|
Thread |
Order:
Relevance |
Date |
Title
|
RSS Feed
|
Il filo dell'orizzonte - Antonio Tabucchi
«Si tratta di un giovane dall’apparente età di venti/venticinque anni, barba castana, occhi azzurri, magro, statura media. Per gli abitanti della zona è in pratica uno sconosciuto, anche se vi abitava da circa un anno. Si faceva chiamare Carlo Noboldi e sosteneva di essere uno studente, ma alle segreterie universitarie risulta sconosciuto. I negozianti del quartiere sostengono che si trattava di una persona gentile e corretta sempre puntuale nel pagare i conti [..]».
Era notte quando l’ambulanza è arrivata, a luci basse, nel silenzio assoluto. A Spino sono bastati pochi segni, quali l’aver il mezzo imboccato un vicolo con troppa calma o ancora la chiara assenza di fretta nei soccorritori, per capire che qualcosa di tragico ed orrendo era avvenuto. L’odore di morte, impregnava ogni angolo, era anticipato dal suo stesso fetore, dalla stessa tranquillità della scena circostante.
Un ragazzo. Nessun nome. Nessun riconoscimento. Dal momento in cui il corpo entra nell’obitorio in cui Spino lavora, egli diventa per quest’ultimo una missione; deve indagare, scoprire, capire. Non «si può lasciar morire la gente nel niente, è come se uno morisse due volte» pensa il dipendente dell’Ospedale vecchio.
Perché è morto? Quali sono le circostanze che ne hanno determinato il decesso? Perché nessuno si interessa al caso? Perché alcuno manifesta di conoscere l’identità di quel cadavere che ora giace nella più completa dimenticanza nella camera mortuaria? Perché tutti si comportano come se non fosse mai esistito? E se fosse la vittima? E se fosse parte agente del misfatto? E se si fosse trovato erroneamente nella traiettoria?
Spino non riesce a darsi pace. Non può abbandonarsi all’insofferenza, fingere che questa dipartita non sia mai avvenuta, congelare, come quei corpi nei frigoriferi, il suo animo la sua sensibilità. Ed è così che ha inizio la sua indagine personale, una ricerca la cui importanza è sconosciuta allo stesso avventore, una ricerca che si fonda su un mero dato di fatto: lui è ancora vivo, l’altro è morto e non vuole assolutamente ucciderlo una seconda volta. Un piccolo indizio qua, un silenzio la, un puzzle che piano piano inizia a capire, a ricomporre. Tante le ipotesi, le domande. Che si sia trattato di una vendetta? Che c’entri il terrorismo? Che il giovane sia in realtà un testimone scomodo? Che sia semplicemente qualcuno che si è trovato per caso nel posto sbagliato al momento sbagliato per un gioco del destino?
Qual è la verità? Ove è sito il suo confine? Perché è così labile e criptica che anche quando sembra essere stata finalmente raggiunta è pronta invece a palesarsi quale un miraggio all’orizzonte, quale un frammento di un vetro rotto, di un disegno più grande ed incomprensibile? Il buio. Spino non può far altro che camminare nell’oscurità. Ed ecco che la ricerca della verità per quel defunto, si tramuta in una auto-analisi, in un’auto valutazione, in uno screening di sé e del proprio io.
Un breve romanzo quello di Antonio Tabucchi che tuttavia, colpisce e cattura sin dalle prime battute, chi legge. L’opera, seppur sia composta da appena 105 pagine, è infatti ben orchestrata tanto dal punto di vista delle ambientazioni che da quello dei fatti. Da detti presupposti, essa si snoda attraverso la voce di un protagonista che mediante lo strumento di un’analisi nata e sviluppata per indagare su una morte insolita, finisce con l’abbracciare quella questione primordiale, ancestrale che è il mistero della vita.
«Si è accontentato di guardarlo a lungo, stabilendo di nuovo un nesso fra quel foglio che si agitava nella penombra e la linea dell’orizzonte che piano piano svaniva nel buio. Si è alzato lentamente perché una grande stanchezza lo aveva invaso: ma era una stanchezza calma e pacifica che lo guidava per mano verso il letto come se fosse tornato bambino» p. 100
Ed anche se è intuibile che l’esito non potrà che essere quello del fallimento perché il cercare la verità è come tentare di raggiungere quel mutevole ed irraggiungibile “il filo dell’orizzonte”, l’avventuriero conoscitore non può fare a meno di inseguirla con Spino, di immedesimarsi, di tifare per quella investigazione eclettica e personale.
Disincantato, stratificato, profondo.
«”Senti Harpo”, ha detto lui, “se uno non ha il coraggio di andare oltre non capirà mai, sarà solo costretto a giocare per tuta la vita senza sapere perché”. Harpo ha chiamato un cameriere e ha ordinato da bere. “Ma chi è lui per te?”, ha chiesto piano, “è uno sconosciuto, non conta niente nella tua vita”. Parlava in un bisbiglio, era impacciato e le sue mani erano nervose. “E tu?”, gli ha detto Spino, “tu chi sei per te? Lo sai che se un giorno tu volessi saperlo dovresti cercarti in giro, ricostruirti, frugare in vecchi cassetti, recuperare testimonianze di altri, impronte disseminate qua e là e perdute? E’ tutto buio, bisogna andare a tentoni” » p. 80
«E ha pensato che c’è un ordine delle cose e che niente succede per caso; e il caso è proprio questo: la nostra impossibilità di cogliere i veri nessi delle cose che sono, e ha sentito la volgarità e la superbia con cui uniamo le cose che ci circondano. Si è guardato intorno e ha pensato quale era il nesso fra la brocca sul cassettone e la finestra. Essi non avevano nessuna parentela, erano estranei l’uno all’altro; a lui parevano plausibili solo perché un giorno, tanti anni fa, aveva comprato quella brocca e l’aveva messa sul cassettone accanto alla finestra. L’unico nesso, fra i due oggetti, erano i suoi occhi che li guardavano. Ma qualcosa, qualcosa di più di questo doveva avere guidato la sua mano a comprare quella brocca: e quel gesto dimenticato e frettoloso era il vero nesso; e in quel gesto c’era tutto, il mondo e la vita, e un universo» p. 98-99
Maria Darida - 6 anni fa
|
Il fondamentalista riluttante - Mohsin Hamid
Scritto sotto forma di monologo, questo libro è senza ombra di dubbio uno dei più interessanti che mi sia capitato di leggere quest'anno.
Il protagonista, un giovane Pakistano emigrato negli Stati Uniti vive la vita perfetta: ha prima ottenuto una borsa di studio in un'università prestigiosa,conduce una carriera brillante, vive nella cosmopolita New York. Tutto sembra andare per il meglio. Finchè non arriva l'11 Settembre.
Questo evento sconvolge la sua vita e lo porta a fare riflessioni profonde riguardo i suoi ideali, la sua cultura e quella del paese dove vive.
Brillante, si legge tutto d'un fiato.
Valentina Pifferati - 2 anni fa
|
Il giorno dei morti - Maurizio De Giovanni
Un bambino, uno come tanti. Il classico scugnizzo, abbandonato a sé stesso, alle intemperie, alla povertà, alle miserie della vita. Il suo gracile corpicino viene rinvenuto nelle prime ore del mattino, il suo unico amico, un cane bastardino a chiazze, è rimasto con lui sino alla fine ed ora, seppur privo della facoltà di parlare, sussurra e chiede a Ricciardi di indagare, perché non tutto è come appare, non tutto è come sembra. Il suo è uno sguardo silenzioso, mosso, dalla volontà di giustizia ma anche dal legame di fedeltà che lo stringeva al piccolo balbuziente che soltanto con lui sapeva parlare.
Ed il commissario Luigi Alfredo Ricciardi non si sottrae a quella preghiera, a quella richiesta sorda. Non può farlo perché quegli occhi sembrano invocarlo a gran voce, non può farlo perché qualcosa nel ritrovamento del cadavere non lo convince. Va contro tutto e contro tutti il funzionario, arriva addirittura a prendersi qualche giorno di ferie, lui che non si è mai assentato dal lavoro, lui che è sempre arrivato prima dell’orario di inizio del turno per andarsene ben oltre dopo questo, pur di poter investigare, pur di poter arrivare alla verità. In contemporanea, l’imminente visita del Duce in quel di Napoli, in contemporanea il corteggiamento incessante della vedova Vezzi ormai trasferitasi in città, in contemporanea il sodalizio tra la tata Rosa e la paziente e calma Enrica, in contemporanea Modo e Maione, antitesi perfette dell’agente.
Un capitolo, questo, dove De Giovanni non manca di toccare il cuore di chi legge, dove l’autore non manca di solleticare le corde più intime. Perché sotto la falsa veste dell’indagine di polizia, tante sono le tematiche che vengono toccate ed affrontate, molteplici sono le riflessioni indotte.
E’ mediante l’ausilio di due creature affini, il piccolo cane e il bambino affetto da balbuzie, entrambi così magri da potersi perfino assomigliare, che la magia ha luogo, che il ruolo e la figura del protagonista si consolidano, che la visione di una Napoli affamata e indigente ma prostrata al Fascismo si palesa, che l’emarginazione sociale affetta e penetra nei cuori. Poiché sono sempre i più deboli a pagare il conto di quella avidità e povertà, loro, gli invisibili, i dimenticati. I dimenticati che sono avvicendati da un semplice ed ineguagliabile legame: la lealtà. E’ da questo che traggono la forza di andare avanti, di sopravvivere.
«Perché sono stato un bambino anch’io orfano pure io, brigadie’. Senza un padre e senza una madre, abbandonato in mezzo alle strade di questa città. Io lo so, che non sei niente; che se campi o muori è lo stesso e nessuno se ne fotte. Mi sono dovuto guadagnare la vita a bocconi e a morsi, proprio come a questa creatura sfortunata che avete trovato a Capodimonte. Diciamo che è stato un fiore sulla cassa di questo bambino. Un fiore da parte di Bambinella» p. 236
Non mancano infine, le tanto attese svolte in ambito sentimentale, ma in merito non svelo altro in quanto queste non sono che i primi passi per quegli sviluppi che troveranno una evoluzione significativa e concreta nell’ultimo capitolo della serie, “Rondini d'inverno. Sipario per il Commissario Ricciardi”, da ieri disponibile in libreria (e che si, lo confesso, ho già letto).
In conclusione, “Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi” è un testo caldo, avvolgente, empatico e ricco di contenuti, un testo avvalorato da uno stile fluido che accarezza il conoscitore e che non pecca nemmeno per ricostruzione storico-ambientale.
«Acqua. Acqua che non lava. Che scende in mille fiumi e trascina il fango sulle soglie dei bassi e dentro, allungando dita melmose sui pavimenti in terra battuta, nella paglia annerita dei letti. Che picchia sulle finestre e sveglia il sonno, o reca nei sogni fantasmi di antichi dolori. Che lascia tracce nere sugli alti muri di tufo, trovando vie in vecchi palazzi per minarne le fondamenta. Che imbratta scarpe lucide e strappa ombrelli nelle mani, perché non vuole ostacoli per entrare nelle anime e portarci l’umido della tristezza. Acqua che separa. [..] Acqua che deruba [..]. Acqua che fa paura. [..] Acqua che non finisce» pp. 57-58
Maria Darida - 6 anni fa
|
Il labirinto degli spiriti - Carlos Ruiz Zafón
IL LABIRINTO DEGLI SPIRITI. IL CIMITERO DEI LIBRI DIMENTICATI
Alicia Gris sa bene che certe ferite non risarciscono mai, sa bene che con taluni dolori non si può imparare a convivere, per quanto ci si provi. E non sono i mali fisici quelli che arrecano più sofferenza bensì quelli dell’anima. Ventisettenne, acuta, riservata, perspicace, perennemente all’erta, ella è un camaleonte, una donna cioè che è capace di rivestire ogni personaggio e che grazie alla diffidenza naturale che nutre verso ciò che la circonda, è il prototipo perfetto per lavorare all’indagine che ha quale protagonista la scomparsa del ministro Don Mauricio Valls. Ecco perché Leandro, l’uomo che l’ha tolta dalla strada e le ha insegnato tutto quello che sa, la sceglie.
Era una mattina come tante, la festa in maschera organizzata per Mercedes, la figlia dell’onorevole, era giunta al termine da poche ore, quando Don Mauricio e Vincente si accingevano a salire – e scomparire – sulla vettura di quest’ultimo. Da questo momento dei due non si ha più alcuna notizia. Alicia, affiancata – pur se mal volentieri – dal capitano Juan Manuel Vargas, dà inizio alle ricerche tenendo conto anche del fatto che da qualche settimane del collega Lomana, a sua volta investito del caso, non si ha più traccia. Tanti sono i tasselli che non combaciano, ne è ben consapevole e a tutto questo si somma un ulteriore misterioso ritrovamento: durante la perlustrazione della residenza di Valls, ben nascosto sotto un cassetto della scrivania, la coppia Gris-Vargas ritrova uno strano e raro libro intitolato “Il labirinto degli spiriti. Ariadna e il Principe Scarlatto” di Victor Mataix. Da Madrid, la scena, inevitabilmente si sposta a Barcellona.
E tanto Alicia è collegata ad una vecchia conoscenza, Fermìn Romero de Torres, nonché alla famiglia Sempere, tanto dall’indagine relativa a Valls tornano alla memoria del lettore il nome di David Martìn, il cd. Prigioniero del Cielo, dell’Avvocato Brians, di Isabella Gispert, di Fumero e di tanti altri indiscussi protagonisti di questa succosa quadrilogia.
Cosa ne è stato del politico? Perché qualcuno lo sta costringendo a vivere le sofferenze che i detenuti confinati a Montjuic hanno provato sulla loro pelle durante gli anni di prigionia? E chi è quell’uomo dal volto rivestito da una mezza maschera? Ed ancora, cos’è che di fatto lega ed unisce Valls, Salgado, David Martìn, i Sempere, Brians, una serie di ritrovati numeri indecifrabili, i libri di Mataix, Sanchis, il suo autista senza volto e tutti gli altri eroi che hanno colorato le pagine della tetralogia? Qual è il nodo per sciogliere la matassa?
Quella descritta in queste pagine è una Spagna vittima dei regimi totalitari, una Spagna dove la giustizia seguiva i suoi fini, dove i principi del giusto processo e dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non erano ancora stati sanciti; un territorio dove la polizia poteva avvalersi della tortura pur di ottenere la confessione necessaria a chiudere il caso in oggetto d’esame. Al dato storico si sommano i luoghi e le persone, entrambi magistralmente descritti, entrambi tridimensionali, e una trama che non scontenta spingendo anzi ad andare avanti, col fiato sospeso per il desiderio di risolvere l’enigma, il mistero.
Era il 2001 quando Carlos Ruiz Zafon pubblicava “L’ombra del vento”, opera originariamente uscita in “sordina”, non acclamata dal pubblico iberico e di poi divenuto uno dei più grandi fenomeni editoriali con all’attivo ben oltre otto milioni di copie vendute nel mondo. Con “Il labirinto degli spiriti”, Mondadori, novembre 2016, siamo di fronte a quella che (probabilmente, perché in futuro, chissà) è la conclusione della tetralogia del Cimitero dei Libri dimenticati ma abbiamo anche tra le mani uno dei romanzi più belli ed avvincenti scritti dall’autore.
L’opera, infatti, è caratterizzata da un intreccio narrativo solido, magnetico, dai giusti tempi. Zafon è un maestro nel fornire indizi e rimescolare le carte così da creare quella giusta dose di suspense nel lettore che, rapito da quel che è il rebus non può che andare avanti. A questo si sommano altresì i protagonisti di questa storia, eroi “vecchi e nuovi” che arrivano, si fanno amare, si fanno odiare e salti temporali necessari per conoscere appieno delle vicende e risolvere le stesse. E se quello che vi spaventa è la mole, vi dico di non farvi intimorire. Seppur lo scritto sia composto da 815 pagine, esso scorre e si fa divorare con la velocità e facilità di un libro di 300/400 facciate, tanto che giunti alla sua conclusione la sensazione provata non è quella di pesantezza, di aver scalato una montagna, di aver concluso un’impresa titanica, bensì quella di vuoto; quel vuoto che è sinonimo di abbandono, quel vuoto che solo i libri veramente belli sono capaci di lasciare.
In conclusione, Zafon non delude, ma conquista e affascina. Zafon riesce nell’impresa più ardua di tutte; non rovinarsi con le sue stesse mani strafacendo. Mantenendo infatti l’equilibrio e rispettando quelli che sono stati gli intrecci narrativi che hanno conquistato i lettori e che lo hanno reso celebre, dà vita ad un elaborato che è un degno epilogo delle vicende ma che non preclude la possibilità, in futuro, di tornare a sognare.
«Non perda la speranza. Se ho imparato qualcosa in questo porco mondo è che il destino è sempre dietro l’angolo. Come se fosse un ladruncolo, una sgualdrina o un venditore di biglietti della lotteria, le sue tre incarnazioni più comuni. E se un giorno deciderà di andare a cercarlo – perché il destino non fa visite a domicilio – vedrà che le concederà una seconda opportunità»
«Tu sei una creatura notturna, Alicia, ma qui ci nascondiamo tutti alla luce del giorno»
«Alicia sentì che, dietro quel muro di oscurità, Barcellona aveva già fiutato le sue tracce nel vento. La immaginò aprirsi come una rosa nera e per un istante la invase quella serenità dell’inevitabile che consola i maledetti, o forse, si disse, era solo stanchezza. Ormai importava poco. Chiuse gli occhi e si arrese al sonno mentre il treno, facendosi largo tra le ombre, scivolava verso il labirinto degli spiriti»
«”Quanto le devo Miguel?”
“Glielo metto in conto. A domani alla stessa ora?”
“Se Dio vuole”.
“La vedo molto elegante. Visita di Gala?”
“Ancora meglio. Di libri”»
«La verità non è mai perfetta e non quadra mai con tutte le aspettative. La verità pone sempre dubbi e domande. Solo la menzogna è credibile al cento per cento, perché non deve spiegare la realtà, ma semplicemente dirci quello che vogliamo sentirci dire»
«Scrivo per me stessa, portando con me segreti che non mi appartengono e sapendo che mai nessuno leggerà queste pagine. Scrivo per ricordare e aggrapparmi alla vita. La mia unica ambizione è poter ricordare e capire chi sono stata e perché ho fatto ciò che ho fatto finché ne ho ancora la capacità e prima che la coscienza che già sento debilitarsi mi abbandoni. Scrivo anche se mi fa male, perché la perdita e il dolore sono le uniche cose che ormai mi tengono viva e mi fa paura morire. Scrivo per raccontare a queste pagine ciò che non posso raccontare a coloro che più amo, a rischio di ferirli e di mettere in pericolo le loro vite. Scrivo perché finché sarò capace di ricordare starò con loro un minuto in più..»
Maria Darida - 6 anni fa
|
Il leopardo - Jo Nesbo
Dopo “L’uomo di Neve” Harry Hole cercava un rifugio dove affondare nei propri dispiaceri, tra alcol, oppio e scommesse ai cavalli. E quale miglior luogo, se non Honk Kong, poteva rispondere a questa esigenza?
Ha chiuso con la sezione anticrimine norvegese, non ha più niente a che fare con questa, con omicidi efferati, e quant’altro. Il connubio di siffatti elementi lo ha portato a perdere gli unici veri affetti che aveva, quindi perché continuare a lottare se qualsiasi suo tentativo di fermare i peggiori serial killer non arreca altro che dolore e perdizione al suo, già precario, “non equilibrio”?
Eppure la sezione non la pensa come lui; Kaja Solness è stata incaricata di recuperarlo e di riportarlo ad Oslo. Un omicida senza scrupoli sta mietendo vittime su vittime, apparentemente senza che tra queste sussista un collegamento. L’unico che può venire a capo della matassa è Harry. Ma la soluzione del caso non è essenziale soltanto per impedire al killer di continuare ad uccidere, lo è anche per mantenere in vita la sezione anticrimine stessa: la Kripos, capitanata da Bellman, ha infatti deciso di accaparrarsi tutti i casi di omicidio norvegesi e per farlo necessaria è la dissoluzione della sezione anticrimine mediante l’espediente dell’unificazione dei due gruppi investigativi. Riuscirà Harry a risolvere il caso? Riuscirà a salvare la sua quadra dall’eliminazione? Quali misteri si celano dietro le pagine de “Il leopardo”?
Con questo elaborato Nesbo offre al lettore un testo ricco di colpi di scena, uno scritto caratterizzato dal giusto grado di mistero, con un assassino che funziona ed un protagonista che nel suo essere un animo in perdizione colpisce e conquista. Pagina dopo pagina chi legge è infatti invogliato ad andare avanti, a scoprire chi si nasconde dietro le molteplici morti che hanno colpito Oslo e vi riesce senza difficoltà grazie, oltretutto, alla presenza di un linguaggio fluido e diretto che senza troppi giri di parole arriva al punto.
Pertanto, attraverso una serie di personaggi concreti, un omicida da scoprire ed uno stile ottimale, il romanzo funziona, prende. Non nascondo però che verso i suoi ¾, circa cioè intorno a pagina 450, esso si appesantisce, rischia di sfiancare. Questo perché tende a diventare troppo surreale, eccessivo, facendo porre in essere ad Hole azioni che vanno oltre l’umano, l’immaginabile e facendo altresì compiere delle azioni al reo che sono ai limiti dello splatter e del tollerabile (soprattutto una volta che il movente di tali atti viene rivelato). Se poi vi si aggiunge che questo assassino sembra essere libero di agire indisturbato perché le carte sono, ogni volta che si presume aver individuato la sua identità e proceduto all’arresto, costantemente rimescolate, inevitabile è sdubbiarsi. Se da un lato, infatti, questo incrementa la curiosità e la suspense, dall’altro rende farraginoso il proseguo. Porta l’avventuriero conoscitore a sospirare, a dire “Nesbo e daccelo questo serial killer!”.
In conclusione; l’autore si conferma come uno dei giallisti più apprezzati e forti del nostro secolo grazie ad una storia dalla trama solida, per la gran parte avvincente, e ad un protagonista eccentrico ma acuto; una vicenda, quindi, che nel complesso merita di essere letta, nonostante la nota finale del “voler fare troppo”, dell’eccedere.
«[..] Nessuno è come sembra, e quasi tutto, a parte il tradimento vero e proprio, è menzogna e inganno. E il giorno in cui scopriamo che neanche noi siamo diversi, è il giorno in cui ci viene meno la voglia di vivere.»
«Siamo tanto banali. Crediamo perché vogliamo credere. Agli dei perché placano la paura della morte. All’amore perché fa sembrare la vita più bella. A quello che dicono gli uomini sposati perché è quello che dicono gli uomini sposati.»
«Non puoi svilire i tuoi sentimenti così, Harry. Cerchi di scantonare il fatto che tu, come chiunque altro, sei guidato da concetti di giusto e sbagliato. Forse il tuo intelletto non possiede tutte le argomentazioni per spiegare questi concetti, ma sono comunque radicati in te molto, ma molto profondamente. Giusto e sbagliato. Forse sono cose che i tuoi genitori ti hanno raccontato quando eri piccolo, una fiaba con la morale che ti ha letto la nonna, un episodio che è successo a scuola e ti è sembrato ingiusto e su cui hai riflettuto molto. La somma di tutte queste cose semidimenticate. [..] Perché dice che forse non riesci a vedere la radice, giù in fondo, e malgrado ciò non ti schiodi di lì, continui a vagare in tondo, è quello il posto cui appartieni. Cerca di accettarlo, Harry. Accetta la radice. [..]
– La cosa peggiore da sopportare non è il dolore fisico, credimi, lo vedo tutti i giorni. E nemmeno la morte. Addirittura nemmeno la paura di morire. –
– E allora qual è la cosa peggiore? –
– L’umiliazione. Essere privati dell’onore e della dignità. Essere spogliati, emarginati dal branco. Questa è la punizione peggiore, essere sepolti vivi. E l’unica consolazione è che si colerà a picco relativamente in fretta – »
Maria Darida - 6 anni fa
|
Il libro dell'inquietudine - Fernando Pessoa
«Dal mio quarto piano sull’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull’’inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l’accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili» p.25
I pensieri racchiusi ne “Il libro dell’inquietudine” sono pura e semplice poesia, sono pura e semplice riflessione. Malinconici e intrisi di sentimento, essi giungono dritti al cuore del lettore che, inequivocabilmente non può che restarne affascinato, disturbato, trafitto. Soares, alterego dell’autore stesso, è eteronimo della personalità mutilata, dell’affettività, del raziocinio, della perdita, dell’affettività. Caratteristica, quest’ultima, che emerge in particolare nella seconda parte dell’opera, sezione in cui il protagonista si abbandona completamente al tedio. Non è attirato da alcunché, vive annullandosi, privandosi anche di quelle certezze e di quelle costanti affettive che sono proprie di ogni vita. Le emozioni diventano un qualcosa di a sé stante, si dimostrano essere un qualcosa che nasce dall’intelletto e non dall’esperienza di vita. Da ciò quest’ultima è percepita quale falsa, affetta dalla noia, è marcia, incurabile, perduta. E come questa, è percepita in tal senso, anche il dolore che viene provato lo è. Perché il novellatore è fingitore e per convivere con il malessere deve autoconvincersi che pure questo non è verità.
Pessoa rifiuta, ancora, la materia ed è mosso, nei suoi pensieri e nelle sue riflessioni, dallo sconforto. Uno sconforto che trova radice tra la dissipatezza tra mondo reale e sogno. Il mondo illumina l’uomo, gli dà vita, bellezza. Eppure, questo, si scontra con la dimensione onirica e con l’abito che ciascun essere umano è chiamato ad indossare. Egli, per primo, nutre un profondo disagio nel vestirlo. E’ stanco Fernando, è stanco di vivere di sogni, ne è ubriaco. Tanto che, stenta a ricordare quale sia la realtà. E’ stanco del rimpianto, della nostalgia, della consapevolezza del suo essere diverso da chi lo circonda, è stanco del suo non essere amato per la diversità. L’anima eccessivamente sensibile, dunque, finisce col chiudersi, col rifuggire al sentimento. E’ come se si rivestisse di una patina che gli impedisce di soffrire, di saggiare. Il suo sognare contrasta con l’assenza di praticità della sua mente, la sua consapevolezza di superiorità, si fronteggia, nuovamente, con quel muro di pietra che lo circonda.
Questa patina di protezione di cui si serra, procrastina la sua solitudine. Perché, seppur egli susciti simpatia, mai nessuno riesce a conoscerlo nel profondo. Mostra soltanto gli aspetti necessari, si apre ad amici immaginari in altrettanti caffè immaginari, rifugge nello scrivere che non è solo meditazione o valvola di sfogo ma pura e sempre necessità, e quindi si autocondanna all’insofferenza, all’isolamento. Né è conscio, così come è attratto dal nulla innanzi alla certezza dell’inutilità del suo sforzo “mistico”, ma tuttavia, non se ne distacca perché la vita è dolore, pena, crocefissione. L’uomo è carne, è azione, è omissione, è pensiero, è quel che accetta di essere.
E così, come l’artefice passeggia nei meandri della mente, del pensiero, dell’io, il lettore lo accompagna, passo passo, rapito da quella poetica e da quella penna magica di cui è insaziabile. Riflessioni, quelle descritte, che si evolvono nel procedere dell’opera, mutando, acquisendo – nella prima parte – e perdendo – nella seconda – colori, vitalità, come se l’anima si fosse distaccata dal corpo, dalla nostalgia, dalla sofferenza. La sensazione che ne scaturisce è quella del freddo, del vuoto, dell’assenza. Condizione, quest’ultima, che paradossalmente, porta ai massimi livelli le stesse percezioni che dovrebbero assuefarsi, anestetizzarsi, annullarsi.
«Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Ci sono molte più cose che tornano alla vita, ci sono molte più cose da aspettarsi quando il sole, invece di limitarsi a indorare (prima di luce oscura, poi di luce umida, infine di oro luminoso) i prati, le sporgenze degli arbusti, le palme delle mani delle foglie, moltiplica i suoi possibili effetti sulle finestre, sui muri, sui tetti [...]. Un'aurora in campagna mi fa star bene; un'aurora in città mi fa star bene e male, e perciò mi fa star meglio. Sì, perché la maggiore speranza che mi arreca possiede, come tutte le speranze, il sapore lontano e nostalgico di non essere realtà. Un mattino in campagna esiste; un mattino in città promette; il primo fa vivere; il secondo fa pensare. E io sentirò sempre, come i grandi maledetti, che è meglio pensare che vivere.» p. 56
«Di solito attribuiamo alla nostra idea dell’ignoto il colore delle nostre nozioni del noto. Se la morte la definiamo un sonno, è perché essa ci sembra un sonno dal di fuori; se chiamiamo la morte una nuova vita è perché ci sembra una cosa diversa dalla vita. Attraverso piccoli malintesi nei confronti del reale noi costruiamo le fedi e le speranze, e così ci nutriamo di croste che chiamiamo dolci, come i bambini poveri che giocano ad essere felici. Ma è così la vita; o almeno è così quel particolare sistema di vita che di norma è definito civiltà. La civiltà consiste nel dare a qualcosa un nome che non è il suo, e poi sognare sul risultato. E in verità il nome falso e il sogno vero creano una nuova realtà. L'oggetto diventa veramente altro, perché noi l'abbiamo reso altro. Fabbrichiamo realtà. La materia prima è ancora la stessa ma la forma che l'arte le conferisce la allontana da se stessa. Un tavolo di pino è legno di pino, ma è anche tavolo. Ci sediamo al tavolo e non al pino. Un amore è un istinto sessuale, però non amiamo con l'istinto sessuale, ma presupponendo un altro sentimento. E quella supposizione è ormai, in effetti, un altro sentimento.» p. 76
«Ogni sforzo è un delitto, perché ogni gesto è un sogno inerte» p. 206
Maria Darida - 5 anni fa
|
Il manuale del falsario - Eric Ebborn
Un libro molto interessante, spiega le tecniche di falsificazione di disegni e pitture. Ma, anche se è rivolto al falsario, questo libro è interessante anche per gli amanti della pittura e del disegno, perchè comunque descrive tecniche utili e controindicazioni di vari processi nella preparazione dei supporti, dei pigmenti e dell'opera finale. Il tutto contornato e integrato dalle molteplici esperienze di Hebborn, che, con la sua prosa schietta e ironica quanto chiara e esplicita, riesce a trasmettere un leggibile quanto specialistico trattato.
Antonio Rossi - 6 anni fa
|
Il mare dove non si tocca - Fabio Genovesi
«Le storie vengono da lontano, ma respirano sott’acqua e hanno ali giganti per raggiungerti ovunque»
Fabio ha soltanto sei anni quando scopre che i suoi undici nonni con undici nomi tutti con la a (perfino Rolando, che non si capisce perché proprio così dovesse chiamarsi l’ultimo figlio, ma che problema vuoi che sia, si aggiunge una vocale e il gioco è fatto, Arolando, eccolo qua!) e di cui dieci scapoli ed uno coniugato, unico soggetto dal quale è nato di fatto suo padre Giorgio e quindi anche unico legittimato ad essere chiamato per davvero “nonno” da quell’unico nipote che il medesimo rappresenta, non sono in realtà nonni bensì zii. “Eh”, dicono loro innanzi a detta constatazione, “lo sapevamo che non dovevamo mandarti a scuola!”. Eppure Fabio che con questi zii ci è cresciuto, che con questi zii ha imparato a far di conto e a tirar su un perfetto pollaio, non potrebbe mai immaginare la sua vita privata della loro presenza.
Una crescita, la sua, in quel de “Il villaggio Mancini” (in cui è chiaramente fatto divieto di entrare), ben diversa da quella degli altri bambini poiché unica nel suo genere. Giunge infatti all’età della scuola dell’obbligo con tutti i giorni della settimana suddivisi per trascorrere del tempo con i familiari e mai, è per lui disponibile, un giorno libero, un giorno di riposo, da trascorrere con i coetanei, o ancora giunge alla scuola dell’obbligo senza saper giocare a nascondino eppure super aggiornato circa gli esiti del Festival Della Canzone italiana di quell’anno. Vogliamo poi aggiungerci la storia della maledizione? Aramis, Aldo, Athos, Adelmo e tutti gli altri fratelli, sono stati vittima di un sortilegio che ne ha comportato la follia: a detta dei più, difatti, se gli uomini della famiglia Mancini non si sposano entro i quarant’anni, diventano matti. Semplice e chiaro.
Stranezze, in cui la giovinezza del protagonista si dipana, evolvendosi pagina dopo pagina con naturale maturale della persona. Stranezze che disorientano, ma soltanto in apparenza.
L’opera di Genovesi, ripercorre, passo passo il diventar grande di Fabio stesso, e nell’esposizione delle vicissitudini attinenti al ragazzino – di poi uomo – si nascondo e celano molteplici riflessioni su quello che è il senso della vita, su quello che significa esistere, cercare e trovare la propria strada, far proprio un desiderio, un sogno, consentirgli di diventare realtà.
Perché tutto, è riassumibile non tanto al problema, quanto, all’atteggiamento di fronte al problema. Come l’autore ha più volte ribadito, anche durante la presentazione a cui personalmente ho avuto modo di partecipare, saremo contestati e messi in discussione per qualsiasi cosa, ma questa è solo e soltanto la CROSTA. Scavando nelle profondità di quest’ultima, cercando, incuneandosi, non mancheremo di riflettere su quei “Calamari giganti” che nelle spazio più intimo ed oscuro del mondo, con i loro tentacoli, lottano, nuotano, si cibano.
Il toscano ci ricorda ancora che ciascuno ha un proprio percorso, un tragitto che magari si fa attendere, che magari ci lascia perplessi, che magari tarda a farsi scoprire e raggiungere, ma che prima o poi arriva.
«Perché i pesce tuo non te lo prende nessuno. Nuota strano, nuota a caso, ma eccolo che arriva da te.»
E quando arriva tutti i tasselli del puzzle si incuneano al loro posto, formando quel disegno così arcano ed oscuro che ci ha lasciato interdetti, che ci ha lasciato basiti, spaesati innanzi alle circostanze, innanzi ai colpi al fianco che non mancano mai nello scorrere dei giorni. Così come, ci sprona ancora l’autore, ciascuno ha la sua storia. Una storia in discesa ed in ascesa, una storia in bilico e una storia di certezze, una storia che talvolta si interseca alle altre, una storia che talvolta è e resta parallela a quegli incontri che sono determinanti nell’esistenza. Un destino, a cui non è possibile sottrarsi, perché la storia, se mixata al proprio “pesce” piano piano riporta lì, a quel quadro dipinto e ricco di colori.
Con “Il mare dove non si tocca”, Fabio Genovesi si mette a nudo raccontandoci e romanzandoci quella che è stata la sua infanzia, ma anche destinandoci di riflessioni e di analisi che lasciano il segno. Al tutto si somma uno stile che si conforma perfettamente all’età del personaggio delineato, uno stile fluente che conduce, che non lascia spazi e che non molla sino alla conclusione dell’opera. A completezza, ancora, si inseriscono attimi di pura ilarità e genialità, dove, eroi indiscussi sono gli zii e le avventure che li vedono protagonisti.
Tra tutte le opere a sua firma, certamente, questa nuova proposta editoriale, è tra le migliori e merita di essere letta. Un poco alla volta, o tutta d’un fiato, ma non delude.
In conclusione, esilarante, riflessivo, indelebile.
«Poi però l’ho capito che l’anima di ogni persona è proprio questa qua: è la sua storia da raccontare, e più è bella e più vola fra le bocche e le orecchie e dura nel tempo. Il tuo corpo finisce in una cassa, ma la tua storia viaggia per il mondo, viaggia per sempre. […] Per farlo vergognare di avermi chiamato pazzo. Perché pazzi erano quelli che le decidevano le guerre e ci mandavano a morire le persone. [..] Però lui non aveva ragione, e magari non ce l’avevo nemmeno io, ma chi se ne frega. E’ per avere ragione che cominciano le guerre, poi a forza di bombe e cannoni te lo scordi e sono solo medaglie sul peto e morti sottoterra. E allora sarò strano, sarò pazzo, non lo so e non mi importa. So solo che lascio il modulo com’è, sbagliato e giusto insieme, e corro giù. Una stesa di scale e la strada, e la mia storia vola già da un’altra parte.»
Maria Darida - 5 anni fa
|
Il matrimonio di mio fratello - Enrico Brizzi
Un romanzo bellissimo. Una “storia sbilenca, che un po' fa ridere e un po' mette paura” per dirla con le parole dell’autore. E che un po' commuove, aggiungo io. Primo tra i recenti romanzi dedicati all’infanzia, all’adolescenza, ai rapporti tra fratelli, a quelli tra genitori e figli e ai matrimoni che si spezzano, questo si distingue per le robuste dosi di ironia disseminate lungo le sue quasi cinquecento pagine. Pagine che scorrono veloci e non annoiano mai, anzi coinvolgono. Fanno riflettere e arrabbiare, anche. Fanno pensare a quanto la generazione dell’autore, che è anche quella di molti lettori, sia caduta in basso. Leggetelo, non ve ne pentirete. Una curiosità: tra gli ultimi romanzi di Brizzi, alcuni hanno come co-protagonista uno sport. Qui è l’alpinismo, in “Tu che sei di me la miglior parte” è il calcio, in “La primavera perfetta” è il ciclismo. Anche nel raccontare le imprese sportive, o le mancate imprese, Brizzi è un vero maestro. Chapeau.
Marco Ciampolini - 1 anno fa
|
Il mio primo libro delle forme - Eric Carle
Molto carino, adatto a bambini sopra 2 anni di età.
Katy Bianchi - 6 mesi fa
|
|