Venuto al mondo - Margaret Mazzantini
«”Non devi pensarci, devi venire”.
“Perché?”
“Perché la vita passa, e noi con lei. Ti ricordi?
[..] Di colpo mi chiedo come ho fatto a rinunciare a lui per tutto questo tempo. Perché nella vita capita di rinunciare alle persone migliori a favore di altre che non ci interessano, che non ci fanno del bene, semplicemente ci capitano tra i passi, ci corrompono con le loro menzogne, ci abituano a diventare conigli?» pp. 10-11
Gemma. Quando tutto ha avuto inizio, non era altro che una giovane donna, di circa ventinove anni. Oggi, invece, ne ha quasi cinquanta, è sposata con un ufficiale dei carabinieri, Giuliano, calmo e premuroso, un uomo che non si è tirato indietro dal tirare su quel figlio, Pietro, ora sedicenne, frutto di un passato che non può essere dimenticato. Una telefonata che arriva da Sarajevo. E’ Gojko, vecchio amico, poeta matto che simboleggia quei giorni indelebili nella memoria. E’ un richiamo a cui la protagonista non può sottrarsi. Perché quei dolori mai sopiti, quei dolori che non hanno mai smesso di battere sul cuore di Gemma chiedono di essere affrontati, e con loro vuol vedere la luce anche quella verità troppo a lungo celata. Ancora, ricordi di un eccidio senza morti, rendono impossibile provare emozioni. Di nessun genere.
E così Gemma e Pietro partono. La scusa ufficiale è quella di assistere ad una mostra fotografica in onore di Diego, grande amore, padre del ragazzo, e fotografo morto in terra straniera durante il suo lavoro, la realtà è permettere al giovane di fissare alcune immagini del padre, permettere alla madre di fare i conti con i propri fantasmi.
In un perfetto alternarsi di ieri ed oggi, Margaret Mazzantini affronta, con “Venuto al mondo” tematiche di grande impatto sociale nonché emotivo. In queste pagine, troverete, infatti, il dramma della maternità, un miracolo che può al tempo stesso rivelarsi dannazione ma anche il caos, la confusione in cui l’esistenza può cadere, per i fatti quotidiani che la compongono che per fattori esterni, quali la guerra, che con la loro disarmante criticità e infausticità, scompongono e distruggono le certezze.
Seppur il romanzo abbia un inizio lento, pedante e soprattutto nella prima parte farraginoso, e nonostante a tratti si perda nei sentimentalismi e moralismi, esso si dimostra portatore di grandi valori e contenuti pregnanti. Superate, invero, le prime trecento pagine, questo sopraggiunge con tutta la sua forza disarmante conquistando anche quel lettore che, inizialmente, non era riuscito a farsi rapire.
Buona anche la delineazione dei personaggi, tra tutti, Gojko, è il meglio riuscito. Senza difficoltà egli fa capolino nel cuore dell’avventuriero conoscitore riserbandosi un posto d’onore anche a conclusione della lettura.
Dal punto di vista stilistico, l’autrice si offre a chi legge attraverso un linguaggio troppo ricercato, un linguaggio fatto di epitaffi, parolacce e frasi brevi che, per quanto curate, finiscono con il far da ostacolo al proseguire dell’opera.
Nel complesso, il libro vale la pena di essere letto, ma ne consiglio la discoperta con la giusta propensione d’animo altrimenti potrebbe risultare faticoso e difficile da cogliere.
«..E la vita ride di noi
Come una vecchia puttana sdentata
Mentre ce la scopiamo a occhi chiusi
Sognando il culo di u giglio.. »
p. 198
Maria Darida - 6 anni fa
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Volevo solo averti accanto - Ronald H. Balson
Ben Solomon, ottantatre anni, è disposto a tutto pur di ottenere giustizia. Nato e cresciuto a Zamosc, l’uomo porta con sé ricordi che sono ancora oggi, a distanza di oltre sessaant’anni, vividi e dolorosi. La ferita che sanguina non accenna a risarcire, non potrà mai guarire. Ecco perché ha deciso di acquistare il biglietto per l’opera, ecco perché non ha il minimo dubbio sulle imputazioni che rivolge a Elliot Rosenzweig: per quanto quest’ultimo si spacci per caritatevole ed abbia fortissime influenze su tutta Chicago, Ben è deciso a smascherarlo poiché dietro la facciata, la parvenza di bontà si nasconde niente meno che Otto Piatek, “il macellaio” nazista che ha contribuito allo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. E c’è di più, Otto/Elliot, prima di macchiarsi indelebilmente di detti crimini, è stato cresciuto dai genitori di Solomon, ha mangiato alla loro tavola, ha condiviso momenti bui e non degli stessi, ha respirato la loro aria per poi voltare le spalle alla famiglia non appena ha iniziato a beneficiare dei lussi acquisiti con la forza dai tedeschi.
Ma come dimostrare la fondatezza di questa accusa? Tra tutti, l’unica speranza dell’anziano è l’avvocatessa Catherine Lockart, trentanovenne che dopo le remore iniziali farà l’impossibile per provare la reità di Rosenzweigt imparando altresì ad ascoltare, ad ascoltarsi. Perché per la donna l’incontro con quest’uomo non è solo un caso da risolvere, diventa una ricerca, un motivo per tornare a svolgere il suo lavoro non per le ore fatturate ma per il semplice dovere morale che è insito dietro la sua laurea. E vi riesce. Fondamentale è anche l’aiuto di Liam, investigatore privato da sempre di lei innamorato che avrà la funzione di sottoporre alla sua attenzione la missione dell’anziano nonché di ricercare tutte le prove fondamentali e necessarie per sbrigliare la matassa.
“Volevo solo averti accanto” è un romanzo che ci invita alla riflessione sotto molteplici aspetti. Ci insegna a diffidare dalle apparenze, a conoscere nel profondo, a sentire e a vedere non con gli occhi ma col cuore. E’ un elaborato che con una scrittura semplice e genuina rapisce lo scopritore per portarlo in una dimensione dove i valori della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della giustizia, della coerenza regnano sovrani. E’ un’opera che ci ricorda un dato di fatto della vita: tante persone si propongono quali presenti e disponibili, ma è soltanto nel momento del bisogno che avremo la consapevolezza di chi veramente sarà disposto a stare al nostro fianco per ragioni che esulano dalla convenienza.
Una storia senza pretese, forse, ma sicuramente capace di lasciare il segno. Un testo che sa farsi amare e che una volta concluso, vi mancherà.
«Ben respirò profondamente. Si guardò intorno, osservò le pareti decorate, i dipinti nelle cornici d’oro, gli ospiti ben vestiti che si gustavano le loro costate di manzo e i cabernet della California, il camino che emanava calore e confort. Quindi, con espressione triste, spiegò:”Tu ora sei seduta qui in questo tempio del lusso, sei un avvocato di successo, con una vita sicura sotto ogni aspetto, in un paese in cui una follia come quella nazista sembra inconcepibile. Oggi ripensiamo al flagello del Terzo Reich e scuotiamo la testa increduli. Come è potuta succedere una cosa simile? Perché gli ebrei furono così remissivi? E’ incomprensibile. Mio caro avvocato, non chiedermi con questa presunzione di spiegarti perché gli ebrei viennesi non lasciarono le loro case, la loro comunità, tutto ciò che conoscevano e amavano. Trovatela da sola una risposta razionale a un mondo che aveva perso il lume della ragione» p. 81
«Tutti noi rischiavamo di impazzire. Ma sai, è buffo: anche nel bel mezzo di un mondo che sta andando a pezzi si può sempre trovare una speranza a cui aggrapparsi, un futuro da sognare. Lo spirito umano ha una resistenza inesauribile. Io e Hannan passammo intere serate sul tetto a terrazza di casa nostra a guardare le stelle e a fare progetti per la nostra vita insieme. Il mondo intorno a noi stava sbriciolando, ma il futuro ci sembrava più bello che mai» p. 105
«Il male esiste, Catherine. Nelle tenebre del monte Moriah, dove non dimora la virtù, e nelle anime di coloro che se ne lasciano sedurre. E tutta l’umanità è responsabile quando si seguono, o si lasciano fare, i malvagi. Coloro che hanno perpetrato l’Olocausto, ma anche quelli che vi hanno assistito e ne hanno reso possibile la perpetrazione, quelli che ne hanno tratto profitto e quelli che hanno voltato la testa…Sono tutti responsabili. L’Olocausto […] non è accaduto per volontà di Dio, ma per volontà degli invasati dal demonio» p. 152
Maria Darida - 7 anni fa
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Works - Vitaliano Trevisan
Che cos’è esattamente Works di Vitaliano Trevisan? Un memoir, certo, ma anche un ritratto a tinte fosche del tanto celebrato nord-est del miracolo economico, un punto di vista critico su quel che resta della società industriale vista dal suo interno.
Mai come in questo caso è opportuno scomodare la celebre frase di Whitman: “Chi tocca questo libro tocca un uomo”. Ed è infatti l’uomo Vitaliano Trevisan che si mette a nudo in questo lavoro lungo seicentocinquanta pagine, scritto in cinque anni e infarcito di note che, di fatto, sono ulteriori estensioni del testo (cosa che fa venire in mente Infinite Jest di Foster Wallace, ma le similitudini tra i due romanzi si fermano qui). Il racconto inizia nel 1976 – quando l’autore aveva sedici anni – e termina nel 2002.
La motivazione che spinge Trevisan a compiere il percorso narrato - fatto di colloqui di lavoro, assunzioni, dimissioni, crisi aziendali, cassa integrazione e mobilità - sarà sempre la stessa: “non ci sono i soldi”. Solo col tempo l’autore comincia a selezionare, tra le opzioni lavorative che gli si presentano di volta in volta, quelle che gli consentono di mantenere la testa sgombra a sufficienza da permettergli di scrivere. Salvo poi scoprire, di fatto, che il mestiere dello scrittore mal si concilia sia con il contemporaneo svolgimento di attività manuali – che liberano la testa ma torturano il corpo – sia con le professioni dell’intelletto – che hanno l’effetto esattamente opposto.
Operaio in una fabbrica di gabbie per uccelli, magazziniere in una ditta trasporti, muratore, cameriere, geometra in vari studi professionali, venditore di arredi, impiegato in aziende che producono arredi per negozi o mobili per cucine, gelataio in Germania, lattoniere e altro ancora: ognuno di questi lavori è un’esperienza dolorosa, di cui l’autore nulla ci risparmia. Trevisan traccia ritratti impietosi degli imprenditori veneti, si sofferma a lungo sulle tristi meccaniche che determinano invidie, rivalità e ripicche tra colleghi d’ufficio e affronta senza pregiudizi ideologici le dinamiche del lavoro in produzione, premurandosi di descriverne anche gli aspetti più tecnici. Ogni nuovo mestiere è vissuto dallo scrittore come un passaggio necessario da compiere, non solo per garantirsi il pane, ma soprattutto per raggiungere il suo obiettivo ultimo: la scrittura.
Neppure i dettagli più oscuri del percorso dell’autore ci vengono taciuti: lo spaccio della droga per integrare paghe da fame, i tradimenti degli amici, i rapporti difficili con la madre e la sorella, i giudizi trancianti degli altri, il senso costante del fallimento, il matrimonio che va a rotoli. Non mancano brevi passaggi su certi temi caldi degli anni Settanta (terrorismo, rivoluzione mancata, riflusso), e sull’evoluzione delle politiche neo-liberiste italiane ed europee di fine anni Novanta, che aprirono la porta all’istituzionalizzazione del precariato. Trevisan si ostina a chiamare “padroni” gli imprenditori, ma litiga con Toni Servillo che – occupandosi della messa in scena di un suo testo – vorrebbe che gli operai indossassero la tuta blu “alla Cipputi per così dire (…) dimostrando di avere la classica immagine dell’operaio che sembra essersi fossilizzata in tutte le teste borghesi e piccolo-borghesi”.
Un libro da leggere dunque, nonostante la stanchezza che alla fine prende il lettore, alle prese con un’opera lunghissima e stilisticamente imperniata su una prosa che ingloba il dialogo nel flusso della scrittura. La difficoltà di provare empatia per quest’uomo emotivamente denudato, quest’uomo portato per carattere a essere contro - contro i padroni, contro i colleghi, contro i familiari, contro la burocrazia, contro i partiti e, spesso, contro se stesso e le proprie scelte - penalizza il romanzo. Conquistano invece la grande capacità tecnica di Trevisan - che scrive davvero bene ed è capace di assicurare alla narrazione un ritmo costante, certo con pochi sussulti ma scorrevole - e la profondità dell’analisi che, per ampiezza e dettaglio, ha pochi paragoni in Italia, almeno nel campo letteratura industriale.
Queste le parole con cui lo scrittore conclude il romanzo: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”.
Marco Ciampolini - 2 anni fa
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[1]: Salvare le ossa - Jesmyn Ward
«Non gli lascerò più la possibilità di vedermi. Non gli lascerò vedere niente finché nessuno di noi avrà più scelta, e allora nessuno potrà fingere di non vedere, nessuno potrà ignorare, e forse ciò che vedremo ci tramuterà in pietra» p. 109
Mississippi. Bois Sauvage, un bayou caratterizzato da fame, miseria, catastrofi naturali, povertà. Nella fossa, una depressione argillosa attorniata da boschi, querce, rifiuti, pollai fatiscenti, tir, elettrodomestici abbandonati, si erge una casa dal colore della ruggine che sin dal primo sguardo fa dubitare della sua stabilità. In questa fatiscente struttura vive la famiglia Batiste composta da un padre vedovo, alcolizzato, dispotico che sopravvive con un sussidio statale, e quattro figli tutti minorenni. Di questi quattro, tre sono di sesso maschile e una, soltanto una, la quindicenne Esch, è una donna. Ella è una sognatrice che vive quel mondo reale fatto di violenze e privazioni con gli occhi della mente e con gli occhi dei miti che legge sui libri. Con tutti i suoi fratelli ha un rapporto molto stretto, con Randall, giocatore di basket, è quasi genitoresco essendo lui colui che si sostituisce al padre quando questo non è in grado di provvedere alla famiglia perché ubriaco o assente, con Skeetah, che ha un legame strettissimo con la cagna China, è quasi in simbiosi, con Junior, il più piccolo e per cui la madre è morta di parto, di protezione. Sono stati loro a crescere il bambino, a insegnargli tutto quello che sa.
Esch è ancora la voce narrante del romanzo, ha conosciuto il sesso all’età di dodici anni e lo ha anche praticato compulsivamente non negandosi mai perché concedersi è più semplice che negarsi, perché sin dal principio è stato come “nuotare nell’acqua” e anche sotto questo aspetto si rivede interamente nelle Dee di cui è appassionata. In particolare si sente molto vicina a Medea essendo innamorata di Manny, giovane fidanzato con un’altra da cui però la nostra protagonista scopre di star aspettando un bambino. Questo è il suo segreto, un segreto di cui lei per prima non si è resa conto sino al sopraggiungere delle nausee. La ragazza non ha idea di cosa significhi essere madre: è cresciuta in un mondo maschile, ha perso la sua in una età in cui fatica quasi a ricordarla, non ha alcuno con cui potersi confidare e da cui poter imparare, con cui confrontarsi e ponderare le proprie scelte. Ecco perché osserva China, ecco perché si chiede se quello che lei ha con i cuccioli che ha appena partorito è e significa essere madre. Ancora si interroga sul gesto estremo che la cagna compie verso uno dei suoi stessi figli, un gesto agli occhi di noi umani che leggiamo quasi incomprensibile. Al contempo, non riusciamo a sottrarci all’empatia, ci sentiamo vicini a questa poco più che bambina timida e silenziosa, a questa bambina che non sa di poter dire di no, a questa bambina che non conosce l’amore e che non sa che cosa sia. Lo stesso atto sessuale per lei non è un momento di piacere, una condivisione con l’altro bensì è un gesto meccanico con cui gli uomini si soddisfano. Soltanto con Manny, forse, comprende di poter a sua volta provare qualcosa ma essendo ancora acerba, giovane e inetta al sentimento, non focalizza quel che in realtà lui vuole da lei.
Fra tutti i fratelli c’è un legame di mutua protezione, un rapporto riservato fatto di silenzi e sguardi ma che mira a far da scudo dalle prepotenze del padre che paradossalmente è l’unico che percepisce il pericolo dell’uragano imminente tanto da far di tutto per preparare le casa, per procurarsi più provviste possibili, per salvare i suoi figli che sono tutto quel che gli resta. Un uragano, il “Katrina” che si mantiene di fatto sullo sfondo delle vicende. Si sa che c’è, è percepito come un pericolo imminente, eppure soltanto gli ultimi due capitoli sono dedicati al suo arrivo e alla sua capacità di devastazione. Il resto dell’opera si focalizza sull’attesa di questo e in particolare sulle vicende che vedono coinvolti i vari protagonisti. Perché le giornate sono scandite ad eventi più importanti, pregnanti, da necessità e urgenze più impellenti. Assisteremo così a risse, corse per i boschi, scontri tra cani, riflessioni e pensieri ma anche a ricordi dei tempi che furono. In tutto ciò colpisce nuovamente la figura del padre che nonostante il suo dispotismo e i suoi innumerevoli difetti, rimane legato alla defunta moglie con tutto sé stesso. È impensabile per lui allontanarsi da lei anche quando un incidente lo ferisce brutalmente, anche quando la vita della famiglia Batiste è seriamente in pericolo a causa di un ciclone molto più forte e violento delle aspettative. A dimostrazione di ciò, la fede. Un oggetto simbolico che sancisce un legame profondo e intramontabile che nemmeno la morte può separare. E lo stesso cataclisma, ancora, è lo strumento con cui l’autrice ci dimostra quanto questa famiglia apparentemente disarcionata e sfaldata sia in realtà unita e compatta nel suo essere. Non solo, al suo termine, è anche il mezzo con cui la solidarietà umana si offre al mondo aprendosi le porte dei più fortunati in aiuto a coloro che al contrario, nonostante le precauzioni, si sono visti privare di tutto.
«Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. Il suo carro era una tempesta terribile e nera, e i greci avrebbero detto che era trainato da draghi. La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lasciati vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata di sale. Ci ha lasciati qui perché impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un’altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.» p. 304
La Ward con “Salvare le ossa” riesce in una impresa tutt’altro che semplice e mediante una scrittura densa e morbida al contempo, una scrittura che si rilassa, accelera e poi nuovamente si distende, crea un ritmo sincopato che stringe implacabilmente il lettore. Il risultato finale è quello di un romanzo a più strati, un romanzo duro, complesso e articolato che disturba per la crudeltà e la crudezza che rappresenta ma che tocca anche le più intime corde di riflessione. L’autrice crea ancora, oltre che alle circostanze, dei personaggi che si fanno amare, tutti indistintamente seppure per motivi diversi e ricrea altresì ambientazioni che sono tangibili con mano. Il conoscitore sente gli odori, vede i colori, percepisce i suoni della fossa.
Primo capitolo della trilogia di Bois Sauvage “Salvage the bones” è un elaborato che lascia il segno e che merita a pieni voti di essere letto.
«Lei tornerà, e si ergerà, diritta e maestosa, senza più una goccia di latte. Abbasserà lo sguardo sul cerchio di luce che abbiamo acceso dentro la Fossa, e allora saprà che sono stata attenta, che ho lottato. China abbaierà e mi chiamerà sorella. Nel cielo soffocato di stelle, c’è un grande silenzio di attesa. Lei lo saprà che sono madre» p. 308
Maria Darida - 5 anni fa
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