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Cronaca familiare - Vasco Pratolini
Nato a Firenze nel quartiere de’ Magazzini il 19 ottobre 1913 e figlio di Ugo, cameriere, e di Nella Casati, sarta del laboratorio del corso morta nel 1918 mentre il marito era al fronte e ad appena 25 giorni di distanza dalla nascita del secondogenito Dante, ribattezzato dai suoi protettori, Ferruccio, Vasco Pratolini è un uomo malinconico, che affronta la vita con concretezza, senza illusioni, è un individuo che è mosso dalla curiosità, dalla smania di conoscenza tanto che, persino dopo essere stato cacciato dagli Scolopi per indisciplina, fa della lettura e dello studio da autodidatta una costante.
Da sempre il rapporto col fratello è complesso. Nella giovane età si può parlare di un legame paragonabile a quello di due sconosciuti: prima l’autore non vede di buon occhio Ferruccio perché implicitamente lo ritiene responsabile della morte della madre, successivamente lo percepisce come un estraneo, essendo quest’ultimo cresciuto sotto l’ala di una famiglia agiata ed essendosi i rapporti tra questi limitati a rapidi incontri del giovedì, brevi lassi di tempo in cui era impossibile instaurare un affetto per tempo e pensiero. Due anime parallele destinate a non incontrarsi mai, potrebbe osarsi.
Intorno ai venti anni del minore e dei venticinque dello scrittore, il riavvicinamento. Un rincontrarsi ma anche un imparare a conoscersi, per la prima volta, davvero. Da questo momento, i due costruiscono quel “ponte di contatto” che le circostanze della vita avevano impedito. Per entrambi essenziale è la nonna, con cui Vasco cresce e a cui Ferruccio chiede, domanda della madre. Ambedue soffrono dell’assenza di questa figura, il maggiore perché nel suo ricordo non poteva vedere una donna viva poiché questa altro non era che un’immagine confusa, avvolta nel velo della commedia, e percepita per la prima volta nel letto di morte, per il minore è quel punto fermo che non ha mai avuto, una persona intorno alla quale ruota la menzogna, il sentito dire, il riportato, si vociferava infatti che ella fosse “matta”, “strana”. Quale la verità? Quale la falsità?
Poi la malattia. Il dolore di un corpo che si consuma senza pietà, divorato da un male incompreso ed inspiegato dai medici che dopo tentativi su tentativi altro non hanno potuto fare che alzare le mani per arrendersi al destino. Alcuna la possibilità di salvezza. Il dolore per l’impossibilità e l’incapacità di fare qualcosa, di alleviare quella pena, quel dolore atroce a cui Vasco assisteva impotente.
Un romanzo che nella sua semplicità e brevità fa breccia nel cuore del lettore, lasciandolo riflessivo, turbato, scosso.
«Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali, che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala della farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso ma non troverà più ne suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità.» p. 97
«La tua sensibilità ti portava a prospettare ogni conflitto, anche il più banale e fortuito, come una colpa di cui soffrivi esasperandone i toni, l’umiliazione e lo sconforto. Ora io so che tu eri un inerme, votato ad uno sterile sacrificio, in un mondo ove anche l’agnello è costretto a difendere ferocemente la propria innocenza» p. 102
Maria Darida - 7 anni fa
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Cronache marziane - Ray Bradbury
Le suggestioni che Bradbury riesce a creare con le sue idee, con il suo stile, con il suo semplice narrare sono perle rare capaci di risvegliare il subconscio umano in tutte le sue imperfezioni e paure. Quando lessi per la prima volta le “Cronache”, poco dopo aver ultimato il mio amato ed ispiratore Fahrenheit 451, restai basita dal genio di questo autore, dall’idea di riflessione proposta, dalla poesia con cui riusciva a trasmettere con chiarezza lo specchio dell’umanità del tempo. Perché questo ha fatto Bradbury, da un lato nell'ipotizzare la conquista dell'uomo di altri ancestrali pianeti – e nonostante l'intrinseca possibilità di ricominciare tutto dal principio, di porre rimedio a quegli errori che tanto lo avevano caratterizzato sulla Terra – ha dimostrato l'incapacità del genere di appartenenza di far tesoro dei propri sbagli e dunque di imparare da essi; dall'altro ha offerto una panoramica completa della cultura del tempo; gli abitanti che popolano questo romanzo non sono altro che l'archetipo dell'americano medio degli anni '40/'50 razzista, falso perbenista, mentalmente stereotipato e totalmente rivestito di infiniti pregiudizi.
In antitesi ai terrestri vi sono poi i marziani, esseri diversi dai primi ma non tanto nell'aspetto – non attendetevi la descrizione di alieni dalle tre teste e le sette braccia – quanto nell'evoluzione della propria civiltà. In tal senso, un racconto mi ha particolarmente colpito, ed è quello del padre missionario che affascinato da queste “sfere” azzurrine cerca di instaurare un rapporto con predette creature sino alla consapevolezza di non dover far altro che limitarsi ad imparare dalla loro saggezza. Altro passaggio – dei tanti – che mi ha arricchito – e che considero una rarità – è quello dell'emigrazione dell'intera popolazione di colore sul pianeta Marte perché quando non hai niente da perdere non hai paura di lottare per ricominciare e cambiare le cose. Viceversa il bianco si rende conto della rilevanza che aveva il nero – che ha tanto maltrattato e deriso – soltanto quando lo ha perso e i fiocchi di cotone aleggiano tranquilli nelle distese coltivate. Ulteriore significativo spunto di riflessione l'ho riscontrato nel brano che ha quale protagonista l'eclettico Stendahl che nella sua brama di vendetta riscuote nel lettore quell’insegnamento che l'indimenticabile Fahrenheit 451 aveva trasmesso nella sua lettura.
Marte è sinonimo di perfezione; è la metafora della Terra prima dell'avvento del genere umano. Che avesse ragione Spender? Si, vien da affermare. Il giungere sul pianeta rosso del terrestre può tradursi nella bieca brama di potere, nella stupidità, nell'arroganza, nella corruzione perché ogni buon principio che, almeno inizialmente animava il cuore dei coloni, si è perso nell'oblio per dar adito a quelle caratteristiche stanziate nell'anima dell'uomo. Non stupisce dunque che chi crede di sapere imponga la sua dottrina, che le passioni si tramutino in mania, che il buono ed il rispetto diventino concetti astratti paragonabili tanto alla devozione quanto al miraggio. Perché accettare, perché non rispettare quel nuovo mondo ed imparare dai lasciti di una cultura evoluta? Perché l'uomo non riconosce minimamente quegli errori insiti nella propria natura e alla dipartita per Marte, prepotentemente e testardamente, se li porta dietro radicandoli in un pianeta che a sua volta diventerà immagine e somiglianza di quello appena abbandonato. E dunque, a cosa è servito andarsene?
Feste e proclamazioni si aspettava al suo arrivo su Marte il terrestre invasore. La sua conquista del pianeta è paragonata a quella che ha visto protagonisti gli indios d'America al giungere degli europei alla conquista del Nuovo Mondo. E si stupisce l'astronauta della Terra; perché le chiavi del Pianeta Rosso non gli vengono consegnate? Perché i marziani li prendono per pazzi o comunque non si mostrano entusiasti del loro arrivo? Ben quattro spedizioni prima di pervenire all'estinzione degli alieni. Inevitabile il passaggio di proprietà che, badate bene, non è una resa da parte dei marziani bensì una la metafora del padre che accontenta il figlio capriccioso sussurrandogli all'orecchio di non crogiolarsi sugli allori visto che da quel momento la battaglia da condurre è contro la sua stessa natura di rampollo.
Nel finale il dubbio, l'incertezza sul futuro narrata con grande maestria e con pillole di saggezza letteraria che si marchiano indelebili nella mente di chi legge.
Con ambientazioni quasi fiabesche, significati intrinseci e una scrittura esaustiva, chiara e magistrale; Bradbury dà vita ad un'opera che vale la pena di essere letta. Il suo significato viene colto in più riprese, alla conclusione del componimento, infatti, non è possibile comprenderne tutta la profondità, questa in parte sfugge, non perché il lettore non sia capace di percepirla bensì perché è necessaria una riflessione a posteriori, a freddo per assaporarla nella sua interezza. Come più volte asserito dallo stesso autore lo scritto è una rivendicazione della fantasia contro il realismo letterario dell'epoca, è intriso della visione del Mondo propria da sempre di Bradbury che, come altri autori del suo tempo (vedi Huxley o Orwell), tendeva il suo occhio scrutatore nella panoramica del “bianco e del nero” senza dar voce alle sfumature; ma è e resta un componimento degno di nota. Un romanzo che va gustato e letto poco alla volta.
Vi lascio con un breve incipit:
« I marziani scoprirono il segreto della vita tra gli animali. L'animale non cerca di capire la vita. La sua stessa ragione di vivere è la vita; esso gode e gusta la vita. Vede, tutta la scultura marziana, questi simboli animaleschi ripetuti all'infinito...»
«A me sembra una cosa pagana».
«Anzi! Quelli sono simboli divini, simboli di vita. L'uomo, anche su Marte, era divenuto troppo uomo e non abbastanza animale. E gli uomini di Marte si accorsero che per sopravvivere avrebbero dovuto dimenticare la solita domanda: Perché vivere? La vita era la risposta a se stessa. La vita era propagazione di maggior vita e di un vivere la miglior vita possibile. I marziani si accorsero che la domanda “Perché vivere” veniva fatta invariabilmente al culmine di un periodo di guerra e disperazione quando non c'era risposta. Ma poi la civiltà si placò, le guerre cessarono e la domanda perse ogni senso per altri motivi. La vita era bella, non c'era più bisogno di discussioni e di analisi».
« Si direbbe che i marziani fossero molto ingenui».
« Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo. Non permisero alla scienza di stritolare l'estetica e la bellezza. E' sempre questione di gradazione. Un uomo della terra si dice:-” In quel quadro il colore non esiste realmente. Uno scienziato può dimostrare che il colore è soltanto il modo secondo cui le cellule sono disposte in una data sostanza per riflettere la luce. Pertanto, il colore non è una parte sostanziale delle cose che mi capita di vedere”. Il marziano, infinitamente più acuto, dirà: “Magnifico quadro. Lo dobbiamo alla mano e alla mente di un uomo ispirato. Alla sua idea, il suo colore vengono dalla vita. E' dunque cosa buona”. »
Maria Darida - 7 anni fa
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CSS - Gianluca Troiani
Pratico, molto pratico per chi vuole imparare subito. Consiglio, come ogni manualistica sui linguaggi di programmazione, di scrivere codice oltre che leggerlo. Così facendo assimili di più e più velocemente. Non valido per approfondimenti ma consigliato per chi inizia.
Utente 5216 - 6 mesi fa
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Da dove la vita è perfetta - Silvia Avallone
Adele, pochi giorni ai diciotto anni, è sola in quella sala parto. Bianca, la bambina che porta in grembo da nove mesi, sta per nascere e tra le due sa che non potrà che esserci un breve ed unico saluto. Dopo quel lieve contatto, quel lesto “rendez vous” di appena 20 minuti, le loro strade si separeranno definitivamente. Non hanno che quei 1200 secondi da trascorrere insieme. E’ tutto quel che è a loro concesso.
Dora, trent’anni, insegue quella maternità come se fosse la sua unica ragione di vita. Insegnante di lettere, coniugata con Fabio e portatrice di Handicap a causa di quell’arto mancante, ella è schiacciata dal vuoto di quell’assenza. Due solitudini, quelle dell’adolescente e della donna matura, messe a confronto; imparagonabili, forse, così identiche, di fatto.
Zeno, lo studente di liceo classico e una madre in depressione da accudire, è nato narratore, non protagonista. Egli non è destinato a vivere una sua vita bensì, quella degli altri. Suo compito è, assistere, aiutare, osservare, riportare, essere la colonna portante di quegli attori già pronti a salire in scena. Manuel, amico di sempre, e da sempre, del liceale, è uno spacciatore. La sua strada si è brutalmente separata da tutto e da tutti, lui che è cresciuto curando quella donna che lo ha creato dalle ferite fisiche, e mentali, che quel padre tossico e violento immancabilmente le arrecava, adesso non desidera altro che denaro e riscatto.
E c’è un quartiere che si trova nei pressi della città di Bologna, un quartiere di casermoni, di povertà, soprannominato “I lombriconi”, un luogo dove vite al limite si intercalano tra loro, cercando di sopravvivere, credendo in un domani, anche se questo domani non c’è, perché sono tutti, inesorabilmente, nati per perdere. Non esiste una seconda chance, una possibilità di redenzione. Cos’ha la vita da offrire loro? Cosa loro possono offrire all’esistenza stessa? Vi è, poi, una vita perfetta? Si? No? Dov’è quel confine da cui si può affermare con assoluta certezza che ha inizio la compiutezza della medesima?
Con una penna forte, diretta e che nulla risparmia al lettore, Silvia Avallone, stupisce, conquista, semplicemente spiazza. Per tematiche. Per stile. “Da dove la vita è perfetta” è un testo doloroso, che ti arriva dentro, che ti fa stringere il cuore, un elaborato che nel suo insieme tratta una serie di problematiche non scontate ed anzi di grande impatto sociale. Tra le sue pagine troverete la solitudine, l’abbandono, la maternità non voluta in contrapposizione a quella desiderata, la sconfitta dell’impossibilità di scegliere diversamente, l’impotenza di poter cambiare le proprie vite, l’amarezza, l’attesa, la rinuncia, la complessità del rapporto genitori-figli e figli-genitori, bambini cresciuti troppo in fretta e costretti a prendersi carico di responsabilità troppo grandi, giovani che schiacciati dai doveri sono finiti con l’intraprendere il sentiero errato perché non hanno guide, non conoscono, né vedono altre vie in quella ricerca disperata di una fuga, e troverete ancora l’egoismo per quel desiderio che dirompente acceca e travalica tutto, perfino la ragione, nonché, la consapevolezza che perfino il dolore diventa sopportabile se giustificato dalla necessità di far del bene a quella creatura che ha formato quel “noi”, plurale, dalla volontà indiscussa di volerle garantire un futuro. Questo e molto altro ancora è, “Da dove la vita è perfetta”. Uno scritto ove l’autrice si supera, e si dimostra apprezzabilmente maturata.
«”Siamo, come si dice, arrivati ad un punto di non ritorno”. “Allora non ritorni” le disse semplicemente. “Non ritorni dove sa già che non troverà niente. Cambi strada. Vada altrove”.» p. 137
«Perché pensi che le torri, i cortili non siano interessanti? Li hai mai guardati, hai preso appunti? Finché non le metti nero su bianco, le cose, non le vedi. E poi, chi te l’ha detto che ti deve venire facile? Niente di più falso. Pensa che una volta ci ho impiegato un mese a scrivere una frase. Perché volevo che fosse perfetta e non lo era mai» p. 187
«Quando qualcuno ti abbandona, e lei lo sapeva bene, ti lascia in eredità un vuoto. Che rimane li, tra le costole, e non c’è modo di mandarlo via. Però, le disse. Tu avrai una vita intera per costruirci intorno delle cose belle. Sai, io non conto niente alla fine. E’ il mondo dove andrai ad abitare che conta. Un giorno ripasserò di qui, tra cinque, sei anni, te lo prometto. E la bambina più bella che vedrò giocare anzi non la più bella, la più felice, penserò che sei tu.» p. 305
Maria Darida - 6 anni fa
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Dimitri Costagli - 8 mesi fa
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Diario in versi del brutto tempo - Antonio Morelli
«Se non scrivessi le poche righe che qui compongo [..] sarei uomo senza sguardo, senza il permesso di vivere » scrive Antonio Morelli ne “Il permesso di osare” , componimento classe 2007, da cui traspare in tutta la sua forza, il bisogno di elaborare, per vivere la poesia quale luogo ove il vissuto può ricomporsi ed esprimersi in tutta la sua semplice verità.
Perché la parola è strumento, ma anche fine. E’ il mezzo dell’animo sensibile per pronunciarsi, per rimettersi in pace con quella ferita che lacera nel profondo, per guardare con i propri fissi occhi quel dolore che attanaglia, che piega, che incessantemente percuote. Ed è il fine, perché attraverso il verbo, il poeta, risponde al canto intimo, perché attraverso il verbo il poeta è tutt’uno con quell’unico vero vivere cercato, bramato, auspicato.
La poesia non è dunque per Morelli solo e soltanto inchiostro su carta che corre e che va; è liberazione, è vita che lenta ed inesorabile si ripercorre, che lenta ed inesorabile si riapre agli occhi primi del sofferente uomo che in punta di piedi vi si avvicina, che si infrange con tutta la sua violenza contro l’individuo-scoglio, perché necessita di “uscire”, perché semplicemente è “essere”, luogo in cui vivere, luogo da vivere.
E’ spazio, dimensione, tempo. Spazio in cui dipanarsi, dimensione in cui chiarirsi, tempo in cui redimersi. Ed è tempo che non è mai avaro di riferimenti perché circoscrivere e precisare sono indispensabili per la spazialità. Solo attraverso il primo, la seconda può esistere. Solo attraverso il primo, la seconda può rivelarsi. E’ quella stanza dove il letterato si interroga, dove l’uomo si mette a nudo.
«Non conosco ancora questa casa. L’interno e l’esterno sono ospiti che ancora non frequento. Li frequento invece nei momenti oscuri.. la sera.. quando pernotto nelle adamantine stanze. Talvolta ho aggiunto una virgola a tale pagina, [..] talvolta ancora la riempio di libri e versi. E ve li scrivo..» da “Stanze”, 30/04/2011. P. 136
Versi, quelli di Antonio, che sono concreti, sostanziosi, tangibili con mano. Non sono mai fini a sé stessi, vanno sempre oltre, si staccano dalla dimensione onirica per abbracciare quella del vero mediante una ritmica che scandisce i momenti, gli istanti, senza mai cedere, senza mai lasciare la presa sul lettore.
Una composizione, quella di “Diario in versi del brutto tempo” che spicca altresì per maturità implicita, per evoluzione stilistica, per creatività innata. Dalla sua lettura, non passa inosservata quell’intima crescita umana. E se “Poesie private” si propone quale esperimento dell’attendibilità e della tenuta del progetto di “vivere in poesia” perché poetare è vivere, nell’opera presentata, questo sperimentare trova risposta alle sue domande, trova risoluzione a quei conti ancora aperti. Una transizione ove vi è possibilità di chiusura per questi ultimi, ove quel “vivere in poesia” è affrontato nella forma nuova del “diario”.
Un perfezionamento notevole, che non passa inosservato e che si fa apprezzare in ogni suo studiato canto. Perché la poesia di Morelli non è mai lasciata al caso, non è mai improvvisata. Ogni vocabolo, ogni verso, ogni rima è incastonata ed incasellata in quella concatenata sequenza per ragioni profonde, e mai scontate.
Maria Darida - 6 anni fa
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Divorziare con stile - Diego De Silva
Ed è tornato in libreria in questa calda estate l’Avvocato Vincenzo Malinconico con una nuova ed esilarante discettatura sulla società e sulla realtà della professione forense. Un testo che è, altresì, avvalorato da una trama alquanto lineare e dal consueto stile sarcastico dell’autore.
E se da un lato l’eclettico protagonista nato dalla penna di Diego De Silva si trova a fare i conti con un Giudice di pace che è tutto un programma ed un risarcimento danni per naso rotto a fronte di colluttazione con porta a vetri non segnalata e priva di maniglia e/o ogni altro elemento atto ad indicarne la presenza, dall’altro, si ritroverà invischiato in una causa di separazione che ha quale protagonista niente meno che la coppia Tarallo. Ugo Maria Starace Tarallo, avvocato affermato e noto tra le file dei professionisti, ha infatti ben pensato di liquidare l’avvenente e bellissima consorte dalle movenze sensuali e dalla florida chioma rossa, Veronica Starace Tarallo, con una sorta di TFR divorzile al posto della canonica tantum dell’assegno. Ovviamente, ricorrendo alla falsa veste di una separazione consensuale. Falsa veste perché il marito, venuto a conoscenza della relazione virtuale intessuta dalla compagna con uno sconosciuto, a cui era seguito un vero e proprio fascicolo, comprendente messaggi, foto, conversazioni chat e quant’altro fosse tra i due intercorso, aveva giustamente pensato di avere il coltello dalla parte del manico. Della serie, o te ne vai con le buone e alle mie condizioni, o te ne vai con le cattive prendendo ancora meno.
Ma Veronica, che nella vita ha ben capito qual è il suo posto, non ci sta e decide di affidarsi, dopo aver assistito al processo streaming del sequestro in supermercato de “Mia suocera beve”, a niente meno che Malinconico, il quale, a fronte di un pranzo alquanto sui generis, decide, di prestare la sua opera.
Ed è da qui che il romanzo prende campo e si apre con forza disarmante, sorprendente. Lei, sensuale e femme fatale, e lui, arrogante, pieno di se, che porta avanti il suo cognome e la sua fama prima della sostanza, saranno affiancati nel loro percorso da un Vincenzo che non si sottrarrà all’arduo compito di ragionare, riflettere, tessere e sfilare.
Il tutto attraverso una penna fluente, chiara anche se forse un po’ troppo intrisa di parolacce. La prosa è ironica, accattivante, ed impedisce a chi legge di staccarsi dallo scritto. Un tuffo nei rapporti familiari del passato, una guerra a suon di pecunia e colpi bassi, un racconto senza pretese ma anche molto intrigante e ben costruito.
«L’indignazione non dice: Questo sì, quello no. Non la mette sul personale. Se la prende con tutti. Ci si indigna contro un’opinione, un’idea di società, un modo di vedere la vita.» p. 6
«Perché c’è un momento in cui la storia detta legge, ed è quando qualcuno si comporta da uomo e la scrive» p. 13
«E’ la sindrome del lieto fine, che poi rovina un sacco di belle storie. Perché tante volte la vita ti dimostra che una storia non è bella perché finisce bene, ma proprio perché finisce» p. 48
Maria Darida - 6 anni fa
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Donne dell'anima mia - Isabel Allende
Con “Donne dell’anima mia” ripercorriamo il percorso di vita di Isabel Allende dai tempi dell’infanzia sino ai giorni nostri in particolare soffermandoci sul suo essere da sempre femminista. Ella, infatti, sin dalle prime battute di questo titolo di appena 174 pagine e capitoli brevi composti da un paio di pagine ciascuno, si afferma tale sin dall’asilo, sin dalla più tenera età e dunque in netta contrapposizione con quel machismo che le ruotava attorno. Un componimento, dunque, autobiografico e il cui tema è chiaro sin da subito, pertanto, se non siete lettori amanti di questa tematica, suddetto scritto non potrà solleticare particolarmente le vostre corde e le vostre curiosità anche perché non esente da cliché. Se al contrario siete amanti della problematica potrà essere un buono spunto per arricchire il vostro bagaglio o comunque per avvicinarvici.
La Allende non ci risparmia di confessioni, non ci risparmia di riflessioni. La sua penna è rapida, informale, diretta. La pillola non viene resa più indolore, l’anima è messa a nudo per quello che è e per quello che può offrire. Nel suo bene e nel suo male.
Ecco perché può dividere. “Donne dell’anima mia” è un volume dove la protagonista è Isabel Allende e il suo femminismo. Non c’è spazio per storie di tempi che furono o per una prosa poetica ed evocativa come nelle sue opere del passato più celebri e famose. Non è oggetto del lavoro proposto e del suo essere scritto. Quindi se questo cercate, ne resterete delusi.
Se viceversa cercate una biografia, un testo che non è altro che una confessione, un memoir dell’essere passato e presente, una sorta di vademecum di valore e principi in cui credere, una lettera a cuore aperto, ecco allora che farà per voi. Certamente questo non è il libro con cui cominciare a leggere l’autrice per conoscerla nell’aspetto di scrittrice. Buona lettura!
Maria Darida - 3 anni fa
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È solo una storia d'amore - Anna Premoli
Aidan Tyler, crogiolandosi sulla vincita di un Premio Pulitzer, si è lasciato andare. Sono infatti cinque anni che non scrive, cinque anni che, coccolato dalla critica, si bea sulla scia delle numerose copie vendute, sul successo ottenuto. Eppure da allora non è riuscito ad elaborare nemmeno più una riga. La sua esistenza si è data alla dissolutezza, alle frivolezze così come le sue avventure amorose, conquiste che mai vedono quali protagoniste donne intelligenti e argute. Questo almeno fino a che, dopo l’incontro con Norman, il suo agente, incontra Lauren meglio nota come Delilah Dee, autrice di romanzi rosa. Inizialmente l’uomo non si rende conto di trovarsi di fronte ad una collega pertanto, e senza troppe cerimonie, demolisce il genere per la quale ella presta la sua penna, dando avvio ad una serie di diatribe, discussioni e litigi che li porteranno a stendere la stessa storia ma vista dal punto di vista maschile e femminile e che sfoceranno, in conclusione, in un profondo amore.
Per poter valutare questo romanzo è necessario porre in essere un distinguo: se siete infatti “vergini” della Premoli vi troverete di fronte ad un testo semplice, simpatico, senza troppe pretese, e con una base di partenza buona che viene sviluppata in modo lineare e con tutti i presupposti per attrarre; ma se al contrario avete già letto opere di questa autrice, detto elaborato, vi lascerà – o vi potrebbe lasciare – perplessi. Se infatti lo schema narrativo adottato è il medesimo (la coppia si incontra, litiga e si innamora), i temi sottesi sono molteplici. Appare infatti di tutta evidenza come la stessa abbia con questo scritto voluto rispondere “ad un messaggio”. Ella si concentra particolarmente sull’appartenenza al genere rosa, rimarcando da un lato come questo venga spesso svalutato – a suo dire soprattutto dal pubblico maschile che dimostrerebbe nei confronti di questo un atteggiamento snobbante, sminuente – e dall’altro muovendo una critica silenziosa a talune altre innominate autrici-colleghe che sono le prime a dar vita a racconti in modo più che opinabile. Sembra quasi voler dire “se vi muovono contestazioni è anche colpa vostra perché ve la cercate”. Infine conclude, tramite la voce della protagonista femminile, rimarcando che non c’è niente di male ad appartenere a questo filone che anzi chi ve ne fa parte deve esserne fiero e vincere il malessere interiore che spesso i terzi inducono a provare, che si può essere al tempo stesso scrittrici e altro, che si può meritare stima a prescindere dal mero preconcetto e pregiudizio, che il romanzo rosa è ad oggi suddiviso in molteplici sottogeneri ma che quello principale e classico – quindi no erotico e fasce intermedie – rappresenta il maggiore strumento di espressione del femminismo. Non mancano inoltre i riferimenti alla politica, tantomeno alle elezioni presidenziali americane che hanno da poco avuto termine.
Come potete quindi vedere, se da un lato la Premoli ci offre uno scritto piacevole e con tutte le basi per riuscire, dall’altro tocca questioni a lei talmente care da indurla a dire la sua. Nelle note finali, la medesima spiega e rimarca quanto anzidetto. L’effetto conseguente è che prende meno rispetto agli altri suoi scritti, ma non per questo non merita di essere letto. Che dire, a quando la storia tra Norman e Alex? Siamo curiosi..!!
Maria Darida - 7 anni fa
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Ecologia dei siti web - Maurizio Boscarol
Eccessivamente pomposo sotto certi aspetti, assolutamente non pratico per UI/UX designers ma completo al livello teorico e riflessivo.
Utente 5216 - 6 mesi fa
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