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Il quartiere - Vasco Pratolini
Firenze, anni ’30. “Il Quartiere” non è certo un luogo dove sfarzo e lusso regnano sovrani, eppure, per i protagonisti di questa storia è “la casa”, la località dove risiedono gli affetti, la consuetudine, i dogmi della vita di strada, i principi di onestà e rettitudine di tempi dettati e scanditi da una diversa concezione della quotidianità.
«E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi di donna, pensiamo di affrontare il mondo via via che il cuore si gonfia dentro il petto, e negargli lo sfogo ci sembra un dovere. Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare, mischiare veleno e miele dentro al cuore. [..] Eppure possiamo leggerci dentro il cuore l’uno con l’altro, seguirci in ogni strada o piazza e fra le mura delle nostre case di Quartiere. I nostri sogni sono stati così uguali che per formare diverse le nostre storie abbiamo dovuto dividerci le occasioni, come da fanciulli si prendeva ciascuno una qualità diversa di gelato per assaggiarle tutte. Ma ora abbiamo i tacchi alti e le ginocchia coperte; e una finzione negli occhi se ci guardiamo. Ma basta che uno di noi volti un angolo di strada o salga una rampa di scale, perché gli altri possano seguirlo in ogni gesto, come in uno specchio. Ce ne siamo dette le ragioni di un giorno lontano con pugni e abbracci, muco sotto il naso: non c’è nulla che possa sfuggirci nell’affetto che ci lega. Lasciate che la finzione ci squassi, o la vita, col cuore che si fa grosso e noi lo comprimiamo. Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e di lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremmo?» Maria Darida - 6 anni fa |
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Il segreto della bambina sulla scogliera - Lucinda Riley
Un libro da leggere. Generalmente non mi piacciono i libri che saltano da una storia ad un'altra, ma qui è fatto in un modo molto intelligente, e non ho mai avuto la sensazione di dover saltare da un'epoca ad un'altra come un yo-yo, come normalmente succede. Ok, ci sono più di una storia di amore dentro, ma non sono per niente semplici e banali, e non finiscono assolutamente tutte con "e vissero felici e contenti". Kristina Wallin - 3 anni fa |
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Il sole si spegne - Osamu Dazai
Credo che per comprendere al meglio questo libro ci sia bisogno di conoscere prima il contesto storico della sua ambientazione. Il Giappone di fine seconda guerra mondiale non ha niente a che vedere con quello che conosciamo adesso e lo stesso vale per i giapponesi. Se dovessi descrivere la storia con una sola parola direi decadenza, se dovessi descrivere cosa mi è rimasto dopo la lettura direi tristezza. Dalle pagine traspira chiaramente che per il suo scrittore non c'è più nulla per cui vale la pena di continuare a combattere, è meglio arrendersi alle circostanze e alla morte. Sicuramente non è la lettura che più vi consiglierei se state affrontando un brutto periodo... Valentina Pifferati - 9 mesi fa |
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Intrigo italiano - Carlo Lucarelli
Bologna. Il corpo di Mantovani Stefania in Cresca, classe 23 agosto 1922, viene rinvenuto privo di vita nell’appartamento usato dal marito, Mario, per le serate da scorribande con amici e “amiche”. Del caso viene investito l’ex commissario De Luca, il quale partito da Roma, si ritrova a lavorare per i servizi e a dirimere un mistero molto più oscuro ed intricato di quel che potevasi pensare ab initio.
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L' ombrello dell'imperatore - Romanzo di Tommaso Scotti
«È a dir poco curioso come, a volte, il destino ci leghi nella maniera più strana. In questo caso, tramite un ombrello.» A prima vista non è altro che un anonimo oggetto realizzato con cura e dedizione per il dettaglio, quella stessa cura e dedizione che è propria alla realtà nipponica. Eppure, è proprio quell’oggetto, quell’ombrello all’apparenza così innocuo a essere l’arma del delitto utilizzata per determinare la morte di Yuki Funagawa, nato il 2 dicembre 1986. È un particolare insolito, quell’ombrello. Uno di quelli con la copertura in plastica trasparente, un modello molto comune, di taglia grande, con le stecche di una settantina di centimetri. Questo si trova chiuso sul pavimento accanto alla vittima, il bianco della punta è completamente nascosto dal sangue rappreso e da tracce di bulbo oculare destro del deceduto. Un comunissimo bene contraddistinto, per l’occhio più acuto dell’osservatore, soltanto da un puntino rosso, a prima vista un adesivo o un simbolo dipinto situato sul manico di plastica bianca. È questo dettaglio che colpisce l’ispettore Takeshi James Nishida della squadra Omicidi della Polizia di Tokyo e soprannominato Boss dai colleghi per quella grande dipendenza da caffeina in latina della omonima marca. Takeshi è un hafu ovvero un mezzosangue di madre americana e padre giapponese. È anche per questo condannato a non salirci ai piani alti; in Giappone vige la religione dei protocolli, religione di cui Nishida non è un seguace: egli appartiene alla strada. E Takeshi ha anche ereditato i tratti caratteriali della realtà occidentale, tratti che lo rendono spesso impulsivo, poco accomodante e disincantato verso quella dimensione che lo circonda e che lo vorrebbe esattamente al suo contrario. «Negli ultimi vent’anni si era fatto un nome risolvendo casi complicati e mettendo dentro non pochi delinquenti, nonostante a volte per ottenere risultati avesse dovuto usare metodi poco ortodossi. Il che purtroppo, unito alla sua abitudine estremamente non giapponese di dire in faccia alla gente come la pensava, non andava molto a genio ai suoi superiori. Anzi, ai suoi superiori non andava a genio per niente.» Bastano pochi rilievi per appurare che oltretutto quell’ombrello appartiene alla persona più impensabile: l’Imperatore. Ma com’è possibile? E a chi appartiene quell’altro piccolo tratto di impronta digitale che dalle analisi risulta essere presente sullo stesso? Per il Tommy Lee Jones che è Takeshi, che sovente è stato paragonato a questo personaggio stante i suoi tratti particolari che lo rendono molto avvenente, avrà inizio una indagine atta a cercare di scoprire la verità in quella che è una morte tutt’altro che chiara.
«L’ispettore ne aveva viste abbastanza da sapere che la più grande oscurità è spesso nascosta alla luce del sole, ma in quel caso gli risultava difficile credere di avere di fronte un assassino.» Quello di Tommaso Scotti è un esordio molto interessante che propone al lettore un protagonista che entra subito nelle sue simpatie e che con rapidità coinvolge e trattiene. Il conoscitore è incuriosito dalle vicende, affascinato dalla cultura nipponica e da questa figura dai tratti fisici appena tratteggiati eppure così vivida nella mente per carattere e determinazione. L’opera è inoltre ben strutturata. Parte da presupposti ben elaborati e a questi ne aggiunge altrettanti che rendono la narrazione più stratificata e l’enigma più articolato da risolvere.
«C’è la nostra anima qui dentro, ed è un’anima di acciaio. Questa vite è il nostro testamento imperituro in un mondo usa e getta.» Maria Darida - 1 anno fa |
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L'amica geniale - Elena Ferrante
Anni 50. Lila Cerrullo, classe 11 agosto 1944, e Elena Greco, classe 15 agosto 1944, vivono in una Napoli ancora provata dagli anni della guerra, una realtà ancorata ai vecchi principi e per questo poco incline al cambiamento. Lenù e Lila conoscono la povertà, conoscono il sacrificio ed il prezzo di quella società fondata sul “faticare” dove studiare è solo un corollario aggiuntivo e superficiale che non deve sostituirsi mai al lavoro, cardine essenziale e primario di ogni uomo.
«”Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare”
“L’amica geniale” non è però soltanto il racconto di questa particolare amicizia, “L’amica geniale” è un elaborato che narra di una società, quella napoletana negli anni successivi al conflitto, è uno scritto che descrive i rapporti umani, che analizza la dimensione del quartiere, che scarna il binomio povertà-ricchezza, che si incentra sull’ingerenza pregnante dei genitori sui figli; un’influenza talmente forte da determinarne le sorti (basti pensare alla madre di Elena che prima la denigra perché studia, poi le rinfaccia di mescolarsi alla “feccia” dopo i sacrifici fatti per farle prendere il titolo). A contorno delle due figure principali, abbiamo inoltre una serie di personaggi secondari tutti accomunati da un denominatore comune: la voglia di riscatto, economico ma anche culturale e morale. La Ferrante sembra voler invitare chi legge a riflettere sulla durezza della vita; che è lotta, emersione, materialità e non materialità. E lo fa senza remore, senza nulla risparmiare. Il tutto è avvalorato da una penna che accarezza, munita di uno stile apparentemente semplice, in verità curato in ogni suo frangente, in ogni suo aspetto.
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L'Arminuta - Donatella Di Pietrantonio
Tredici anni è l’età del ritorno al paese, ad un’esistenza di prima che nemmeno sapeva esistere. Perché lei, che un nome di battesimo non lo possiede e che è detta da tutti “arminuta”, la ritornata, è stata scaricata come una merce, come un pacco. Sino al giorno prima abitava con quelli che credeva essere i suoi genitori in città, la sua vita era semplice ma ordinata in quei suoi doveri quotidiani dettati dallo studio, da quelle sue passioni quali la danza e il nuoto. Il giorno dopo, il risveglio in un luogo che tutto sa tranne che di casa, in un luogo dove non vi è calore e dove non è altro che una tra “i tanti” figli. Eh si, perché oltretutto, ella che era sempre stata figlia unica, eredita pure la bellezza di sei o sette fratelli che, ovviamente, la rifiutano. Tutti, tranne la piccola Adriana, con cui divide il letto e le notti insonni, e Vincenzo, il maggiore che proprio però non riesce a vederla come sorella.
«Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco spazio che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure» p. 100 Un abbandono, questo, che le impedirà di identificare il nome “mamma” con una persona. Perché, chi e cosa è stato per lei, una madre? «Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso» p. 108 Con “L’arminuta” Donatella di Pietrantonio ha dato vita ad un romanzo forte, intenso, commovente, crudo. Un elaborato dove la ricerca della verità si mixa alla sofferenza dettata dall’abbandono, dalla perdita di certezze, di fondamenta. E vi riesce con equilibrio, misura, empatia. Non cade mai nella compassione, nella pietà. Ogni espressione utilizzata è asciutta, aspra, tenace, ruvida, ed al contempo emozionante, solidale, ma mai miserevole e/o propria di odio e/o astio verso quella situazione in cui la protagonista viene a trovarsi.
«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho imparato la resistenza. Ora ci somigliano di meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate» p. 163 Maria Darida - 5 anni fa |
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L'arte di essere fragili - Alessandro D'Avenia
“Caro Giacomo, in quest’epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla troppo poco con gli adolescenti. Parlare con gli adolescenti non è articolare un elenco di “devi” o “dovresti”. Non guadagna la fiducia dei ragazzi chi la cerca scimmiottando la loro adolescenza, ma chi partecipa alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza. Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini: solo se io so che cosa ci sto a fare al mondo metto in crisi positiva un adolescente, che non vuole gli si spieghi la vita, ma che la vita si spieghi in lui, e vuole avere a fianco persone affidabili per la propria navigazione”. P. 34 Non è semplice rendere l’idea di quel che è “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’avenia, non perché l’opera sia incomprensibile o di scarso valore bensì per la molteplicità di contenuti che in essa sono racchiusi. L’autore, infatti, in queste pagine, pone al lettore, e a sua volta si auto-pone, una serie di quesiti di gran rilevanza, una serie di interrogativi che spaziano per quella che è la vita e la realtà di ciascun individuo in ogni fase della maturazione umana. E lo fa senza avere la pretesa di poter offrire soluzioni semplici perché come ben ci ricorda, la vita stessa non è semplice dunque, non può essere minimizzata, non può essere risolta facendo riferimento ad una formula matematica, ad un minimo comune denominatore da applicare al caso incontrato nel percorso di crescita interiore. A questo punto vi starete chiedendo: ma come riesce D’Avenia a far si che tutto questo abbia luogo? Come può rendere atto di questi mutamenti interiori, di questa energia che vuol uscire, dei dubbi, dei fallimenti, di questi interrogativi che immancabilmente attanagliano l’uomo? Semplice, mediante una serie di scambi di battute con niente meno che Giacomo Leoparadi.
«”Professore, lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e guardare un po’ di più il Grande Fratello”. [..] Quella frase mi colpì, non per la sua insolenza ma per la sua verità bruciante. Tradotta suonava così:”Professore, per favore può tornare nel mondo piccolo della bruttezza e non farmi sentire che esiste la bellezza? Può non costringermi a scegliere tra il nulla e l’essere? Ora che so che ci sono cose in cui la vita si sente così forte, cose così belle, devo uscire dalla mia comoda indifferenza e prendere posizione: a che punto sono del mio compimento, che cosa voglio dalla vita? Professore, può per favore evitarmi minuti di rapimento, altrimenti devo mettermi in cammino verso il compimento?” » p. 68 All’analisi dell’adolescenza è destinata circa metà dell’elaborato, questo perché gli “adolescenti non pongono domande, sono domande”; sono energia che vuol uscire, esplodere, essere destinata ad un obiettivo, e sono al tempo stesso provocatori perché pongono interrogativi a cui vogliono risposte, risposte che devono e pretendono essere semplici e risolutive quando in realtà a molte di esse è possibile rispondere soltanto con la dimensione dei forse, dell’incertezza.
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L'esodo - Ciro Formisano
un libro necessario. assolutamente consigliato Eleonora Cioni - 3 anni fa |
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L'estate delle coincidenze - Ali McNamara
Un libro molto bello, che ci guida nel mondo della magia irlandese. Non leggete se non vi piacciono le cose inspiegabili! Scorre molto bene ed è piacevole leggerlo. Kristina Wallin - 3 anni fa |
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