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Il nostre anime di notte - Kent Haruf
Holt, Colorado. Addie Moore e Louis Waters, entrambi vedovi ed in là con gli anni, sono vicini di casa da tempo immemore eppure la loro conoscenza non va oltre la facciata, la cortesia. Ecco perché la richiesta della donna di iniziare a dormire insieme per fuggire alla solitudine, per sconfiggere la monotonia della routine, delle incombenze, è tanto scandalosa quanto inaspettata. Ha deciso di avere coraggio, Addie, ed è consapevole della possibilità di un rifiuto che di fatto non arriva, Louis, accetta la sua proposta, a sua volta decide di mettersi in gioco, anche solo per curiosità, per vedere a cosa, quell’amicizia, avrebbe portato.
Iniziano così a trascorrere le loro notti insieme, ore in cui semplicemente si sdraiano nel letto, si parlano, si conoscono davvero per la prima volta, si stringono per mano, ascoltano i rispettivi respiri nel silenzio, in attesa dell’alba del nuovo giorno. Come spesso accade, in un primo momento il loro legame dà scalpore, tanto che finisce con l’essere oggetto di chiacchera degli abitanti del luogo. E proprio quando questi finiscono con l’accettare e vedere positivamente l’unione di due persone che vogliono semplicemente condividere le loro rispettive solitudini, fondere il loro tempo in un unico orologio, quello che è la vita, di questo connubio vengono a sapere le rispettive proli. In particolare, Gene, padre di Jamie, nonché figlio di Addie, non approva detto interludio; forte dei risentimenti che nutre verso il defunto genitore, ostacola in ogni modo quell’amicizia non rendendosi conto di quanto al contrario questa sia benefica non solo per la madre ma anche per il piccolo seienne.
Con una trama scarna, silenziosa, che vede sullo sfondo la cittadina che abbiamo iniziato ad amare con “la trilogia della pianura”, con tutti i suoi pregi e difetti, l’opera si basa interamente sul rapporto che si instaura tra i due anziani protagonisti. Pagina dopo pagina il lettore attende come, Louis e Addie, l’arrivo della notte, della condivisione, della scoperta. In queste ore, dove la cittadina riposa, dove non esistono altro che loro, ogni corazza viene meno in un susseguirsi di ricordi che vanno dagli affetti venuti a mancare (dalla presenza dei coniugi rispettivi alla perdita di una figlia), a quelli in contrasto (dai tradimenti alla conflittualità con chi è venuto dalle loro unioni), ai rimpianti per quei lavori inseguiti, per quei lavori insoddisfacentemente intrapresi, alla volontà di donarsi interamente l’uno all’altro, ciascuno al piccolo nipotino e alla dolce sfortunata Bonny. Perché Louis e Addie, che sono all’epilogo della rispettiva esistenza, non hanno altro che da guadagnare dall’instaurazione di un legame profondo, non hanno interesse a curarsi delle opinioni altrui poiché quel che conta è solo il presente. Perché dunque non abbandonarsi a quel flusso di coscienza, a quel puzzle di vita che va pian piano prendendo forma, che va pian piano ricomponendosi? Come non accettare il passato, come non vivere ogni giorno che hanno ancora a disposizione su questa terra come un dono, come un qualcosa di raro e prezioso da custodire ed avvalorare?
Quella che si viene a creare è una nuova famiglia, un nucleo che semplicemente si basa sulla quotidianità, sulla volontà di ascoltarsi e avere in comune un qualcosa, un qualcosa che è quanto di più prezioso ci sia e che si contrappone a quell’insipienza che aveva caratterizzato le unioni coniugali “legittime”. E non manca il tema della malattia che ha visto protagonista Haruf stesso in quegli ultimi giorni obbligati, in quell’addio forzato all’amata moglie, in quella resa incondizionata ad un dolore ormai divenuto sordo ed insopportabile.
Ma Addie e Louis sono due esseri umani, due individui che come tali cercano di far leva sul coraggio, ognuno a suo modo. Lei con la sua passione, la sua voglia di vivere, lui con la sua riservatezza, con la sua riflessività. Ecco perché quando quell’umanità torna con la sua forza dirompente frantumando, o tentando di frantumare, il nuovo costruito, l’inevitabile accade. L’egoismo altrui piega quella voglia di vivere così semplice, pura, intensa.
“Le nostre anime di notte” è un romanzo che prima di tutto spicca per l’urgenza con cui Haruf si consegna al lettore. E’ un elaborato che segue la linea della trilogia di cui sopra per la forza delle tematiche trattate che mai mancano o sono irrisorie nei testi del narratore; e che tuttavia se ne distacca completamente dal punto di vista delle ambientazioni finendo, Holt, con il fare meramente da cornice agli avvenimenti. E’ appena percepita, quasi invisibile. Protagonista indiscusso del volume è l’animo umano, con tutte le sue più variopinte contraddizioni. La sensazione è inoltre quella di abitare in una dimensione temporale sospesa, delimitata nel suo essere da quelle mura domestiche, da quell’intimità che coniuga due cuori; un arco in cui l’ineludibilità della conclusione dell’esistenza è rappresentata proprio da quell’attesa della notte.
E’ un Kent Haruf diverso, quindi, quello che conosciamo in queste pagine, un Kent Haruf che è mosso dalla volontà superiore di raccontare, di parlare alla compagna nonché all’appassionato conoscitore per un’ultima volta; un’ultima volta “prima che sia troppo tardi” (attraverso una Addie Moore calibrata in ogni sua parola e gesto), ora che, “è già troppo tardi” (mediante un Louis Waters consapevole e certo). E chissà se “li rivedremo..” (attraverso la voce del piccolo Jamie)..
Quel sentire immediato e tangente non può attendere nel suo essere vissuto, ve ne è una esigenza senza eguali. Ma badate bene, questa necessità impellente di vivere, di non perdere nemmeno un attimo di condivisione, non fa venire meno la forza espressiva e la delicatezza propria di un autore maestro nella trasmissione delle emozioni. Questa sua concreta consapevolezza di essere ormai giunto alla fine del suo percorso fa si che non vi sia altro spazio se non quello per quella “nostra vita vissuta insieme” così ricca, così ineguagliabile che nulla, né i rancori, né i rimpianti, né la pura e semplice consapevolezza che un male superiore sta per porre in essere una separazione definitiva, può offuscarla.
La più inestimabile delle dichiarazioni d’amore. Un romanzo breve ma di grande contenuto, un elaborato che arriva con quella forza dirompente dei sentimenti che non vogliono e non possono più essere trattenuti, prima come ora più che mai, uno scritto che è impossibile lasciare, che vorremmo sempre tenere con noi, un testo che commuove e sconvolge, che lascia semplicemente il segno.
«Erano sdraiati uno accanto all’altra e ascoltavano la pioggia.
E così, la vita non è andata bene per nessuno dei due, quantomeno non come ce la aspettavamo, disse Louis.
Anche se adesso, in questo momento, mi sta piacendo molto.
A me sta piacendo più di quanto io pensi di meritare, disse lui.
Oh, ma tu meriti di essere felice. Non credi?
Credo sia quello che mi sta capitando in questi ultimi mesi. Per un motivo o per l’altro.
Continui ad avere dubbi sul fatto che possa durare.
Tutto cambia. Si alzò di nuovo dal letto. [..]
Di nuovo in camera di Addie, Louis mise una mano fuori dalla finestra e sentì la pioggia che gocciolava dalle grondaie, quindi tornò a letto e con la mano bagnata sfiorò la guancia morbida di Addie» p. 88-89
«Chi riesce ad avere quello che desidera? Non mi pare che capiti a tanti, forse proprio a nessuno. E’ sempre un incontro alla cieca tra due persone che mettono in scena vecchie idee e sogni e impressioni sbagliate. Anche se, ripeto, questo non vale per noi due. Non in questo momento, non oggi.» p. 117
«Non puoi aggiustare tutto, non ti pare? Disse Louis.
Ci proviamo sempre. Ma non ci riusciamo.» p. 129
«Bé è proprio quello che stiamo facendo. Chi si sarebbe aspettato che a questo punto delle nostre vite potesse capitare una cosa del genere. Chi l’avrebbe mai detto? Per noi le novità e le emozioni non sono finite. Non siamo diventati aridi nel corpo e nello spirito» p. 132
«C’è un tempo e un luogo per ogni cosa, commentò lui». p. 140
«Allora ai nostri posti ci andranno degli sconosciuti. Senza sapere nulla di noi.
Né del perché si siano liberati quei posti.
E tu continui a non volere che ti chiami io. Non vuoi che sia io a telefonarti.
Ho paura che ci sia qualcun altro nella stanza. Non riuscirei a fingere.
E’ come quando abbiamo cominciato a vederci. Come se avessimo ricominciato. E sei sempre tu quella che deve prendere l’iniziativa. L’unica differenza è che adesso siamo cauti.
Ma stiamo anche andando avanti, non è vero? Disse lei.
Stiamo continuando a parlare. Fin quando potremo. Finché dura.
Di cosa vuoi parlare stasera?
Addie guardò fuori dalla finestra. Vedeva il proprio riflesso nel vetro. E l’oscurità subito oltre.
Fa freddo li stasera, tesoro?»
Maria Darida - 7 anni fa
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Il Pianeta delle scimmie - Charlton Heston, Roddy McDowall
Se vi è un film che proiprio mi piace è questo....
un pò mi ricorda quando ero ragazzo, penso di averlo visto in bianco e nero....
A mio avviso il più bel film di fantascienza mai fatto
Gianmarco Lunardi - 4 anni fa
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Il pigiama del gatto - Ray Bradbury
Finora inedita in Italia, “Il pigiama del gatto” è l’ultima raccolta in vita di uno degli autori più geniali presenti sul panorama letterario. Costituita da 20 storie, a cui si sommano un prologo ed un epilogo; l’opera si caratterizza per l’inconfondibile penna di Bradbury che se da un lato rende omaggio agli autori che da sempre l’hanno ispirato quali Fitzgerald, Poe, Wilde o Melville, dall’altro trascina il lettore nel suo policromatico mondo, un universo fatto di amicizie, paure, panico, delusioni, viaggi nel tempo, amori perduti, incompresi e ritrovati, artisti tanto improbabili quanto sottovalutati resi celebri da inaspettati colpi di scena, senatori ubriachi capaci di giocarsi uno stato dopo l’altro degli Stati Uniti D’America in un casinò indiano, femmes fatales ammaliatrici di emofiliaci scrupolosi in tutto tranne che sul versante femminile. E così tra una pagina e l’altra l’opera si fa divorare rapendo lo sconosciuto avventuriero che si incammina sul sentiero di promesse delineato da Bradbury.
Ciascun racconto ha una sua morale, lo scrittore nell’introduzione ci narra come questi siano stati concepiti, qual è stata la molla che ha ispirato il “demone” inchiodandolo alla scrivania fintanto che la redazione quei pensieri non fosse indelebilmente trascritta su carta. Sono stata colpita in modo diverso da ogni racconto, alcuni quali ad esempio “Crisalide” o ancora “Il completista” sono lo specchio della realtà di ieri e di oggi e Bradbury non erra quando suggerisce al lettore di mettere a confronto i due scritti, “Il pigiama del gatto” è di una delicatezza e di una dolcezza infinita che si esprime con tutta la sua folgorante forza soprattutto sul finale, con “l’isola” le paure e le fobie umane sono messe in luce con ogni sfumatura ed ogni paradosso, in “Ci comporteremo normalmente” la Susan del passato si ritrova a far i conti con il Ray del presente e il timore interiore di diventare l’uomo non sperato.
Un’opera di indubbio valore, che si esprime indelebilmente grazie alla sua semplicità.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il quartiere - Vasco Pratolini
Firenze, anni ’30. “Il Quartiere” non è certo un luogo dove sfarzo e lusso regnano sovrani, eppure, per i protagonisti di questa storia è “la casa”, la località dove risiedono gli affetti, la consuetudine, i dogmi della vita di strada, i principi di onestà e rettitudine di tempi dettati e scanditi da una diversa concezione della quotidianità.
Valerio, Giorgio, Carlo, Arrigo, Gino, Berto, Maria, Marisa, Olga, Argia e Luciana, sono le voci corali che abitano le pagine dell’opera di un Pratolini ancora lontano dai cenni biografici che abbiamo conosciuto in successivi elaborati quali “Cronaca Familiare”. E così, tra Via Laura, Santa Croce, San Frediano e tutte le altre aree principali della città, prende campo uno scritto che può simbolicamente dividersi in due fasi; una prima all’interno della quale il lettore viene a conoscenza delle realtà di ogni personaggio, ancora poco più che adolescente ed il cui giungere all’età adulta è segnato del passare dal pantalone sopra le ginocchia a quello fino alle caviglie, sino all’avvicendarsi dei primi amori e delle prime delusioni, intervallandosi per quel bisogno incessante di non perdersi nonostante gli avvenimenti a cui fattori esterni – quali l’avvento del Fascimo – e perdizioni interne – quali il farsi corrodere dall’invidia – sottopongono il gruppo, ed una seconda ove la Guerra, con il suo arrivo, muta nuovamente le carte, portando scompiglio, cambiamento.
Due fasi dunque, che nel loro essere segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. E’ una società fondata sul lavoro e sull’onestà morale quella che è descritta dall’autore, una realtà in cui con una scazzottata tutto poteva essere risolto purché si parlasse, ci si confrontasse, si desiderasse il chiarimento. Si parla di amicizia vera, nata tra la povertà, coltivata nella solidarietà di un Quartiere che può forse offrire poco economicamente, ma molto dal punto di vista della solidarietà. Ed anche quando giunge il momento del risanamento dei luoghi della crescita, esso non si sgretola, in pochissimi decidono di trasferirsi nelle periferie, la maggior parte si ammassa nelle case non colpite dal procedimento amministrativo pur di non abbandonare quei luoghi.
E’ uno scritto altresì caratterizzato da malinconia, sensazione suscitata dalla consapevolezza di una ruota, spesso immutabile, che gira tornando sempre al suo punto d’origine, ma anche per il ricordo, per noi nuove generazioni, di un tempo in cui i valori erano diversi, dove la società era più semplice, dove ci si accontentava di poco ma quel poco era il tutto.
Stilisticamente parlando Pratolini non delude, anzi, è capace con la sua penna erudita di toccare l’anima di chi legge, di accompagnarlo nello scorrere delle pagine con grazia e dovizia rievocando altresì immagini di una Firenze in piena evoluzione. Semplicemente, da leggere.
«E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi di donna, pensiamo di affrontare il mondo via via che il cuore si gonfia dentro il petto, e negargli lo sfogo ci sembra un dovere. Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare, mischiare veleno e miele dentro al cuore. [..] Eppure possiamo leggerci dentro il cuore l’uno con l’altro, seguirci in ogni strada o piazza e fra le mura delle nostre case di Quartiere. I nostri sogni sono stati così uguali che per formare diverse le nostre storie abbiamo dovuto dividerci le occasioni, come da fanciulli si prendeva ciascuno una qualità diversa di gelato per assaggiarle tutte. Ma ora abbiamo i tacchi alti e le ginocchia coperte; e una finzione negli occhi se ci guardiamo. Ma basta che uno di noi volti un angolo di strada o salga una rampa di scale, perché gli altri possano seguirlo in ogni gesto, come in uno specchio. Ce ne siamo dette le ragioni di un giorno lontano con pugni e abbracci, muco sotto il naso: non c’è nulla che possa sfuggirci nell’affetto che ci lega. Lasciate che la finzione ci squassi, o la vita, col cuore che si fa grosso e noi lo comprimiamo. Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e di lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremmo?»
Maria Darida - 7 anni fa
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Il segreto della bambina sulla scogliera - Lucinda Riley
Un libro da leggere. Generalmente non mi piacciono i libri che saltano da una storia ad un'altra, ma qui è fatto in un modo molto intelligente, e non ho mai avuto la sensazione di dover saltare da un'epoca ad un'altra come un yo-yo, come normalmente succede. Ok, ci sono più di una storia di amore dentro, ma non sono per niente semplici e banali, e non finiscono assolutamente tutte con "e vissero felici e contenti".
Kristina Wallin - 4 anni fa
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Il sole si spegne - Osamu Dazai
Credo che per comprendere al meglio questo libro ci sia bisogno di conoscere prima il contesto storico della sua ambientazione. Il Giappone di fine seconda guerra mondiale non ha niente a che vedere con quello che conosciamo adesso e lo stesso vale per i giapponesi. Se dovessi descrivere la storia con una sola parola direi decadenza, se dovessi descrivere cosa mi è rimasto dopo la lettura direi tristezza. Dalle pagine traspira chiaramente che per il suo scrittore non c'è più nulla per cui vale la pena di continuare a combattere, è meglio arrendersi alle circostanze e alla morte. Sicuramente non è la lettura che più vi consiglierei se state affrontando un brutto periodo...
Valentina Pifferati - 2 anni fa
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Intrigo italiano - Carlo Lucarelli
Bologna. Il corpo di Mantovani Stefania in Cresca, classe 23 agosto 1922, viene rinvenuto privo di vita nell’appartamento usato dal marito, Mario, per le serate da scorribande con amici e “amiche”. Del caso viene investito l’ex commissario De Luca, il quale partito da Roma, si ritrova a lavorare per i servizi e a dirimere un mistero molto più oscuro ed intricato di quel che potevasi pensare ab initio.
Di fatto, il poliziotto, si riscopre di fronte un delitto non isolato, un omicidio – e non un suicidio come potevasi pensare – cioè, collegato ad altri decessi le cui indagini sono state archiviate con inspiegabile rapidità. Ma chi aveva interesse a far cadere nell’oblio dette morti? Qual è inoltre il ruolo di quella voce tanto suadente quanto roca e profonda di Claudia/Franca, personaggio femminile tanto affascinante quanto enigmatico? E quello del Fiorentino Giannino? Può davvero fidarsi, De Luca, di questo ragazzone-ragazzino, manipolato e sfruttato dai servizi eppure furbo e con gli scrupoli morali e l’allegria di un bambino che frigge di fronte ad un giocattolo nuovo?
Con “Intrigo italiano. Il ritorno del Commissario De Luca”, Carlo Lucarelli dà vita ad un giallo sottile, lineare privo di particolari colpi di scena e dall’epilogo intuibile, ma al tempo stesso accattivante e fluente. L’autore, infatti, ben mixa le componenti storiche con quelle del caso che, snodandosi negli anni ’50, è munito di tutte le caratteristiche necessarie per rendere concrete le vicende e permettere al lettore di sentirsi parte integrante di quella fase. Sulla scia del periodo Fascista, giunto a conclusione ma non ancora dimenticato e per questo oggetto di reminescenze su chi per ragioni di sopravvivenza non aveva potuto sottrarsi dal farne parte, De Luca in primis, e sulla scia della guerra Fredda, ove spie russe si connubiano perfettamente con quelle americane ed italiane, i fatti si faranno sempre più incalzanti per risolversi ,infine, in quello che è un vero e proprio intrigo tutto italiano.
Stilisticamente la penna di Lucarelli non delude risultando essere munita di quella verve magnetica che gli è propria. Lo scrittore riesce inoltre a dar vita ad un testo che è perfettamente leggibile da tutti, tanto da chi conosce dell’ex commissario, quanto da chi vi viene in contatto per la prima volta
In conclusione, non indimenticabile ma certamente da leggere. Una buona prova.
Maria Darida - 7 anni fa
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L' ombrello dell'imperatore - Romanzo di Tommaso Scotti
«È a dir poco curioso come, a volte, il destino ci leghi nella maniera più strana. In questo caso, tramite un ombrello.»
A prima vista non è altro che un anonimo oggetto realizzato con cura e dedizione per il dettaglio, quella stessa cura e dedizione che è propria alla realtà nipponica. Eppure, è proprio quell’oggetto, quell’ombrello all’apparenza così innocuo a essere l’arma del delitto utilizzata per determinare la morte di Yuki Funagawa, nato il 2 dicembre 1986. È un particolare insolito, quell’ombrello. Uno di quelli con la copertura in plastica trasparente, un modello molto comune, di taglia grande, con le stecche di una settantina di centimetri. Questo si trova chiuso sul pavimento accanto alla vittima, il bianco della punta è completamente nascosto dal sangue rappreso e da tracce di bulbo oculare destro del deceduto. Un comunissimo bene contraddistinto, per l’occhio più acuto dell’osservatore, soltanto da un puntino rosso, a prima vista un adesivo o un simbolo dipinto situato sul manico di plastica bianca. È questo dettaglio che colpisce l’ispettore Takeshi James Nishida della squadra Omicidi della Polizia di Tokyo e soprannominato Boss dai colleghi per quella grande dipendenza da caffeina in latina della omonima marca. Takeshi è un hafu ovvero un mezzosangue di madre americana e padre giapponese. È anche per questo condannato a non salirci ai piani alti; in Giappone vige la religione dei protocolli, religione di cui Nishida non è un seguace: egli appartiene alla strada. E Takeshi ha anche ereditato i tratti caratteriali della realtà occidentale, tratti che lo rendono spesso impulsivo, poco accomodante e disincantato verso quella dimensione che lo circonda e che lo vorrebbe esattamente al suo contrario.
«Negli ultimi vent’anni si era fatto un nome risolvendo casi complicati e mettendo dentro non pochi delinquenti, nonostante a volte per ottenere risultati avesse dovuto usare metodi poco ortodossi. Il che purtroppo, unito alla sua abitudine estremamente non giapponese di dire in faccia alla gente come la pensava, non andava molto a genio ai suoi superiori. Anzi, ai suoi superiori non andava a genio per niente.»
Bastano pochi rilievi per appurare che oltretutto quell’ombrello appartiene alla persona più impensabile: l’Imperatore. Ma com’è possibile? E a chi appartiene quell’altro piccolo tratto di impronta digitale che dalle analisi risulta essere presente sullo stesso? Per il Tommy Lee Jones che è Takeshi, che sovente è stato paragonato a questo personaggio stante i suoi tratti particolari che lo rendono molto avvenente, avrà inizio una indagine atta a cercare di scoprire la verità in quella che è una morte tutt’altro che chiara.
A far da sfondo una Tokyo che non dorme mai e che ci viene proposta in una serie di tinte e retroscena, luci e ombre, che per mezzo di un protagonista che per il suo sangue misto riesce a far da ponte, scopriamo in modo completamente diverso. Tra le pagine dell’opera, inoltre, oltre all’indagine verrà quindi ritratta una perfetta fotografia della società giapponese a cui si affiancherà anche la trattazione di una serie di tematiche molto attuali e a noi vicine che non anticipo essendo collegate alla risoluzione dell’enigma che ci accompagna nel giallo.
«L’ispettore ne aveva viste abbastanza da sapere che la più grande oscurità è spesso nascosta alla luce del sole, ma in quel caso gli risultava difficile credere di avere di fronte un assassino.»
Quello di Tommaso Scotti è un esordio molto interessante che propone al lettore un protagonista che entra subito nelle sue simpatie e che con rapidità coinvolge e trattiene. Il conoscitore è incuriosito dalle vicende, affascinato dalla cultura nipponica e da questa figura dai tratti fisici appena tratteggiati eppure così vivida nella mente per carattere e determinazione. L’opera è inoltre ben strutturata. Parte da presupposti ben elaborati e a questi ne aggiunge altrettanti che rendono la narrazione più stratificata e l’enigma più articolato da risolvere.
Lo stile è fluido, rapido, limpido. Accompagna per mano, conduce senza difficoltà.
Un esordio, “L’ombrello dell’imperatore” che ci presenta un autore che tornerà ancora a far parlare di sé, che non vedo l’ora di rileggere e che sarà un piacere approfondire ulteriormente.
«C’è la nostra anima qui dentro, ed è un’anima di acciaio. Questa vite è il nostro testamento imperituro in un mondo usa e getta.»
Maria Darida - 3 anni fa
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L'amica geniale - Elena Ferrante
Anni 50. Lila Cerrullo, classe 11 agosto 1944, e Elena Greco, classe 15 agosto 1944, vivono in una Napoli ancora provata dagli anni della guerra, una realtà ancorata ai vecchi principi e per questo poco incline al cambiamento. Lenù e Lila conoscono la povertà, conoscono il sacrificio ed il prezzo di quella società fondata sul “faticare” dove studiare è solo un corollario aggiuntivo e superficiale che non deve sostituirsi mai al lavoro, cardine essenziale e primario di ogni uomo.
Ed è in questo contesto che nasce la loro complessa amicizia; un rapporto di amore-odio, di invidia e di compensazione, di competizione e di limite, un legame stratificato e corroborato di così tante sfumature che è impossibile descriverlo a parole. Le vite delle due protagoniste scorrono parallelamente sino al termine delle classi elementari; ove a ognuna è concesso il diritto di andare a scuola ad imparare a leggere e a far di conto. Entrambe sono molto brave, ma Lila spicca di quella intelligenza mixata ad un carattere ribelle che mai Lenù, al contrario diligente e retta, avrà. E tanto sono diverse caratterialmente, tanto lo sono fisicamente, queste due eroine. Se la Greco è bionda, prima più alta e ciocciotta, di poi con l’adolescenza più bassa e formosa, Lila è dapprima bassina, magrissima e ossuta, di poi alta, slanciata e fortemente desiderata. Giunte al termine delle classi primarie, inevitabile la separazione. Vani i tentativi della maestra Oliviero di convincere i rispettivi genitori a far studiare le sue pupille. Lila deve rimboccarsi le maniche, è la risposta. I soldi servono. Elena, dopo molte azioni di persuasione, potrà al contrario continuare. E sarà così brava, così meticolosa da riuscire non solo ad ultimare le scuole medie ma ad intraprendere gli studi presso il liceo classico ove si distinguerà per essere la migliore; risultato che conseguirà, paradossalmente, proprio grazie al contributo indiretto dell’altra che privata della possibilità di continuare ad apprendere – lei che è una spugna mossa da insaziabile curiosità – imparerà, mediante i testi della biblioteca – da autodidatta non solo il latino ma anche la lingua greca.
Più passano gli anni e più quel sentiero intrapreso, quella via comune, si allontana e riavvicina, si intreccia per poi nuovamente riallontanarsi. Lenù, per la formazione ricevuta, non può più rivedersi negli amici del Rione, ma non può non rispecchiarsi in Lila suo antecedente necessario. Quest’ultima all’opposto, per fuggire alle attenzioni di Michele Solara, camorrista, decide di legarsi sentimentalmente a Stefano, il salumiere figlio di Don Achille; scelta questa che la segnerà indelebilmente.
Quelle che abbiamo davanti con l’opera della Ferrante sono pagine pulsanti, un fiume palpitante di parole che rende concrete Elena, l’amica geniale capace di coadiuvare intelligenza e volontà, e Lila di fatto la più dotata, considerata la più cattiva eppure oggettivamente colei che maggiormente sente il peso dell’ambiente, della famiglia, di una bellezza non richiesta che cerca di offuscare quella mentale, quella che non sa liberarsi degli altri per emergere, quella che invita l’altra a studiare sempre.
«”Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare”
“ Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito”
“No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre”
Feci un risolino nervoso, poi dissi:”Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono”
“Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine”». P. 308-309
“L’amica geniale” non è però soltanto il racconto di questa particolare amicizia, “L’amica geniale” è un elaborato che narra di una società, quella napoletana negli anni successivi al conflitto, è uno scritto che descrive i rapporti umani, che analizza la dimensione del quartiere, che scarna il binomio povertà-ricchezza, che si incentra sull’ingerenza pregnante dei genitori sui figli; un’influenza talmente forte da determinarne le sorti (basti pensare alla madre di Elena che prima la denigra perché studia, poi le rinfaccia di mescolarsi alla “feccia” dopo i sacrifici fatti per farle prendere il titolo). A contorno delle due figure principali, abbiamo inoltre una serie di personaggi secondari tutti accomunati da un denominatore comune: la voglia di riscatto, economico ma anche culturale e morale. La Ferrante sembra voler invitare chi legge a riflettere sulla durezza della vita; che è lotta, emersione, materialità e non materialità. E lo fa senza remore, senza nulla risparmiare. Il tutto è avvalorato da una penna che accarezza, munita di uno stile apparentemente semplice, in verità curato in ogni suo frangente, in ogni suo aspetto.
Primo di una quadrilogia, “L’amica geniale” si dimostra capace di catturare ed affascinare il lettore che giunto a conclusione del romanzo, resta frastornato dal contenuto. Se in di primo acchito il testo può sembrare una storia semplice, con un’analisi più a mente fredda, ragionata, si rivela in tutte le sue sfumature spiazzando. Il finale, in particolar modo, mette il temerario conoscitore in condizione di comprendere quelle che sono le conseguenze ineludibili di una decisione, ormai, chiaramente sbagliata.
Definirlo il migliore della saga, è forse, ad oggi, prematuro, perché si è davanti ad un componimento in crescendo, ma certamente è un libro valido, che merita di essere approfondito e che cattura con la forza della pazienza, della curiosità.
Maria Darida - 7 anni fa
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L'amore ai tempi del colera - Gabriel García Márquez
Utile questo riadattamento per conoscere la storia per coloro che hanno poco tempo ahimè da dedicare alla lettura. Mi piace il genere graphic novel,mi piacciono i disegni e colori che aiutano motto ad entrare nei dialoghi e nell’ambientazione.
Ramona Dinice - 1 anno fa
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