo.»
Maria Darida - 2 mesi fa
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Un salto al buio - Catia Lari Faccenda
Ottimo romanzo, lo consiglio vivamente per il suo stile di scrittura personale e per la storia: i suoi personaggi sono veri e umani come pochi nella letteratura contemporanea italiana.
Una scrittrice da tenere d'occhio.
Giulia D'agostini - 2 anni fa
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Un'amicizia
«Ma cos’è un’amicizia? Non avevo vincoli di sangue né giuridici, diritti e doveri, ero semplicemente lì con lei su quella panchina a franare. La abbraccia più forte che potevo. Le asciugai le lacrime, provai a contenere la sua disperazione mentre si ribellava […] tentai di rassicurarla, consapevole di mentire. Perché le parole a questo servono: a sperare, ingannare, abbellire e migliorare, ma la realtà è un’altra e se ne frega dei nostri desideri.»
Bea ed Elisa sono come il giorno e la notte, distanti e diverse, un universo parallelo che non si sa per quale gioco del destino o regola matematica violata, giungono a incrociare le loro strade e a vivere gli anni più intensi della loro vita insieme sino al sopraggiungere di quello che sappiamo già dalle prime pagine essere un punto di rottura che come le ha unite le porterà a separarsi.
Siamo a T una fatiscente cittadina di periferia situata in Toscana, nei pressi di Livorno, con vista panoramica sulle isole dell’arcipelago. Elisa è la straniera, la forestiera. È giunta da Biella con la madre e il fratello con sempre più gravi problemi di droga, per tornare a vivere con il padre che non vede se non in occasioni ben prefissate essendo i genitori separati. Non si ama, non spicca per bellezza nonostante i suoi capelli rossi e quelle lentiggini che le solcano il viso. È presa in giro dai compagni, sbeffeggiata. Vive di parole ed è grazie alle parole e alla biblioteca che vede per la prima volta Lorenzo, coetaneo compagno di liceo del quale si invaghisce. Ed è ancora tra le mura di questo complesso che il suo rapporto con Bea passa dall’essere quello di derisione a quello di amicizia. Lei che è la più bella, che è già famosa per i suoi servizi fotografici, che mai può permettersi di prendere un chilo o di avere un ricciolo libero da quella chioma rigorosamente piastrata, diventa la sua migliore amica.
Passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni. Siamo a cavallo degli anni duemila e con questi passano le vecchie abitudini del vecchio mondo e arrivano le nuove dettate da quella cosa chiamata internet ancora sconosciuta e perfino denigrata. Il padre di Elisa è un ingegnere e subito ne resta affascinato, ci si tuffa a capofitto e propone alle ragazze anche di aprire un blog. Erano tempi diversi, erano i primi spiragli di quello che sarebbe diventato il mondo e se Elisa è reticente, Bea ha già fiutato l’occasione e iniziato a perpetrare la sua strada. Si impone come la bella, viene denigrata e definitiva frivola per questo, eppure questo suo essere la porterà a fatturare 50 milioni di euro l’anno quando non sarà più Beatrice ma la Rossetti e di anni ne saranno passati quindici. Perché la Rossetti ci ha visto lungo e adesso tutto è cambiato, tutto ha uno spessore diverso. Anche la loro amicizia, un’amicizia che viene rivissuta per mezzo di diari di scuola e poi stesa su carta in un giorno con un altro in prossimità della Vigilia di Natale…
«Per quanto oggi possa suonare incredibile quando cominciarono a diffondersi i blog erano territorio di conquista non per quelle come Bea, ma per quelle come me. A chi navigava nel 2003 non fregava nulla di bellezza o di vestiti: erano aspiranti scrittori, oppure “amanti di qualcosa” come mio padre, che desideravano condividere la propria passione, persone in vena di esplorazioni e amicizie. L’imperativo era scoprire, non mostrarsi.»
Ma cosa ne è stato di Beatrice e di Elisa? Perché la loro amicizia è giunta alla fine? Cosa è successo? Silvia Avallone torna in libreria con “Un’amicizia”, opera che riporta l’attenzione del lettore a riflettere su un tempo che ormai ci sembra lontano anni luce ma che in realtà non lo è. Ci porta a guardarci indietro, a chiederci cosa è stato e cosa è, ci chiede di dare uno sguardo al nostro essere stati e al mondo che ci circonda. E ci chiede, ancora, se tutto questo, è davvero necessario, se una vita per essere vissuta ha davvero bisogno di essere raccontata.
Tanti sono i temi che affronta, senza paura e senza nulla risparmiare al conoscitore. C’è tanta filosofia, inoltre, tra queste pagine e c’è anche tanta introspezione. Lo stile narrativo è rapido, pungente, trattiene. Accelera per poi leggermente rallentare nella seconda parte quando è proprio la vicenda che ti chiede di diminuire la marcia della lettura per afferrare quei concetti, quei sottesi che chiedono di emergere tra le fila. La storia è interamente narrata da Elisa e il conoscitore è catapultato nella sua mente, nei suoi pensieri.
Un libro attuale, che chiede di essere letto, che parla di una storia che riguarda tutti noi e che semplicemente resta. Buona lettura!
«La vita ha davvero bisogno di essere raccontata, per esistere?»
Maria Darida - 2 anni fa
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Una perfetta sconosciuta - Alafair Burke
La trentasettenne Alice Humphrey mai si sarebbe aspettata che quel lavoro, caduto dal cielo proprio nel momento del bisogno, si sarebbe rivelato un’arma a doppio taglio. Quando infatti il sedicente Drew Cambell le propone di gestire una piccola galleria nel Meatpacking District, la “Highline Gallery”, la donna, che da otto mesi è in stato di disoccupazione, accetta senza porsi troppe domande. Non si insospettisce minimamente del fatto che l’autore delle foto esposte, Hans Schuler, non voglia (e si rifiuti di) apparire, né del fatto che un presunto anonimo benefattore lo abbia preso sotto l’ala, né dell’assenza ed irreperibilità di colui che l’ha contattata, tanto che, anche se ritiene il contenuto delle immagini alquanto opinabili, il suo unico pensiero è quello di, almeno per una volta, avere il merito delle sue imprese. Alice, figlia d’arte di Frank Humphrey, regista, e dell’ex attrice, Rose Sampson, nonché sorella del quarantunenne Ben Humphrey, fratello problematico con precedenti in materia di droga, da sempre cerca di riscattarsi dal marchio di “figlia di papà”. Quale migliore occasione? I preparativi iniziano e si prolungano per appena tre settimane; il lancio della galleria non manca di farsi attendere e sorprende addirittura la stessa direttrice che, per quante aspettative potesse nutrire, non sarebbe mai arrivata ad ipotizzare un così eclatante furore e corsa all’acquisto delle foto. Il giorno seguente, le accuse. Pornografia. Pedofilia. Riuscitasi a mettere in contatto con Drew, si accorda col medesimo per parlare dei fatti il mattino seguente. Giunta in Galleria viene subito colpita da una serie di elementi: le vetrate della medesima sono state interamente coperte da fogli di carta da pacchi, all’interno non riesce ad accendere le luci, tutti gli oggetti che ne caratterizzavano l’arredamento sono scomparsi, ed il suo capo è riverso in una pozza di sangue. La polizia, non tarda, inoltre, a sottoporre alla sua attenzione, una foto che sembrerebbe ritrarla nella posa di un bacio col defunto. Ma come questo è possibile, se, di fatto, ella a malapena lo conosceva ed il massimo del contatto fisico avuto altro non era che il premere le proprie dita sulla carotide per verificarne il battito cardiaco? Che qualcuno stia cercando di incastrarla?
Joann Stevenson, ragazza madre, ha cercato di offrire la migliore delle vite alla figlia quindicenne Becca. Adesso che finalmente è riuscita ad ottenere, tra mille sacrifici, un lavoro stabile e una casa di loro proprietà, è fiera di sé e dei suoi traguardi. Da un paio di mesi, inoltre, va avanti la frequentazione con quel docente che le ha rubato il cuore. Il mondo, quindi, semplicemente le cade addosso quando, al mattino si rende conto che l’adolescente è scomparsa. Cosa le è successo? E perché? Che la sua sparizione sia collegata in qualche modo alla Galleria di Alice?
Hank Beckman è stato più volte reguardito: deve smetterla di seguirlo. Deve farla finita. Eppure lui non può, non può non controllare le mosse di colui che è il colpevole della sua morte. Ellen, la cara sorella, aveva una dipendenza, e lui non se ne è accorto in tempo..
Con “Una perfetta sconosciuta” Alafair Burke, dà vita ad un thriller caratterizzato dall’intrecciarsi ed alternarsi di più trame che, piano piano, riportano ad un mistero unico.
L’opera è intrisa altresì di una penna semplice, chiara, gradevole seppur talvolta tenda ad anticipare troppo. Si legge facilmente ma non conquista per pathos ed intensità risultando a tratti acerba. Il lettore ha la sensazione di trovarsi in una dimensione in cui non è completamente parte, come se vi fosse un vetro tra lui e il contenuto dello scritto. Lo sviluppo degli avvenimenti è buono, seppur prevedibile.
Non solo. Se in un primo momento la lettura prende ed incuriosisce, nel resto il testo è tutto un sali/scendi, e questo proprio perché se da un lato è facile - come anzidetto - intuire le intenzioni della scrittrice (riuscendo così ad anticiparne le mosse), dall'altro, la stessa, "caricandolo" eccessivamente, finisce col renderlo macchinoso.
Nel complesso "Una perfetta sconosciuta" è un prodotto apprezzabile ma non eccelso, un volume con una buona base di partenza ma penalizzato dal "voler mettere troppo", dal "voler far troppo".
Consigliato a chi ama il genere o a chi cerca una lettura senza pretese, piacevole con cui trascorrere qualche ora diversa.
Maria Darida - 6 anni fa
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Una storia semplice - Leonardo Sciascia
Sciascia è sempre una certezza. Poliziesco breve ed intenso: un'intrigo di mafia e di droga. In tutto il libro queste due parole non sono mai nominate con grande maestria. Un piccolissimo libro da leggere tutto d'un fiato. Solo una mente brillante avrebbe potuto pensare un'intreccio così acuto in così poca narrazione.
Federico Melillo - 6 anni fa
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