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Elisabetta - Vittorio Sabadin
La storia inglese è una delle mie più grandi passioni, tra le tante letture che volevo approfondire sulla casata dei Windsor ho deciso di cominciare da questo libro, Elisabetta: l’ultima regina.
Dalla prima pagina fino alla fine del libro lo scrittore, Vittorio Sabadin, si contraddistingue per la sua meravigliosa scrittura, ripercorrendo tutta la storia di Elisabetta II fino al suo 70esimo anno di giubileo.
Tante chicche le conoscevo già ma grazie ai suoi aneddoti ho potuto scoprirne delle altre.
È stata una sorpresa per me aver trovato anche notizie sull’abdicazione di Edoardo VIII e la liason con la sua futura moglie, Wallis Simpson.
Mi è piaciuto che non abbia mai preso posizione durante il racconto dei vari componenti della famiglia reale.
Lo consiglio!
Sara Miglietta - 5 mesi fa
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Emmaus - Alessandro Baricco
Quattro i protagonisti: Luca, Bobby, il Santo e l’io narrante della vicenda. Quattro ragazzi che appartengono alla borghesia, quattro anime che sono cresciute con l’asservimento a regole ferree e precetti religiosi che, vuoi a causa dell’età, vuoi per i tempi, non comprendono fino in fondo. E per quanto ne discutano, ne parlino, ragionino, quei dubbi restano, quelle perplessità che li hanno portati ad analizzare e ad interrogarsi, persistono.
Crescono e con loro prosperano questi dilemmi, assumendo volta volta differenti pieghe poiché ciascuno è contraddistinto da realtà familiari e di vita mutevoli. Ognuno vive infatti in un contesto diverso; taluno in una famiglia apparentemente dedita al dialogo, talaltro in una in cui questo è inesistente o dove i segreti imperano incessanti dietro silenzi e mura di divisione non solo fisica ma anche mentale e con quella cecità propria di quei genitori che si rifiutano di vedere oltre quegli insegnamenti elargiti e a cui è impensabile sottrarsi. Da qui subentra il tema del peccato che non è concepito come un qualcosa che non va fatto perché atto a ferire il prossimo, bensì come dogma a cui è dovere attenersi perché così è stato insegnato, così è e così deve essere. E fa male, arreca sofferenza, in quanto porta conflitto tra il pensiero interiore e l’insegnamento “sacro” ricevuto.
Una storia dura è quella che ci offre Baricco con Emmaus, una storia in cui si parte dall’amicizia, sentimento che è causa di mille incomprensioni, che è forza e debolezza, e che finisce con l’essere condizionato dalla mentalità bigotta, chiusa in schemi programmati; elemento che di fatto non può che portare al dolore, alla disperazione.
Peculiarità di questo scritto non è solo e soltanto la trama costituita da una tematica di non facile apprezzamento, ma anche lo stile narrativo adottato che risulta essere ad una prima battuta meno poetico rispetto al Baricco a cui siamo abituati tanto da poter essere percepito quale ostico alla lettura.
Eppure è proprio questa scelta stilistica che avvalora e concretizza le argomentazioni proposte perché grazie alla ruvidità del linguaggio la storia, che si sviluppa attraverso le angosce di un gruppo di ragazzi, risulta tangibile, tocca nel profondo chi legge, risveglia corde che altrimenti non sarebbero state pizzicate. Un elaborato particolare ma capace di far riflettere.
Maria Darida - 7 anni fa
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Enrico IV - Luigi Pirandello
Dramma che si dipana in tre atti, “Enrico IV”, fu scritto nel 1921 per poi essere messo in scena la prima volta nel 1922. Opera di grande spessore nonché emblema della poetica pirandelliana e del suo attaccamento alle tematiche della pazzia e del rapporto tra personaggio e uomo, finzione e realtà, essa narra le vicende di un nobile che a seguito della partecipazione ad una cavalcata in costume, dove vestiva i panni dell’Imperatore Enrico IV di Franconia, cade rovinosamente dall’animale ferendosi alla testa. Siamo all’inizio del millenovecento e alla messa in scena prendono parte anche Matilde Spina baronessa di Canossa, donna della quale il protagonista è innamorato, ed il suo rivale in amore Belcredi. E’ quest’ultimo che disarciona l’Enrico IV, il quale a seguito del capitombolo e del trauma cranico, al suo risveglio è convinto di essere davvero il personaggio interpretato e come tale non può non inveire contro il suo acerrimo nemico Gregorio VII, non può non maledire la marchesa di Toscana, non può sottrarsi al desiderio di vendetta per l’umiliazione a Canossa. Detta follia viene assecondata dai servitori che il nipote Di Nolli mette al suo servizio, e soltanto dopo 12 anni l’Enrico riprende consapevolezza di sé come pure del fatto che è stato Belcredi a farlo intenzionalmente rovinare per avere campo libero con la donna. Decide però di continuare a fingersi pazzo per non dover affrontare la dolorosa realtà.
Trascorsi ormai vent’anni, Matilde, Belcredi, la loro figlia, Di Nolli e uno psichiatra si recano presso l’Enrico IV in visita. Il medico, in particolare, si dimostra fortemente interessato al caso del paziente e suggerisce di ricostruire lo scenario che due decenni orsono ha provocato il subentrare della malattia. Allestito lo stesso, molteplici sono le nefaste conseguenze derivanti. Perché arrivati a questo punto, questa pazzia assecondata, scelta, potrebbe anche cristallizzarsi, rendersi definitiva per il solo fatto che il mondo circostante è fatto di maschere e sopraffazione, per il solo fatto che il mondo circostante è fatto di falsità e approfittatori. Che sia meglio allora abbracciare quella condizione di malinconia e solitudine, quell’isolamento autoindotto eppure sincero ed autentico, piuttosto che quell’esistenza costruita e dettata dalle apparenze?
Luigi Pirandello, attraverso detto dramma, dà vita ad un’originalissima rappresentazione atta ad essere una recita della recita. Una commedia, la sua, brillante che si sviluppa con poche e semplici battute dense e ricche di significato. Nelle risa non mancano gli aspetti di riflessione tipici del siciliano, tra queste viene trattata, come anzidetto, con particolare attenzione la problematica della follia, della maschera, del rapporto tra finzione e realtà. Il protagonista, è al contempo il vero eroe, essendo colui che sotto le mentite spoglie del matto rivela la falsità delle convenzioni sociali, e l’antieroe, ovvero colui che rinuncia alla verità, si cela dietro la maschera pur di non dover assistere all’ipocrisia di una società che preferisce nascondersi dietro l’agio piuttosto che vedere il mondo con gli occhi aperti.
Il tutto è avvalorato dalla penna ironica, arguta, geniale di uno degli autori più emblematici di sempre.
«”Trovarsi davanti a un pazzo sapete che significa? Trovarsi davanti a uno che vi scrolla dalle fondamenta tutto quanto avete costruito in voi, attorno a voi, la logica, la logica di tutte le vostre costruzioni!”»
Maria Darida - 6 anni fa
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Eppure cadiamo felici - Enrico Galiano
Gioia Spada, detta “Maiunagioia”, di anni diciassette, ama i Pink Floyd nonché memorizzare le parole più inusuali, diverse e peculiari che ha modo apprendere. Una serie in particolare, “Wenn ein Gluckliches fallt” (“Quando la felicità è qualcosa che cade”), dal momento della scoperta, non l’ha più abbandonata tanto che non c’è giorno in cui manchi dal trascriversi la frase sul braccio.
Sono ormai tre mesi che la ragazza si è trasferita nel nuovo istituto scolastico, e sin dal primo momento è stata additata quale “Quella-non-del-tutto-a-posto” perché incapace di omologarsi ad uno stereotipo, perché è assolutamente impensabile per lei ridursi ad essere un individuo che preferisce l’apparenza alla sostanza, un soggetto che apre bocca tanto per parlare e non anche per capire, condividere, addivenire ad un arricchimento personale. Perché lei lo sa che quella che i coetanei mandano in giro non è altro che la brutta copia di sé mentre quelli veri ed originali sono chiusi in casa, nascosti in una stanza, per paura che qualcuno li veda. E così ha fatto buon viso a cattivo gioco, se ne è fregata di essere chiamata “O cosa”, ha smesso, ancor prima di iniziare, di dare spiegazioni, e per quanto ne soffra, perché è pur sempre un’adolescente, ha abbracciato il silenzio, si è fusa con la sua musica ed il suo essere, e ha deciso di avanti per la sua strada. Perché «Il fatto è che certe cose le puoi dire solo a chi sai che le può capire. Che è anche il motivo per cui parliamo così poco, di quello che ci importa davvero».
Ugualmente dal punto di vista familiare, la situazione non è delle più idilliache. La nonna verte in una condizione stato vegetativo, la madre, che non dovrebbe avere più rapporti con quel padre problematico, squattrinato, violento e bevitore, persiste a cadere nella rete del “sono cambiato”, e a farne le spese è lei. Mascotte della maison è il gatto che hanno trovato quando si sono trasferite nel complesso di case popolari; figura silente ma onnipresente a cui si affiancano Tonia, l’amica immaginaria, e il Professor Bove, docente di filosofia, nonché unico individuo davvero in grado di capirla con un solo sguardo e dunque capace di consigliarla attraverso metafore, parabole, racconti, volumi e tutto quello che la nostra meravigliosa letteratura può mettere a disposizione.
Una notte come tante, eccolo arrivare. Il suo nome è Lo, è sfuggente, è misterioso ma anche molto attraente. Con lui sente di avere un’affinità; sa prenderla ma al contempo i loro universi non sono poi così distanti, così differenti. Il sentimento nasce senza troppe difficoltà eppure qualcosa non torna e Gioia lo percepisce altrettanto bene. Perché tutto avviene al buio, al riparo da ogni riflettore. Non solo. Non basta questo isolamento, questo continuare a frequentarsi soltanto al crepuscolo o al venir meno delle ore di luce, il giovane è criptico. Non rivela alcunché di se stesso; il segreto che nasconde è troppo grande per poter essere svelato, persino alla sua fidanzata.
E’ qui che la giovane donna sarà messa alla prova, è da qui che inizierà il suo personalissimo percorso di crescita, è dalle scelte che prenderà che ne andrà del proprio amore e del proprio divenire, perché pur di salvarlo da sé stesso dovrà decidere tra il fare quello che è giusto e il proprio egoistico sentimento.
Attraverso uno stile fluido, accattivante e capace di risultare concreto e tangibile, Enrico Galiano dà vita ad un romanzo al contempo leggero e riflessivo. L’autore, docente di lettere, ci trasporta, con semplicità, in un universo di studenti, che ci consente di riassaporare quelli che sono stati gli scogli della crescita e tanto più di meditare su quello che significa oggi vertere in età puerile.
E vi riesce mediante il ricorso ad un linguaggio che sa conformarsi all’età dei personaggi descritti, che di conseguenza risultando tangibili e concreti, ma anche usufruendo di una trama solida che non eccede e di pillole filosofiche che sono inserite tra un dialogo e l’altro.
Un romanzo di formazione che rievoca il sentimento dell’amore; una favola moderna che nella sua genuinità sa conquistare tanto i più adulti quanto i più giovani.
«Si, signorina Spada, tutto qua. Una notte, mentre Amore dormiva beato nel letto, lei prese un lume e lo accese: per vederlo, per controllare che non fosse un mostro o un assassino, come le avevano detto le sorelle. Ma fu un “tutto qua” che non era un “tutto qua”. Fu questo l’errore di Psiche, capite? Pensare di portare la luce dove c’era il buio. Pensare di poter guardare Amore con gli occhi della ragione. Perché sono due mondi paralleli, non si devono incrociare, mai. Non puoi pensare di poter capire, di poter leggere e interpretare, dare spiegazioni logiche. Non lì. Da ogni altra parte, ma non lì.» p. 319
Maria Darida - 6 anni fa
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Espiazione - Ian McEwan
Briony Tallis ha tredici anni in quell’estate del 1935 che segnerà non solo la sua vita ma anche quella delle persone care che ha intorno. E’ appena adolescente, eppure lo sa: il suo destino è scrivere. Appartenente ad un alto ceto sociale, giovane, immatura, dalla fervida immaginazione non ha alcuna remora, non ha alcun indugio nel porre in essere serie e gravi accuse nei confronti di Robbie Turner, figlio della governante, reo di essere un ottimo studente desideroso di conseguire una seconda laurea in medicina nonché di amare Cecilia, la sorella maggiore dell’accusatrice. Ed è così che, quella calda ed apparentemente innocua giornata, si tramuta in un incubo, in un giorno funesto che cambierà inesorabilmente le sorti dei protagonisti di McEwan. Da quella sera infatti, Cee interromperà ogni rapporto con la famiglia divenendo infermiera, Robbie, seppur innocente, sarà condannato ed incarcerato – per poi ottenere uno sconto di pena con l’arruolamento al fronte – e Briony toccherà con mano quelle che sono le conseguenze delle proprie azioni. Di fronte alle sue dichiarazioni, nessuno si è interrogato sulla reità delle medesime, alcuno si è preso la briga di sentire anche la vittima o semplicemente di cercare un altro colpevole. E perché, d’altra parte, sottoporsi ad un tale disturbo quando una capro espiatorio era già stato offerto su un piatto d’argento? Quella bontà che per anni si era palesata non era altro che una parvenza di buone intenzioni, non era altro che un mix di falsità e generosità di circostanza. E’ bastata infatti una semplice ed infondata insinuazione a far si che, senza appello, l’individuo fosse macchiato del crimine abietto ed ogni muro fosse innalzato nei suoi confronti.
Divisa in più parti, l’opera dell’inglese classe 1948, ruota interamente sui sensi di colpa analizzati e vissuti da molteplici prospettive. Lo scritto, infatti, si divide in quattro parti; una prima incentrata su una sola giornata – quella del misfatto – ed espressa dalla tredicenne, una seconda avente quale io narrante Robbie, il suo senso di colpa, la sua abnegazione, il suo mutamento, la sua delusione, il profondo senso di morte e distruzione che lo circonda in guerra, una terza che rivede quale riferente una minore dei Tallis, quasi diciottenne, attanagliata dalla coscienza dell’errore eppure incapace di fare qualcosa nel concreto («Briony era tranquilla, mentre rifletteva su ciò che doveva fare. [..] Sapeva che cosa ci si aspettava da lei. Non soltanto una lettera, ma una seconda stesura, un’espiazione. Ed era pronta a incominciare» p. 357). Infine, in una simbolica quarta parte, che potrebbe considerarsi un epilogo, le considerazioni di un’ormai settantasettenne Briony, concludono il messaggio di McEwan facendo riflettere il lettore, portandolo alla consapevolezza di quell’espiazione tanto richiesta, bramata, desiderata, eppure impossibile da realizzare.
Stilisticamente parlando l’opera è avvalorata da un linguaggio ricco, erudito, e, se vogliamo essere puntigliosi, nelle descrizioni dei luoghi persino troppo prolisso. La prima parte, 194 pagine, in particolare, seppur costituisca una perfetta fotografia della società del tempo, poteva essere sintetizzata, onde garantirne un maggiore scorrimento. Eppure, pagina dopo pagina, se ne comprende l’essenzialità. Ogni parola è un tassello atto a ricomporre un puzzle, mirante a ricostruire la psiche di ciascun protagonista così da renderlo palpabile, concreto, tangibile, reale. E seppur quindi la prima sezione si dimostri essere più lenta, dalla seconda, “Espiazione” prende campo con tutta la sua forza dilaniante, scuotendo chi legge, arrivando nel profondo. Il tutto è avvalorato da un’impostazione analitica che può risultare fredda, apatica e dal giocare continuamente sui fraintendimenti, sulle leggerezze e sulle conseguenze che “cose poco pensate” possono provocare. Geniale l’idea della del libro nel libro, interessanti le considerazioni e autocritiche dello scrittore. Sin dalle prime battute è infatti identificabile in Briony la figura di McEwan talché le valutazioni sulla forza ed impotenza, al tempo stesso, della scrittura, dell’io pensante che inforca una penna e/o si accinge a trasportarsi innanzi ad una macchina per scrivere più o meno evoluta, risultano essere esaustivi moti di coscienza.
Personalmente ho ritenuto la parte relativa al fronte di Robbie e quella finale di autocritica di un’adulta Briony, gemme di rara bellezza nonché reale fulcro dell’elaborato. E’ in queste, di fatto, che sono intrisi la morale ed il messaggio dell’autore.
«Il problema in questi cinquantanove anni è stato un altro: come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo.» p. 380
Maria Darida - 7 anni fa
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Facciamo che ero morta - Jen Beagin
“Facciamo che ero morta”, si ripete Mona. Un gioco di quando era bambina, un modo per far sentire Mickey un padre decente per qualche minuto, un modo per non pensare alla sua vita e a quell’infanzia e adolescenza da cui lei non è uscita integra. Ventiquattro anni, donna delle pulizie e con un passato duro e crudo alle spalle, Mona, ogni martedì sera presta servizio di volontariato distribuendo kit di siringhe pulite ai tossici.
«Tra le persone che conosceva, aveva più cose in comune con i tossici che con chiunque altro. Come lei, erano invisibili al resto della società – loro in quanto tossici, lei in quanto colf – e, come lei, mangiavano praticamente qualsiasi cosa fosse coperta di glassa. Tra loro non c’erano buoni samaritani, esibizionisti o tipi alla Save the Children. Fumavano come turchi e mangiavano nachos e hot dog comprati al 7-Eleven, tutte cose che lei apprezzava»
Ed è durante uno di questi turni che lo vede: Mister Laido. Per i primi mesi di quel gioco di osservazione per lei, lui non era stato altro che un numero dall’epilogo già scritto, “un pellicano impantanato nel petrolio, sfinito e in condiscendente attesa della sua stessa disfatta”, poi, un libro dal titolo “La vita di Art Pepper” stabilisce il contatto e dal contatto nasce una relazione la cui sorte è inevitabile ma a cui, eppure, è impossibile sottrarsi.
Sin dal principio la protagonista dell’esordiente Jen Beagin colpisce il lettore per il suo essere semplicemente così se stessa e per le sue scelte: eclettica, triste e sola a causa di traumi vissuti nell’infanzia che le hanno arrecato disturbi mentali non superati nonostante cinque anni di terapia, ella si accontenta del suo lavoro di donna delle pulizie, vive le vite dei suoi clienti di cui conosce tutto grazie a quella intima confidenza che assume pulendo e al contempo si innamora di un quarantaquattrenne che per sei mesi riesce a restare “pulito” per poi ricadere nel suo programma di autodistruzione, programma in cui però non ha intenzione di coinvolgerla fino alla fine. Non solo, a renderla ancora particolare è la scelta di andarsene e di lasciar tutto per seguire il consiglio proprio di quest’ultima voce che per l’intero componimento le fa da eco nella mente. Abbandonata così Lowell, Massachusetts, la giovane giunge nel New Mexico e approda in una cittadina vicina a Taos abitata da una bislacca comunità di nullafacenti e new ager quali Yoko e Yoko.
«Tu non sei una lotofaga, Mona, – disse Nigel con pazienza. – Non più. Sei risalita a bordo e stai tornando a casa. È giunta l’ora di gir battendo co’ pareggiati remi il mar canuto. Rema con tutte le tue forze e non guardarti indietro»
Leggendo di Mona molteplici sono le sensazioni di dejà vu con “Eleanor Oliphant sta benissimo” di Gail Honeyman. Le due eroine, infatti, sono vicine proprio per il modo di porsi rispetto al mondo fuori e alla dimensione esterna a quella del proprio io a causa di traumi che le hanno segnate nell’età dello sviluppo, tuttavia, man mano che l’opera prosegue nel suo scorrimento, vediamo che in realtà questa apparente comunanza di romanzi, finisce con l’imbarcarsi su rette parallele che sono destinate a non incontrarsi mai e che forse mai si sono incontrate se non per qualche gioco della nostra mente. La differenza tra i due scritti risiede proprio nel contenuto, perché se Eleanor passa dalla solitudine all’amicizia, dal disturbo psichico alla terapia per la guarigione, alla speranza per un futuro diverso fatto di possibilità e di un principio, a un domani che diventa possibile, Mona è talmente contrita nella sua psiche e nel suo passato così poco lineare e affrontato, che si limita semplicemente a tentare di mutare la propria condizione andandosene in un’altra città ma senza davvero provare a cambiare la sua esistenza. Conosce persone, conosce situazioni e realtà paradossali sin dalla prima pagina, ma le manca quel qualcosa per riuscire. Lo dimostra il fatto che nonostante la sua giovane età mai pensi ad un’alternativa concreta al suo lavoro. Ama scattarsi foto in pose assurde e talvolta inquietanti, ha un rapporto provato con il suo corpo, potrebbe essere tutto, ma resta sempre lì. Ferma, immobile. Solo nell’epilogo e nelle telefonate a quel padre che fa accapponare la pelle, si può ipotizzare un presunto baluardo di speranza.
È un personaggio complesso, stratificato, grottesco, ironico, con un senso dell’umorismo tagliente, la nostra Mona, è una giovane donna con una prospettiva a trecentosessanta gradi tanto interna quanto esterna che però sopravvive e mai vive. Ha uno spiccato senso verso l’autodistruzione e verso l’autocommiserazione. La forza dell’autrice è proprio questa, riuscire a far entrare il lettore nella sua psiche, trascinandolo, sconvolgendolo con le vicende e le circostanze, lasciandolo perplesso innanzi a scelte e comportamenti e al contempo rivelando, in modo assolutamente casuale e non seguendo un filo logico-temporale preciso bensì in modo volontariamente impreciso e irruento, quegli avvenimenti della gioventù della donna. L’effetto è che il conoscitore torna indietro, rilegge, si assicura di aver letto bene, intuisce ma resta nel dubbio da questa totale assenza di certezza, si interroga, e va avanti e ancora avanti nel tentativo di far chiarezza, di capire, di scoprire cosa si cela in questo percorso cieco e oscuro.
In conclusione, un romanzo d’esordio che non lascia indifferenti, con una storia e con personaggi imperfetti che fanno della loro assenza di perfezione la loro forza e che ha quale grande obiettivo quello di invitare alla riflessione sul male di vivere, sulle sue difficoltà, sulle realtà che ci circondano, sulla solitudine, l’isolamento, la tristezza e la depressione di questa vita dai colori opachi, dal sapore amaro e dalla tonalità acuta e ingiusta.
Maria Darida - 5 anni fa
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Fahrenheit 451 - Ray Bradbury
Quando un lettore si appresta a leggere Fahrenheit 451 mai penserebbe di trovarsi dinanzi ad un romanzo scritto nel lontano ’53, la sua attualità è sorprendente. Chiunque, perfino il lettore che non lo ha apprezzato o colui che non ama il filone scientifico, trova in esso elementi di quotidianità e di attualità rendendosi conto che la nostra società sempre più finisce con l’assomigliare a quella descritta da Bradbury.
Un’opera geniale che esalta il sapere e che dimostra che per quanto un regime possa cercare di fermare la cultura e di rendere “pecora” un popolo (“governare un branco di pecore è più facile che governare un branco di leoni”), questa resiste inarrestabilmente. Non solo, Fahrenheit 451 va ben oltre all’essere una mera e semplice esaltazione dell’erudizione, questo ci porta a comprendere quanto i meccanismi della mente siano essenziali per “aprire gli occhi”, per essere consapevoli e non schiavi delle briglie di un sistema.
E così Montag da incendiario si ritrova ad essere un ricercato. Il suo compito non sarebbe altro che quello di bruciare alla temperatura di Fahrenheit 451, ma come può dar fuoco ad un qualcosa senza comprenderne la ragione? Perché il sistema ha così timore del sapere, perché i “libri” sono così pericolosi? Qual è la vera giustificazione a tutto “quel bruciare”? Il meccanismo della riflessione si insinua minaccioso nella sua mente fino a portarlo a maturare la consapevolezza che la conoscenza non va combattuta bensì sfruttata a proprio favore, va protetta. E’ grazie a questa rivelazione che scoprirà se stesso, forse per la prima volta.
Un romanzo significativo, solido e curato nei minimi dettagli. Una di quelle opere che non sono per tutti ma che veramente andrebbero lette. Uno dei regali migliori che mi siano mai stati fatti.
Un estratto:
«Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso.»
Maria Darida - 7 anni fa
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Fahrenheit 451 - Ray Bradbury
Non ci sono mezzi termini per dirlo, quindi lo farò nel modo più semplice possibile. Non mi è piaciuto.
Le premesse erano molto buone: un romanzo di fantascienza in un contesto distopico. Nel futuro descritto i libri sono illegali, non si possono leggere né possedere, per questo ci sono squadre di pompieri che hanno il compito di andare a distruggere tutto.
Inoltre conoscevo già questo libro per la sua fama osannata e le recensioni positive. Sono rimasta delusa.
Nonostante i contenuti possano essere vincenti, il modo in cui è scritto non me l'ha fatto apprezzare. Si alternano periodi ben scritti con ragionamenti profondi a interi passaggi frettolosi e confusionari. E il finale mi è sembrato scritto per chiudere il prima possibile la storia.
Evidentemente leggere un libro solo per la sua fama non fa per me.
A qualcuno è piaciuto? Che ne pensate?
Valentina Pifferati - 3 anni fa
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Fame d'aria
«Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano.»
È una scelta coraggiosa quella di Daniele Mencarelli con “Fame d’aria”. Una scelta coraggiosa perché l’autore vede la storia e decide di trattarla, vede la sceneggiatura teatrale e decide di metterla in scena anche se questo significa addentrarsi nei meandri dello spettro autistico. Ed è proprio questo il tema che regge e conduce per quella che è la sua ultima fatica. Pietro Borzacchi e il figlio Jacopo sono in viaggio. Il loro obiettivo è la Puglia, luogo dove si rincontreranno con Bianca, attualmente nel milanese, la madre del ragazzo, per celebrare una data importante che segna “il dove tutto ha avuto inizio”. Tuttavia qualcosa va storto, la frizione della vecchia golf di Pietro non regge, è venerdì pomeriggio, loro devono essere a destinazione entro lunedì e sono spersi nel nulla tra paesini arroccati e luoghi incantevoli. Il paese più vicino dove vengono a ritrovarsi in attesa che Oliviero, il meccanico, sistemi il guasto è S. Anna del Sannio, un paesello di poche anime che non attende visitatori. Si trovano così ad alloggiare in un bar che un tempo era anche pensione di proprietà di Agata e qui conoscono anche Gaia, giovane e bella che va oltre la facciata. Perché Pietro e Jacopo non sono un padre e un figlio che vivono in quella che siamo abituati a considerare normalità. Jacopo è affetto da una forma di autismo a basso funzionamento che lo porta a vivere in un perenne stato neonatale. Sa pronunciare solo un “mhmm” che cambia di intensità a seconda delle richieste e nonostante i suoi diciotto anni deve essere cambiato, accudito, gestito. La cosa forse più semplice è farlo mangiare perché è un po’ come un orologio; si carica e parte in automatico. Pietro non sa più cosa sia essere. Vive in perenne accudimento del figlio, lo odia. Odia la situazione che stanno vivendo, odia dover fare, è pieno di rabbia ma nulla fa mancare a Jacopo. Vive una totale e completa forma di abnegazione ma comunque resta vigile e attento ai bisogni di quel figlio che è la sua condanna e che è così lontano dalle aspettative. Gaia, in questo senso, riuscirà a riportare alla luce il Pietro non PietroJacopo, il Pietro che vive, che sogna, che ha desideri come tutti. Si creeranno anche degli equivoci ma pian piano le crepe diventeranno crateri e ogni verità verrà alla luce.
«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui.»
Perché per Pietro la vita ha preso una piega inaspettata. La moglie laureata in scienze politiche ha dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura del figlio, su Pietro gravano le responsabilità e rappresenta al contempo l’unica fonte di entrata economica. Ma può bastare un solo stipendio a sopperire alle cure necessarie? Cosa succede quando la tua vita non è più tua e inizi a far debiti perché in qualche modo quelle cure proprio non puoi fargliele mancare ma non hai aiuti da nessuno, ancor meno dallo Stato, perché hai un contratto a tempo indeterminato con uno stipendio fisso, fidi su fidi e a differenza di altri figura che hai qualcosa mentre altri che lavorano in nero hanno aiuti su aiuti perché i soldi in casa li fanno entrare dalla porta sul retro? Come difendersi da un mondo che sembra chiuderti la porta in faccia? Come sopravvivere, come ricordarsi che esisti anche quando tu per primo non lo ricordi più?
«Dopo aver oltrepassato il boschetto, una radura affacciata sui monti.
Pietro, violentato dal destino, regredito a una vita senza bellezza, si porta una mano sulla bocca.
«Dio mio che meraviglia.»
Oltre al panorama, è l’aria, l’aria gonfia di tramonto, a rendere la visione un dono per gli occhi.
Un cielo azzurro che diventa arancio, sino al rosso infuocato del sole che cala.
Sembra di vivere un sogno.
Quelli dove Pietro si rifugia.
Ma questo non è un sogno.
E Gaia è fatta di carne, ed è qui accanto a lui.
«Grazie.»
Solo questo riesce a dirle.»
Daniele Mencarelli riesce in quello che spesso si vuole negare per comodità. È più facile immaginarsi questi genitori eroi in quel che è una non fortuna ma questi genitori, sono davvero eroi? Egli mostra il volto oscuro, un’altra faccia della medaglia, una medaglia in cui non si è altro che soli a convivere e combattere con un mostro più grande che non perdona e non cambia. Mencarelli ci solletica con una storia d’amore anche se in parvenza trasuda l’odio ma ci ricorda anche che non siamo che semplici esseri umani chiamati a convivere con una battaglia che non sempre più essere vinta. Vi riesce con un lungo racconto dai toni scanzonati, meno poetici ma ben cadenzati e studiati e dove nulla è lasciato al caso. Né come personaggi, né come parole. Parole che hanno tutte e indistintamente un peso, parole che ci fanno riflettere e ci fanno entrare per una porta sul retro che spesso resta chiusa. Anche la scelta di narrare la vicenda dal punto di vista del padre e non della madre non è causale. Non c’è vittimismo tra queste pagine, non c’è autocommiserazione, c’è emozione e sentimento, c’è una realtà che tocca e coinvolge.
Non è lo stesso Mencarelli del passato. L’autore conosce di questi luoghi e dello spettro autistico per contatti occorsi con la sua famiglia e i suoi figli, riesce a essere lo stesso, a firmare un’opera che lo rende riconoscibile ma dimostra anche una crescita e tanto coraggio. Per tema trattato ma anche per essere riuscito a staccarsi da una ideale trilogia (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) che ne ha consacrato il nome ma che stava iniziando a perdere della sua unicità. Una maturazione necessaria
Maria Darida - 6 mesi fa
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Fate il vostro gioco - Antonio Manzini
Dopo “L’anello mancante. Cinque indagini romane per Rocco Schiavone”, Antonio Manzini fa ritorno in libreria con “Fate il vostro gioco”, giallo che ci propone una nuova avventura del personaggio più famoso nato dalla sua penna e immaginazione; Rocco Schiavone.
Due coltellate, una all’altezza della giugulare e l’altro al fegato, hanno determinato la morte di Romano Favre, sessantenne pensionato ragioniere legato al casinò di Saint-Vincent per la sua attività di “ispettore di gioco”. Il ritrovamento ha avuto luogo per mano dei vicini di casa e più precisamente da parte di due vecchiette e da Arturo Michelini, croupier presso il casinò Saint-Vincent che, insospettiti dall’assenza di risposta da parte del contabile perfino di fronte alla fuga della sua amata gatta siamese chiamata Pallina, decidono di andare a verificarne lo stato di salute. Sangue, tanto sangue. Non vi sono dubbi sulle cause del decesso. Sul luogo intervengono Schiavone e la sua squadra che già dai primi rilievi si rendono conto che qualcosa nella ricostruzione dei fatti non torna. Basti pensare, in merito, a quel bic bianco rinvenuto sul comodino del defunto o ancora a quella fiche del casinò di Sanremo (perché di questo casinò e non del più vicino Saint-Vincent?) racchiusa nella sua mano. O ancora, basti pensare, a quella porta finestra lasciata misteriosamente aperta e a quella toppa della porta con al suo interno inserite le chiavi di casa. Tanti tasselli, questi, che non solo fanno capire a Schiavone di trovarsi di fronte ad “un morto che parla” ma che al contempo aprono la prospettiva su uno scenario ben più ampio, fatto di riciclaggio, di criminalità, di sotterfugi, di gioco d’azzardo, di ludopatia, di strozzinaggio, di usura e molto altro ancora. E seppur il vicequestore riesca ad arrivare alla conclusione e alla risoluzione del caso, le trame e le prospettive sono talmente intricate e ben articolate tra loro da rendere inevitabile il proseguo delle vicende proposte in un nuovo e separato capitolo. Da qui, il finale aperto sull’indagine e il sipario che definitivamente – e dolorosamente – scende su quel maledetto “7-7-2007”.
Quello che ci troviamo di fronte in questo nuovo capitolo delle avventure del romano esiliato vicequestore, è un testo con tutte le caratteristiche del giallo, è un testo con un ottimo intreccio narrativo, è un testo con un mistero che regge su tutta la linea e che è caratterizzato da un rapporto causa-effetto ben cadenzato e ritmato, ma è anche un testo in cui riscopriamo la figura di questo eclettico funzionario di polizia. Paradossalmente, infatti, si percepisce dalla sua voce la stanchezza di una vita fatta di dissoluzione e dolore, si percepisce la stanchezza di un lavoro usurante in prossimità dei cinquant’anni, si percepisce la nostalgia per quei tempi ormai andati che mai potranno fare ritorno. Il suo è un tono malinconico, molto più vicino ai romanzi noir che ai gialli veri e propri, se vogliamo. E forse questo è dovuto al fatto che Rocco, così come il suo vicino Italo Pierron, ancora non hanno superato il tradimento di Caterina, occorso in quel di “Pulvis et Umbra”. Tratti immancabili e che non mutano attengono invece all’indole rozza, schietta, smaliziata, cinica e ironica a cui siamo abituati sin dai primi episodi.
Un giallo che tiene bene nonostante questo non fosse semplice visto il grande successo e la meravigliosa riuscita proprio di “Pulvis et Umbra”, che ad oggi, insieme a “7-07-2007”, è sicuramente il capitolo meglio riuscito dell’intera saga. Non ci resta altro che aspettare il prossimo volume delle avventure di questo versatile personaggio.
«Pensavo che siamo come i serpenti. Ci lasciamo dietro la vecchia pelle perché abbiamo bisogno di quella nuova. Ma la vecchia pelle c’è stata. È un fatto, senza la vecchia pelle quella nuova non c’è» p. 378
«Che tu puoi essere qui e altrove, sei sempre tu e io sono sempre io. Tempo, spazio, non importa, Rocco. Quello che conta è che siamo qui. La differenza? A me certe cose non interessano più, a te sì. Ma il motiov lo conosci.» p. 380
«Lei sa come far credere che qualcosa sia vera? È semplice. Si dicono un sacco di verità comprovate e in mezzo, come un’insalata, si butta una cazzata che la gente prenderà per buona.» p. 388
Maria Darida - 5 anni fa
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