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L'idiota - Elif Batuman
Selin è una studentessa diciottenne di origini turche. È il 1995, è appena arrivata ad Harvard e per lei, come per tutti i suoi colleghi di studio, il mondo digitale è un qualcosa di sconosciuto. Le mail, anzi le e-mail con la e marcata, sono un qualcosa di completamente nuovo tanto che riceverne una preimpostata al suo arrivo in facoltà la destabilizza. Una prima novità, questa, a cui si sommano codici e rigidi schemi universitari a cui è chiamata a conformarsi. Il suo modo di approntarsi alla vita che le scorre accanto è quello dettato dall’osservazione mediante una lente di ingrandimento, una lente di ingrandimento totalmente improntata su quella che è la letteratura tanto che per cercare di tradurre tutti questi nuovi elementi che riscontra, si iscrive a cinque corsi tra loro diversi tra cui linguistica, filosofia del linguaggio, russo, “mondi costruiti” (dove le mail, anzi e-mail, verranno per utilizzate nel concreto). Viene però esclusa dalla possibilità di suonare il suo violino nell’orchestra del college, circostanza, questa, che la demoralizza, la disincanta. Il suo sogno, ancora, è scrivere e diventare una scrittrice.
Essendo una principiante con la lingua russa le viene consigliato di leggere un libro al presente e senza particolari coniugazioni verbali (in particolare il congiuntivo viene evitato come la peste) che narra di una donna chiamata Nina che parte per la Siberia alla ricerca di Ivan. I giorni scorrono e le coincidenze fanno sì che la stessa incontri il suo, di Ivan il quale è uno studente ungherese di matematica con cui la diciottenne costruisce il suo mondo di missive elettroniche e di inganni che la porteranno, infine, a partire per l’Ungheria ad insegnare inglese e ad illudersi di un amore falsamente dipinto.
Lo scritto ruota interamente attorno a quel tarlo dell’individuare la propria strada nella vita che attanaglia un po’ tutti nel percorso di crescita. A questo si sommano speranze, illusioni e una forza delle parole che non riesce nei suoi intenti fallendo inevitabilmente. Eppure, nonostante questo personaggio ben costruito e interessante, nonostante questa morale forte e solida e a questo linguaggio preciso, meticoloso, erudito, dettagliato, l’elaborato risulta privo di qualcosa, e quel qualcosa, è l’empatia. Pagina dopo pagina il conoscitore quasi si sforza di andare avanti, è sempre tenuto a distanza e mai è coinvolto emotivamente dalle vicende. Forse per rendere più concreta la dimensione di Selin e della sua ricerca di parole, l’autrice, si concentra talmente tanto su queste e sulla loro ricercatezza perfetta, da tralasciare tutto il resto. Ed è un peccato perché il libro nella sua essenza non è affatto scontato o banale, anzi, è intelligente e arguto. Purtroppo però si fatica non poco ad ultimarne le vicissitudini.
Fortemente autobiografico e tratto da un manoscritto giovanile che viene ripreso dopo due decenni di sospensione, “L’idiota” fatica a convincere risultando farraginoso, incompleto, freddo.
Maria Darida - 4 anni fa
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L'imperfetta - Carmela Scotti
«Per difendermi lascio andare tutto ciò che di me è duro, denti, schiena, pugni, piedi e divento acqua che non si può trattenere. Da quanto la mano prende la rincorsa e colpisce? Un’ora, due, tre, quattro? Qui sotto anche il tempo ha i piedi legati ai ceppi. Vorrebbe andare e inciampa, ricade, a volte si rialza a volte no. Ha il passo ubriaco, ha il passo arrugginito, si piega in avanti, ha catene legate a caviglie invisibili. Il tempo si arrende, non passa ma cade, e quando il cuoio scende sulla pelle sembra rotolare da una montagna altissima, e tutto dura anni, rallenta, si ferma; sulle ferite si formano croste dure e marroni» p. 48
Dolce Catena ha appena quindici anni quando le sue mani sono costrette a macchiarsi di sangue. Ella non è una semplice adolescente, la vita l’ha costretta a crescere in fretta; da quando infatti il padre è venuto a mancare si è modificato anche l’equilibrio degli affetti che regnava in casa talché la giovane è stata trascinata in una spirale di inesorabile dolore. Vittima della brutalità di uno zio che non si è accontentato di entrare nel letto della madre - donna incapace di donare amore perché accecata dall’odio - oltreché figlia reietta e odiata perché colpevole di aver attirato le attenzioni di quell’uomo, questa poco più che bambina, rifiuta di spezzarsi alle intemperie, non si arrende. Ha voglia di vivere, ed è disposta a tutto pur di riuscirvi. Nella sua mente aleggia il ricordo di Giovanni, genitore che le ha insegnato a leggere nonché a trarre beneficio ed arte dall’uso delle piante che la natura offre all’attento conoscitore, in lei vive la speranza. Ecco perché, dopo aver scoperto che la notte può fare paura anche tra le mura della propria casa, si ribella a chi dovrebbe amarla ma non lo fa. Determinata fa sentire la sua voce, si oppone alla condizione di tormento in cui verte anche se questo significa attirare su di sé nuovo odio, anche se questo significa passare da un disprezzo ad un altro.
Carmela Scotti ci trasporta con le sue parole nella Sicilia magica delle leggende e delle tradizioni del XIX secolo, ci rende omaggio di un’opera capace pagina dopo pagina di commuovere, far soffrire e riflettere. Perché le sofferenze di questa giovane protagonista, non giungono al loro culmine con un atto di ribellione, anzi, si protraggono senza sosta per tutta l’esistenza della “malava”. Catena è un personaggio che vive in un mondo fatto di violenza, in una realtà in cui deve essere forte, dura e se necessario anche spietata perché nessuno le riserverà mai una carezza. Non sa cosa significa essere amata, ne amare. Nessuno glie lo ha mai insegnato. L’unico gesto di affetto e di protezione lo ha ricevuto da quella figura paterna che troppo presto l’ha lasciata. Eppure, paradossalmente, Catena, ama e a dona quel suo amore a terzi.
L’Imperfetta è un romanzo che nulla risparmia al lettore, è un elaborato in cui si alternano il presente ed il passato; la vita della donna si ricompone infatti un intervallo dopo l’altro, veniamo a conoscenza, cioè, di quello che è stato e di quello che è divenuto il suo futuro, un passo alla volta, piano piano. L’autrice si concentra in particolar modo sullo stile, dando vita ad un componimento che nella sua crudezza è poetico. Al tempo stesso non manca la forza del contenuto, in particolare, estremamente interessante è tanto la descrizione del tormento vissuto dalla “strega” nelle carceri tanto quello determinato dall’ambiente familiare e naturale circostante.
«Ci sono dolori che nessuna erba del campo può guarire. Io sono nata da una radice di dolore, la felicità non so com’è fatta, se ha faccia, mani o bocca per parlare. Ci sono dolori che non si rompono, che sono duri più delle montagne, e se incontrassero la felicità, la schiaccerebbero come una formica» p. 134
«Volevo che la pagnotta mi insegnasse ad aspettare, a fare senza, a calmare il respiro, ad avere la disciplina che serve per non morire domani. Se non avessi imparato a fare a meno, a riempire l’attesa con il desiderio disperato, non sarei durata un giorno di più, sarei morta all’ombra della prima mancanza. Perciò sedetti di fronte al pane e lo pensai senza toccarlo, fino a quando la fame mi consumò tutta, come un moccolo di candela» p. 136
Maria Darida - 6 anni fa
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L'imperfetta meraviglia - Andrea De Carlo
Nick Cruickshank non può fare a meno di chiederselo: perché la meraviglia è imperfetta? Tutto nasce per gioco, il pensiero si sviluppa infatti a seguito di quella improbabile ed inaspettata consegna di gelato da parte di un’altrettanto improbabile ed inaspettata gelataia di nome Milena, proprietaria appunto, dell’omonima gelateria “La Merveille imparfaite”. E cosa può rispondere l’italiana se non la pura e semplice verità? E cioè il fatto che la meraviglia non può essere perfetta “perché non dura”?
Ma andiamo con ordine. La Provenza è lo scenario dove le vicende si sviluppano. Milena, di sangue italiano, ha lasciato la sua terra natia per seguire Viviane, massaggiatrice posturale. Dopo un periodo di incertezza e di arrangiarsi ha aperto la sua attività ed ora vive per questa: non può non preparare le sue leccornie, non conta se la stagione turistica è o meno giunta al termine, ella deve sperimentare, provare, creare nuovi sapori. Non vuole dar vita ad una moltitudine di nuovi gusti, la sua filosofia è “pochi ma buoni” perché il piacere deve arrivare ad ogni boccone, ad ogni assaggio. I suoi dolci devono avere la giusta cremosità e devono essere intrisi della sperimentazione, non devono e non possono limitarsi alla mera ricetta, al seguire meticolosamente uno schema. Se così fosse sarebbero impersonali, non avrebbero quella caratteristica che li diversifica. Sarebbero uguali, piatti, grigi, vuoti.
Nick, leader e frontman dei Bebonkers, è al suo terzo matrimonio. E’ un uomo giunto all’età dei perché. E’ un artista, ha voglia di mettersi in gioco, ha desiderio di verità, di confronto. Elementi questi che, per un verso o per un altro, gli sono privati. La sua quotidianità si basa sullo sfarzo, sulle apparenze, sulla stereotipizzazione: la sua stessa musica non è più libera di essere se stessa. I fan si aspettano quello stile, quelle arrabbiature, quelle urla delle origini e non ammettono cambiamenti. E’ insoddisfatto, paranoico, alla ricerca di sé ed ha costante bisogno di attenzioni.
Entrambe i personaggi sono ad un bivio: mentre Nick vive in questo costante status di inquietudine, Milena è alle prese con un rapporto in crisi, un rapporto che non sa se è giunto al capolinea o se al contrario è ancora capace di “darle emozioni”. Il fatto è che la sua compagna le ha chiesto un figlio. Ma non è una scelta libera nel senso che la protagonista è spinta in una morsa di ricatti interiori propri e dalla compagna che la confondono, le fanno perdere la rotta. Tutto questo programmare, il continuo rimarcare che Milena deve un figlio a Viviene perché quest’ultima contribuisce in modo maggiore alle economie della famiglia, perché erano i piani, questo continuo contestare la gelateria della donna, non sono altro che tasselli che si sommano alle già altre perplessità dalla medesima provate. Si chiede, infatti e a più riprese, perché il loro amore, che alle origini era spontaneo, senza pretese, libero, non oppressivo, adesso si ritrovi ad essere costrittivo e vincolante, più che delle precedenti relazioni eterosessuali avute. Non aveva deciso di chiudere con gli uomini proprio per non dover essere sempre soggetta a richieste di prole e quant’altro avesse a che fare con questo universo? Ma allora perché adesso si ritrova in una situazione addirittura più stressante di quella in cui originariamente era?
Con una narrazione caratterizzata da un alternarsi di voci, “L’imperfetta meraviglia” è un romanzo che suddiviso nell’arco di poche giornate racconta dell’imperfezione. Perché è innegabile che ognuno di noi abbia compiuto e compierà errori, eppure, talvolta un incontro causale può cambiare le carte in tavola, sconvolgere esistenze parallele. Ed è nel non essere perfetti, nella nostra impossibilità di scegliere quando di fatto la vita decide per noi, che si nasconde l’essenza di un romanzo che ci sussurra alle orecchie “la vita è breve per sprecarla a realizzare sogni altrui”.
Quella presentata è una storia che apparentemente si mostra munita di una trama – passatemi il termine – quasi banale, una storia che sembra avere poco da dire ma che in realtà ha al suo interno una grande consapevolezza. Non è un romanzo semplice da leggere, in più occasioni infatti, nello scorrere delle pagine, viene da chiedersi dove l’autore voglia andare a parare, si percepisce l’essenza di un messaggio che vuol essere trasmesso ma che resta celato tra le parole per buona parte dell’elaborato per, infine, fuoriuscire con tutta la sua forza.
Non solo, De Carlo si perde nella narrazione, spesso asserisce una quantità enorme di dettagli che rischiano di far smarrire le fila, la linea che conduce chi legge sino alla conclusione. Questo fa si che lo scritto risulti essere a tratti lento, farraginoso. Eppure, il conoscitore delle vicende non riesce a staccarsi: si interroga sul quale sia il senso dell’opera, si immedesima tanto in Nick quanto in Milena sino ad emozionarsi nell’epilogo.
In conclusione, “L’imperfetta meraviglia” è un testo che per tutte le sue componenti fa riflettere, fa meditare, sdubbia, emoziona, interroga.
«Sono domande inutili: l’ispirazione arriva o non arriva, l’evoluzione personale segue percorsi non prevedibili, e l’integrità artistica è quasi sempre un atteggiamento, quando non un alibi per falliti. Il meglio che puoi fare è coltivare un’etica da artigiano, essere onesto con te stesso e creare forme in cui possa filtrare della luce, con miracolosa infrequenza; l’alternativa è lasciar perdere tutto, sparire. Se non ci riesci, o non vuoi, per lo meno non stare a lamentarti, risparmiati le lagne e le autocommiserazioni, grazie tante.» p. 104.
Maria Darida - 6 anni fa
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L'informatore - John Grisham
La trentaseienne Lacy Stoltz, single in carriera presso la Commissione disciplinare Giudiziaria, la cd CDG, ed il collega Hugo Hatch sono chiamati, in questa nuova avventura proposta da John Grisham ad affrontare un caso senza eguali per la loro sezione. Tutto ha inizio quando un uomo, dal nome fittizio Greg Myers, mettendosi in contatto con i medesimi dichiara di voler sporgere, per poi di fatto sottoscrivere, una denuncia contro la Giudice Claudia McDover, magistrato statale chiaramente corrotto ed in contatto con Vonn Dubose, apparentemente incensurato, di fatto capo di una della bande criminali più prospere e radicate della Florida, la cd. “Mafia della Costa”. Quest’ultimo, in particolare, è colui che tiene le fila del clan indiano dei Tappacola, smuovendo per mezzo dei Casinò siti sul loro territorio, contanti, immobili nonché proventi illegali di ogni genere e consistenza. Ricavi che spartisce, in buona parte, con la sua giudice personale. D’altro canto, quale miglior modo per ottenere i propri scopi se non quello di avere una donna di legge al proprio servizio, una cinquanasettenne avida e ambiziosa che non si è fatta il minimo scrupolo nei diciassette anni di servizio (dal mandare in carcere un innocente all’intascare mazzette da sperperare con Phyllis Turban, ex compagna di specializzazione, anch’essa come Claudia con matrimoni falliti alle spalle nonché amica intima), pur di soddisfare ogni capriccio? Quarantacinque giorni hanno a disposizione i due avvocati della CDG per svolgere le indagini necessarie a sostenere l’accusa, quarantacinque giorni per raccogliere tutte le prove possibili prima dell’insabbiamento, prima che la McDover smuova i suoi legali nonché trasferisca i suoi capitali, prima che Dubose si allerti ed entri in scena.
E più i due legali vanno avanti nel dissotterrare misteri e più le circostanze si fanno pericolose. Hugo ne pagherà, a caro prezzo, le conseguenze. Ormai il vaso di Pandora è stato scoperchiato, Lacy non può far altro che andare avanti e rendere giustizia a chi per troppi anni se ne è visto privato.
Con “L’informatore”, Grisham si diletta a solleticare la curiosità de lettore con un caso che abbraccia tanto la figura degli avvocati quanto quella della corruzione dei garanti della giustizia. Seppur segua la linea classica presente nei suoi romanzi, in questo capitolo, sin dalle prime battute, constata e presuppone della colpevolezza del magistrato, tanto che l’enigma si fa avvincente ed appassiona, da un lato, per quel che riguarda il modo in cui la CDG riesce ad incastrare “i cattivi” e, dall’altro, per quel che ruota attorno alla figura dell’informatore, “talpa” che non fa altro che utilizzare Myers, e un ulteriore soggetto, quali portavoce, essendo la sua posizione talmente vicina alla McDover da non poter far altro che adottare ogni livello di prudenza. Di conseguenza, il lettore, conoscendo sin dal principio del caso da risolvere e delle problematiche relative, non viene affascinato dallo sviluppo di questo, bensì dall’azione delle varie squadre d’azione coinvolte.
Stilisticamente l’opera è rapida, si legge in meno di due giorni facendosi apprezzare tanto per l’intreccio narrativo quanto che per l’enigma. Contenutivamente risulta però essere “sottotono” rispetto agli altri scritti dell’autore, risulta cioè essere privo di quel quid pluris che generalmente lo contraddistingue.
In conclusione, una lettura piacevole, non impegnativa con cui trascorrere ore liete, ma nemmeno eccelsa ed indimenticabile.
Maria Darida - 5 anni fa
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L'inverno di Giona - Filippo Tapparelli
Non ha ricordi della sua infanzia Giona. Nemmeno uno. È consapevole di esser stato bambino ma la sua memoria è ferma ai giorni del presente o a quelli del passato prossimo. Vive in un tempo immobile dove i rammenti non esistono, dove non esiste un prima e dove la sua unica eredità è un logoro maglione rosso rattoppato che ha mutato la sua forma in funzione della sua crescita. Ha quindici anni, Giona. Vive con Alvise, un uomo che riveste la funzione di padre e nonno e che lo educa in modo austero, con la violenza, con il dolore, con il castigo. Perché questo è l’unico modo di apprendere, l’unico modo di far propria la conoscenza.
«Hai sbagliato e queste sono le conseguenze. Lo sai benissimo. Io ti spiego come fare ma tu continui a sbagliare. Non impari. Ecco perché ti punisco. La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. Deve essere così. Diffida da chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica.»
Anche i corpi raccontano una storia, l'una di precisione e di esattezza, di controllo, l'altra una di insicurezza, sottomissione, asservimento. Mentre Giona ha i capelli color iuta, il torace sottile, le gambe magre e lunghe, il collo e spalle spioventi, il vecchio ha capelli candidi, senza interferenze di grigio, mani grandi ma non sproporzionate, giuste per torcere la legna o insegnare, un corpo robusto quel tanto che basta a compiere i vari lavori e a incutere timore. Non solo nel nipote, ma in tutto il paese. Perché tutti, indistintamente, temono l’anziano. Tutti, indistintamente, si piegano al suo volere.
«Perché non hai portato il maglione di sopra, Giona? mi chiede di nuovo. […] Guardami, Giona. Ora ti insegnerò cosa è il freddo e cosa è una scelta. Brucia il maglione nella stufa o lascialo dov’è ed esci da questa casa. […] È facile, Giona. Butta il maglione nella stufa o vai fuori di qui. La sua voce è diversa. Più affilata. Se avesse un colore sarebbe grigia come la lama del suo coltello. “Non sai cosa fare, Giona? È facile. Brucia il maglione, ha detto il vecchio. Brucialo e accucciati per terra vicino alla stufa. Almeno ti scalderai ancora per qualche ora, fino a quando non si raffredda. E domani ci penserai”. Ma così lo perderò e avrò freddo per sempre. “Allora esci dalla porta, passa la notte al gelo e spera che domani gli sia passata. Spera che ti faccia ritornare a casa, spera che ti ridia il maglione. Ma non hai nessuna certezza che lo farà. Quale delle due cose è quella giusta, bambino?” Non so.»
Voce, che cosa devo fare? Voce, taci. Madre, dove sei? Padre, perché non vi trovo più? Mi sono allontanato soltanto per far pipì. Carbone, cosa ci fai qui micio? Scappare. Scappare da quelle punizioni, affrontare il passato, ricordare.
«I ricordi fanno male ma non uccidono, Giona. Sei stato coraggioso. Sei ancora vivo.»
Chi sei davvero Giona? Sei sicuro che questo sia il tuo vero nome? Un medico, un ospedale. Ciao Luca. Cos’è davvero l’inverno di Giona?
Una narrazione serrata, forse poco fluida, allucinata e capace di trasmettere la sensazione di trovarsi in una dimensione temporale sospesa, isolata, a sé, è il teatro in cui, per mezzo di un paese a ridosso della montagna le cui fondamenta sembrano sgretolarsi e in cui il confine tra verità e finzione è labile, sottilissimo, le vicende prendono campo. Il lettore è condotto per mano, è costretto a confrontarsi con un mondo fatto di violenza, cattiveria, brutalità, un universo privo di affetto alcuno, privo di ogni manifestazione positiva del sentimento. È costretto a confrontarsi con una stagione aspra e dura, metaforicamente e non. Ciò, almeno, sino all’ultima sezione, una discesa che dagli inferi in cui ci eravamo precedentemente calati, ci riporta alla dimensione del presente, a scenari completamente diversi ma comunque non meno aspri, tormentati, angoscianti e veritieri, a nuovi salti temporali, a nuove voci, nuovi protagonisti; una chiusa che ci porta capire cosa davvero è accaduto, qual è la verità, chi è davvero il personaggio principale e quale sia l’inverno che noi, insieme a lui, siamo costretti a fronteggiare. Il tutto sino a giungere ad un epilogo affatto scontato, che rimescola le carte, che sorprende.
Meritatamente vincitore della XXXI edizione del Premio Calvino, Filippo Tapparelli propone al lettore un romanzo fortemente evocativo, ambiguo, dalle atmosfere conturbanti, dai virtuosismi stilistici e dove niente è come appare. Invita il conoscitore a riflettere, lo obbliga a governare emozioni quali ansia e angoscia, a scrutarsi dentro, a indagare nel proprio buio.
Un esordio che ha quale colonna portante una storia insolita che tiene con il fiato sospeso dall’inizio alla fine, ben orchestrata e dal finale inaspettato e che ci permette di conoscere un autore che saprà ancora far parlare dei suoi lavori.
Maria Darida - 3 anni fa
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L'ombra dell'uomo - Jane Goodall
Quando parliamo di scienza siamo soliti considerarla come un insieme di attività di manipolazione, sperimentazione e quantificazione di dati raccolti in laboratorio e difficilmente riusciamo ad assimilarla allo studio del comportamento animale. In questo è consistito il lavoro dell'allora (priva di titoli e dottorati) ventiseienne Jane Goodall, ella ha dedicato la sua giovinezza e tutta la sua vita allo studio dell'individualità degli scimpanzé al fine di identificare la loro storia come specie, ed è per questo che soventemente non le sono stati riconosciuti i giusti meriti del suo operato. L'attribuire un nome ad ogni animale incontrato, l'osservare lo spulciamento reciproco e/o le cure prestate dalle madri ai figli, non è il classico modus operandi delle ordinarie ricerche scientifiche, e pertanto è stato interpretato come uno sconvolgimento delle regole empiriche nonché del contesto sociale ed ecologico che ne caratterizza la vita.
In realtà è proprio grazie a queste meticolose osservazioni che siamo riusciti a delineare i tratti più significativi di questa specie, è solo per merito delle registrazioni, degli appunti presi nella quotidianità animale che siamo arrivati a dire che a quel determinato comportamento corrisponde la situazione/azione x o y. Ed è inevitabile non restare sorpresi quando Mike riesce a conquistare la posizione di maschio alfa non tanto grazie alle sue dimensioni – in realtà modeste tanto che in precedenza ricopriva le ultime fila del branco – bensì squisitamente per la giusta applicazione dell'intelligenza e della capacità di associazione, o ancora come non rivedere in Flo l'atteggiamento di tante madri umane con i loro piccoli e la gelosia dei fratelli e delle sorelle maggiori dinanzi al nuovo arrivato? Questi sono solo alcuni degli esempi che quest'opera ci dona.
Scritta nel 1971 e rivisitata negli anni a venire in relazione all'evolvere delle scoperte conseguite, essa si mostra nella sua più brutale semplicità con l'unico obiettivo di arricchire il nostro animo ed invogliarci alla ricerca. Jane Goodall non fa altro che condividere con noi le scoperte di una vita e senza la pretesa di scrivere un saggio ci spiega con calma e pazienza ogni passaggio, ogni comportamento invitandoci tanto alla riflessione quanto alla stessa osservazione che ha colorato le pagine della sua vita. Un testo ricco, ben articolato, scorrevole e piacevole da leggere. Un romanzo da assaporare con calma e da godersi sotto ogni aspetto e prospettiva. Un testo per il quale è valsa la tanta attesa.
Maria Darida - 6 anni fa
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L'ultimo eroe sopravvissuto - Mark T. Sullivan
Per me questo lbro è scritto male. Forse è la traduzione che fa acqua. La storia in se non è male, ma non arriva ad appassionarmi. Non lo consiglio.
Kristina Wallin - 3 anni fa
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La ballata di Iza
«Possibile che fosse morta anche lei e semplicemente non se ne fosse accorta? Possibile che una persona morisse prima di rendersene conto?»
Con “La ballata di Iza”, Magda Zsabò, dà vita ad un romanzo di grande intensità che si concentra su quelli che sono i rapporti umani e sulla sovente incapacità di essi. Alla base delle vicende narrate vi sono Etelka, un’anziana donna nata e cresciuta in un paesino di provincia, madre di Iza Szòcs, medico reumatologo residente in Pest, Vince, giudice riabilitato marito della vecchia e padre della giovane, Antal, ex marito della figlia e a sua volta dottore e Lidia, infermiera che ha vegliato sugli ultimi giorni di vita del magistrato.
Da una prima analisi l’opera chiaramente tende ad incentrarsi su quel che è il rapporto tra questa madre e questa figlia a seguito della morte del coniuge a causa di un cancro irreversibile. Di fatto, successivamente si stacca da questa visione per abbracciarne una più ampia e su larga scala.
Per non lasciare la mamma da sola, Iza decide di portarla con sé in quel di Pest, luogo dove la collocherà e dove pretenderà, senza rendersene conto, l’impossibile. La giovane assume immediatamente un atteggiamento di controllo verso colei che l’ha cresciuta, la studia come se fosse un caso clinico, si affida ai parametri ottenuti dai vari esami cui costantemente la sottopone, ma mai si interroga sull’agire dell’altra, mai si domanda il perché di certi suoi comportamenti e/o silenzi. Rifugge a essi, rifugge a tutto quel che richiede una valutazione approfondita. Non tollera le sue iniziative, non ha pazienza e silenziosamente la condanna. Perfino il nuovo compagno, Domokos, scrittore, che rappresenta nell’opera colui che è chiamato con le parole a rendere e descrivere emozioni e sentimenti, percepirà sempre, sino al momento conclusivo del volume, la figura della professionista in modo non chiaro quando al contrario, vivo sarà il dolore percepito al pensiero di questa attempata vedova. Tutto quel che viene fatto dall’anziana per cercare di dimostrare il suo affetto, per cercare di rendersi utile in questa realtà in cui dalla mattina alla sera si ritrova, è mal visto dalla dottoressa e, per riflesso, da chi la circonda tanto che, a furia di essere ammonita o brontolata, finisce col perdersi, con il dimenticare chi è. Non sa più pensare, non sa più fare alcunché. Perché i giovani hanno sicuramente ragione, perché Iza certamente sa quel che è giusto e quel che è sbagliato, quel che è corretto fare e quel che non lo è. Capisce di suscitare pena in chi le è accanto, ritiene di rappresentare un peso, vive come se lo fosse e nessuno – tranne forse lo scrittore e Antal che purtroppo risiede in una città lontana – si prefigge di dissuaderla da questa convinzione. Da questo momento le sue giornate sono scandite da solitari viaggi in tram o da lunghe soste nella propria stanza a fissare il vuoto e ad interloquire silenziosamente con il defunto marito.
Nel mentre, Antal, figlio di un acquaiolo, nato dal nulla e cresciuto in collegio grazie alle sovvenzioni di un avvocato che per anni doveva nascondere la propria colpa nella catastrofe che ha determinato il decesso del padre di questo, ristruttura l’abitazione della famiglia Szòcs, luogo che ha acquistato e in cui è tornato a vivere insieme a Capitano, leprotto che ha da sempre accompagnato le vicende dei protagonisti. Alcuno riesce a spiegarsi perché dopo quattro anni di matrimonio abbia deciso di interrompere la sua relazione con la collega. Nessuno è in grado di darsene una spiegazione. Il lettore, pagina dopo pagina arriverà a comprendere quelle che sono le motivazioni, quel filo a cui lo stesso ha dovuto aggrapparsi pur di non affondare, pur di non lasciarsi annientare da questa donna così fredda, maniaca del controllo, autistica alle emozioni, anaempatica, egoista. Perché Iza è una donna altruista solo in apparenza. I suoi gesti di cura, aiuto e apprensione verso il prossimo non sono mai mossi da uno spirito di autenticità, i suoi comportamenti, le sue imprese, parole e azioni sono sempre ponderate, calibrate al dettaglio, esposte in funzione di quel che l’interlocutore materialmente è dovuto a sapere. Cercherà anche, l’uomo, di salvare la cara mamma a cui si è affezionato nel tempo e da cui ha odiato distaccarsi col divorzio, ma sarà ormai troppo tardi. Perché quella sete di Etelka non può in alcun modo essere placata. La sua è una sete, inarrestabile, descritta con grande forza nel capitolo intitolato, appunto, “Acqua”. Ancora, a niente è servito il richiamo di Iza, ormai è troppo tardi, la sua è una ballata che non può che essere condotta che in solitudine.
Suddiviso in quattro grandi capitoli intitolati “Terra”, “Fuoco”, “Acqua”, “Aria” e caratterizzato da uno stile limpido, forte, duro, che trafigge chi legge trasmutandolo nella dimensione descritta, Magda Szabo dona al conoscitore un testo di grande empatia e contenuto, un volume che si percepisce con mano e che seppur in modo diverso rispetto a “La porta” resta indelebile nel cuore e nell’animo di chi legge. Potrei dire ancora molto, su questo elaborato, ma decido volontariamente di fermarmi per non rovinarvi il gusto di una lettura che sinceramente consiglio.
«Aveva ragione, aveva di nuovo perfettamente ragione, ma le persone anziane hanno passato la vita insieme ai loro oggetti, per loro ogni cosa possiede un valore molto più profondo che per i giovani»
«Ogni giorno si raccontava che Iza non l’aveva lasciata sola nella sua vecchia casa, aveva sistemato ogni cosa al suo posto, le aveva impedito di lavorare, si prendeva cura di lei, la ricopriva di doni. Dopo piangeva, a lungo, piena di vergogna, perplessa.»
Maria Darida - 5 anni fa
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La bambina e il sognatore - Dacia Maraini
Nani Sapienza non è il classico maestro di scuola: egli fa del suo mestiere una missione, una passione, gioia, ed orgoglio.
Il suo primo obiettivo è quello di far riflettere i suoi alunni e per farlo si avvale di favole, di racconti, di miti greci, e si, perfino della cronaca nera. Quest’ultimo elemento, in particolare, lo porta a suscitare molteplici malumori, tanto dei genitori della città di S., quanto della preside. La morte di Martina, inoltre, la figlia di otto anni, venuta a mancare a causa della leucemia, è una ferita ancora aperta, è una ferita che ha provocato la pausa del suo matrimonio nonché l’isolamento, la solitudine. Quando dunque, in sogno, gli appare un’altra bambina con un cappottino rosso, a sua volta di otto anni e con la stessa camminata a paperina della sua piccola creatura, una bambina che guarda caso scopre essere misteriosamente scomparsa durante il tragitto per andare a scuola, per lui non è soltanto un caso, è un segno.
Se avete avuto modo di leggere una o più opere di Dacia Maraini, il primo elemento che sovvenirà alla vostra mente è proprio la grande differenza rispetto a predette. In queste pagine, infatti, non troverete le ambientazioni – né le atmosfere – di Bagheria, di Isolina, e neanche, quelle de “La lunga vita di Marianna Ucria”. “La bambina e il sognatore” è in primo luogo un viaggio introspettivo dove la mente è chiamata costantemente a riflettere, ad aprirsi. L’intento dell’autrice è chiaramente quello di porre l’attenzione del lettore su alcune tematiche di particolare rilevanza sociale, e, così facendo, di indurlo alla ponderazione, a chiedersi “perché” e a darsi una risposta. Il tutto avviene attraverso i pensieri di Nani, mediante i suoi dialoghi con gli studenti e grazie ad una scrittura fluida, costante, chiara, ed attuale; una scrittura che si conforma con l’oggetto del testo distaccandosi ulteriormente dai precedenti lavori. Al dialogo tra il docente e la sua classe si somma anche quello interiore dell’uomo con il suo “uccellaccio”, conversazioni dove il suo animo sognatore e fiducioso si contrappone a quello più pragmatico, cinico e amaro.
Tra le varie problematiche trattate, la violenza sulle donne e quella sui bambini, sono pregnanti. A queste se ne aggiungono altre, quali, il fanatismo religioso nei suoi estremismi, la prostituzione minorile, il turismo sessuale, i rapporti padri-figli. Numerosi anche i titoli presenti atti a consentire, al conoscitore, di approfondire il tema (vedi: “La battaglia di una sopravvissuta contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambine” di Somaly Mam, o ancora, “Io nojoud, dieci anni, divorziata” di Nojoud Ali).
Con “La bambina e il sognatore” Dacia Maraini ci invita a guardare il bicchiere mezzo pieno ma soprattutto a cercare il bene anche quando il male sembra essere onnipresente ed onnipotente, ci invita ad interrogarci prima ancora di interrogare e giudicare, a cercare risposte quando le domande finiscono con l’essere celate, obliate. E’ un elaborato fiducioso quello presentato, uno scritto dove ella ci suggerisce di lasciare ai figli uno sguardo aperto sul mondo (ciò traspare soprattutto dai passi in cui in classe, i piccoli musulmani, rischiano di essere schiacciati dalla mentalità dei padri che esigono che smettano di studiare, che non ascoltino parole diverse da quelle del genitore), un testo forte dove la scrittrice parla alla ragione, da intellettuale, da filosofa, dove senza indugi abbandona il suo stile classico onde consentire alla chiacchierata con chi ha intorno.
In conclusione, disturbante, profondo, riflessivo.
«Spero solo che tu ci rifletta sopra, Ahmed, devi capire da te dove il ragionamento fila e dove diventa ingarbugliato.. me lo fai questo favore? Ci provi a ragionare con la tua testa? Io non ti dico di scegliere fra le cose che dice tuo padre e quelle che ti dico io, ti prego solo di pensare con il tuo cervello, perché tu, come me, come tutti gli altri qui dentro, sei dotato di un motore che funziona perfettamente, e questo motore si chiama mente. E sono sicuro che, come me, come noi, la tua mente conosca il senso della giustizia. Ora ti chiedo: è giusto considerare inferiore un bambino solo perché di pelle nera e di religione diversa, quando sappiamo che quella pelle deriva dalla melanina e non da una cultura inferiore e quella religione ha lo stesso diritto della tua di essere praticata?» p. 93
«Non so quanto resisterò in questo paesino di montagna, mangiando pesce di lago e di fiume, ascoltando i discorsi amari di mia madre, guardandola muoversi come una leonessa in gabbia. Ma pure so che non me ne andrò fino alla fine della vacanza, perché la tenerezza mi prende alla gola; assieme a una pietà rabbiosa, alla voglia di scappare, e anche di abbracciarla e di baciarla su quel collo di tartaruga. Perché so che, come dice lei, questa è l’ultima occasione per starle vicino. E dopo ci perderemo per sempre» p. 172
«Ma lui ridacchia e pretende di esprimere il suo rozzo pensiero che identifica col buon senso, un po’ come il coro che commenta le azioni dei protagonisti nella tragedia greca: si presenta quale assennatezza ma è solo conformismo» p. 221
«E’ consolante per una comunità pensare che la responsabilità stia altrove, che i malandrini non appartengano a quel luogo, e che degli sconosciuti malviventi siano venuti da fuori a uccidere e devastare il povero quartiere innocente. La città intera si considera estranea a questa sparizione di cui ormai non si parla più, ma che pesa sulle coscienze dei più sensibili. Ci si può liberare di un enigma risolvendolo, dicono i saggi, non seppellendolo. Anche se ormai siamo abituati a seppellire tutto, perfino le più schifose immondizie: un poco di terra sopra e buona notte! Ma ogni tanto la terrà si apre e manda fuori un improvviso puzzo di foglia. E i pettegolezzi riprendono» p. 267
Maria Darida - 5 anni fa
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La caduta dei Golden - Salman Rushdie
New York, la famiglia Golden costituita dal padre Nerone (detto Nero) Julius Golden e dai tre figli maschi, due ottenuti dalla moglie più anziana e uno, il più piccolo, di anni ventidue, dalla consorte più giovane, fanno ingresso al Greenwich Village, a bordo di una limousine Daimler, con nuove identità, un passato da dimenticare, alcuna presenza femminile al seguito, e una serie di “golden standard” da rispettare. In merito, chiare sono le indicazioni del genitore: da adesso in poi, mai e poi mai, alcuno di loro avrebbe dovuto far riferimento a quelle origini che si sono lasciati alle spalle. Grazie, infatti, alle loro caratteristiche fisiche, indubbia sarebbe stata la mimetizzazione, basti pensare che Nero con la sua conformazione tozza, i suoi occhi neri, i suoi avambracci da lottatore, i suoi opulenti monili d’oro, i suoi capelli tinti tirati all’indietro, sarebbe potuto passare tranquillamente tanto per un inglese, quanto per un immigrato dell’Europa medio-orientale. Quale luogo migliore per ricominciare, passare inosservati e dimenticare? Quale luogo migliore per lasciarsi alle spalle quel passato triste che ha avuto inizio in India, in quel di Bombay, luogo dove nella notte tra il 26 e il 27 novembre 2008 i terroristi musulmani di Lashkar-e-Taiba, l’esercito dei Giusti, provenienti dal Pakistan nello scagliare i loro attacchi prima contro la stazione ferroviaria nota come Victoria Terminus e, di poi, contro il Leopold Café a Colaba, contro l’Oberoi Trident Hotel, il Metro Cinema, il Cama and Albless Hospital, la Jewish Chabad House e il Taj Mahal Palace, per quelli che furono tre giorni di assedio e di combattimento, mieterono, tra le varie vittime, anche la madre dei più grandi giovani Golden?
Spettatore, osservatore, che poi si è conquistato la scena è René, aspirante regista di origine belga, che vuole realizzare una pellicola sulla opalescente famiglia. Con il proseguo delle vicende, il suo ruolo nella narrazione si rinnova tanto da finire con l’essere il detentore della morale del componimento.
Sin dalle prime battute, “La caduta dei Golden” colpisce sia per intenti che per contenuti. Salman Rushdie, ormai settantenne, abbandona in questa opera il suo solito e classico genere per realizzare, per quanto possibile, il sogno del “grande romanzo americano”. E questa volta, a differenza di “Furia” classe 2001, che chiaramente conteneva al suo interno l’impronta del neo arrivato negli states, l’autore dimostra di aver messo radici e, seppur ammetta di non potersi definire un nuovo DeLillo, e seppur ammetta di avere ancora molte lacune su quello che è il pensiero americano, si offre al grande pubblico con la volontà di fotografare il volto, se non altro, di New York.
Con questa breve premessa e con questi punti di partenza, l’anglo-indiano illustra l’eterogeneità della Grande Mela, utilizzando quale strumento narrativo la voce degli immigrati. Questi sono il mezzo attraverso il quale sono delineate le mutazioni del nuovo continente, le evoluzioni che nell’ultimo decennio esso ha avuto. L’elaborato di Rushdie, che ha inizio con l’era Obama, affronta quelli che sono tutti i tasselli di una crescita discontinua, fatta da passi avanti e passi indietro, una maturazione che si fa ancora più frammentaria e incoerente, intermittente, con l’era Trump, presidente delineato come una sorta di Joker e la cui vittoria è prognosticata ancor prima dell’avvento vero e proprio.
Ma badate bene, nonostante il compito auto-assunto dallo scrittore, quelli che sono da sempre gli elementi costituenti la sua poetica non mancano. Non a caso, infatti, viene riscontrata la metamorfosi, la migrazione, il declino, caratteri questi, ricamati in una tela precisa, meticolosa, serrata, che non lascia spazi e che non consente repliche. Se a questo aggiungiamo uno stile opulento, prolisso, costituto da un flusso di pensieri ininterrotti che si mixano e coadiuvano agli eventi, non stupirà il rimando all’opera classica. Veri padroni del testo sono i personaggi stessi: questi tessono, tramano e conducono.
Non solo. Altro obiettivo de “La caduta dei Golden” è quello di far riflettere sulla falsità che ci circonda. E’ come se fossimo serrati da una patina in cui il reale e l’irreale si fondono rendendosi indistinguibili. Chi è che ci governa, quali sono le conseguenze delle scelte politiche, chi è davvero Trump? Perché è così difficile analizzarlo? Cosa ne sarà degli Stati Uniti dopo il suo passaggio? E cosa non va in noi? Perché tendiamo sempre a sottovalutare quella presenza strisciante del razzismo? Perché ammettiamo e consentiamo che dilaghi? Perché ci facciamo trattare come pedine mosse da un Re che ci conduce ai suoi obiettivi e che ci distrae con fantocci di problemi e colpevoli?
In conclusione, un volume che può risultare complesso da leggere per il linguaggio adottato e per la forte impronta americana di cui è intriso, ma che, certamente merita di essere conosciuto e che consente molteplici riflessioni su quella che è la società attuale. Americana, e non.
«Cos’è una vita degna? Che cosa il suo contrario? Sono domande a cui nessuno risponderà alla maniera di un altro. In questi tempi vili, noi neghiamo la grandezza dell’Universale, mentre affermiamo e glorifichiamo i nostri fanatismi locali, sicché non c’è granché su cui andare d’accordo. In questi tempi degenerati, uomini mossi soltanto dalla vanagloria e dal profitto personale – uomini vacui e pretenziosi per i quali nulla è vietato, purché favorisca la loro meschina causa – si proclameranno grandi leader e benefattori dediti al bene comune e accuseranno gli oppositori di essere bugiardi, invidiosi, piccola gente, gente stupida, pesi morti e, con un completo capovolgimento della verità, disonesti e corrotti. Siamo talmente divisi, ostili gli uni agli altri, pieni di santimonia e disprezzo, talmente persi nel nostro cinismo, da chiamare idealismo la nostra pomposità; siamo così disincantati nei confronti di chi ci governa, così pronti a denigrare le istituzioni del nostro Stato che il “Bene”, come termine è ormai svuotato del suo senso e richiede, forse, di essere lasciato da parte per un po’, come tutte le altre parole avventate. “Spiritualità”, ad esempio, “soluzione finale”, ad esempio; ma anche (almeno quando la si applica ai grattacieli e alle patatine fritte) “libertà”».
Maria Darida - 4 anni fa
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