|
Thread |
Order:
Relevance |
Date |
Title
|
RSS Feed
|
The Bourne Ultimatum [Risorsa elettronica] - [un film di] Paul Greengrass
Il migliore rispetto ai primi tre. Inseguimenti senza troppi effetti speciali, trama intrigante e avvincente.
Federico Melillo - 7 anni fa
|
Orfani bianchi - Antonio Manzini
Mirta Mitea, anni trentaquattro, di origine Moldava, è una donna che come troppe altre, ha dovuto abbandonare la propria famiglia e la propria terra natia, per dare un futuro a Ilie, figlio adorato. Le circostanze della vita non solo le hanno prematuramente sottratto la madre, venuta a mancare a causa di un incendio determinato da una vecchia e malridotta stufa, ma l’hanno anche obbligata a chiudere il bambino in un “internat”, un istituto che corrisponde ai nostri orfanotrofi. Ed è così che il dodicenne si ritrova ad arricchire le file degli “orfani bianchi”, ovvero di quei ragazzi che seppur ancora con i genitori in vita sono costretti a crescere da loro distanti perché il dio denaro non perdona, le spese sono tante ma il desiderio di donare un futuro migliore a quella prole apparentemente condannata alla disgrazia e alla fame, non muore mai. Perché, come sempre Tatiana ricordava a Mirta, tu padre, tu madre, “sei il presente” mentre Ilie/figlio “è il futuro”.
Roma. La donna giorno dopo giorno è costretta a rimettersi in gioco passando da lavori quali badante alla signora Olivia, a operaia in una specie di impresa di pulizie per 4,50 Euro l’ora, a nuovamente badante/infermiera della ricchissima signora Eleonora. Il tempo passa e non perdona. Il distacco da quegli occhi neri che ha lasciato in Moldavia non l’abbandonano mai, sente che qualcosa non va, cerca di stare vicino a quell’adolescente abbandonato a sé stesso, tenta ininterrottamente di far sentire la sua presenza nella quotidianità del piccolo uomo ma sa benissimo di non riuscirvi perché migliaia di chilometri li separano e per di più in un’età critica quale quella dell’adolescenza. Nessun padre, nessun nonno, nessuno zio può lenire alla solitudine di quella madre che lotta per un futuro insieme, nessun padre, nessun nonno, nessuno zio, può lenire alla solitudine di quel bambino rinchiuso in una struttura inospitale tra sconosciuti e regole ferree.
E’ in questo scenario che si apre il nuovo romanzo di Antonio Manzini, un elaborato in cui molteplici sono le tematiche che spiccano. L’autore ci pone infatti di fronte a due dilemmi. Da un lato abbiamo quello di queste donne che sono costrette a pagare un prezzo altissimo; quello di lasciare i propri affetti per prendersi cura di quella degli altri. Quanto cosa effettivamente questa scelta? Qual è la vera portata della stessa? Cosa questa realmente comporta? Di convesso il secondo, non meno importante, quesito: gli anziani, quegli uomini e quelle donne che ormai non più autosufficienti finiscono col sentirsi o col diventare un peso per chi hanno accanto, per la società. Sono vissuti come una ingombrante presenza, vivono con la consapevolezza di essere organismi in decadimento, percepiscono il fluire del tempo come una condanna che mai finisce con l’essere espiata. A quando la morte, perché questa sembra non voler sopraggiungere mai? Espressione di detta realtà è Eleonora che, colpita da un ictus, è obbligata alla sedia a rotelle, è tenuta a sopportare sulla sua pelle le mani di estranei, è costretta alla volontà altrui. E’ vita questa? Sembra chiederci.
Due verità drammatiche messe egregiamente a confronto, due vite forse non così tanto agli antipodi.
Non solo, il tutto è trattato nell’atmosfera di un pregiudizio che non muore mai, semplicemente si sposta. E se negli anni settanta/ottanta toccava il popolo italiano del meridione che migrava al nord in cerca di prospettive migliori, negli anni duemila approda allo “straniero” venuto in Italia per “rubare” il lavoro agli italiani, lo straniero che non è visto nella sua singolarità ovvero quale essere umano prima di tutto, ma come insieme: non conta che sia una persona magari buona e perché no, anche di sani principi; esso/essa verrà sempre e comunque etichettato quale colpevole dei più svariati misfatti perché la sua “razza” di appartenenza quella è e quella resta.
Manzini si supera e crea – con una penna nettamente più poetica di quella che abbiamo conosciuto nella serie di Rocco Schiavone – in questo romanzo, un personaggio concreto, tangibile con mano, che suscita empatia in chi legge. E’ uno scritto, infatti, che tocca le corde del conoscitore, che arriva nel profondo e nulla risparmia, tantomeno nel suo epilogo.
«La fame te lo toglie l’orgoglio. E ti toglie l’amor proprio e la dignità. Come si fa a sopportare di essere colpevole di cose che non hai mai pensato? Solo perché altri quelle cose le fanno. Tutti i giorni. E quindi per riflesso le fai anche tu? Sarebbe mai arrivato il giorno in cui sarebbe stata considerata né più né meno che una donna e giudicata per le sue azioni? Fino a quando ce l’avrebbe fatta? [..] Odiava Ciasullo, la signora, i poliziotti e gli occhi degli italiani. Ma non perché la trattavano così, loro erano i vincitori e si sa che i vincitori non provano pietà per i vinti, ma perché con gli sguardi e le parole le riportavano alla mentre sempre quella domanda: fino a quando?» p. 143/144
«Quanto costa questo lavoro, Nina? Il prezzo qual è? E’ alto, te lo dico io. Quello che lasciamo pesa cento volte di più di quello che otteniamo.» p. 171
« Non erano più le sue mani. Dov’erano finite le sue mani? In quale angolo di strada si erano perdute? E se loro avevano dimenticato tutto, perché la sua testa no? Quella era come se fosse passato un solo pomeriggio dall’ultima volta che aveva suonato. La testa non si arrende mai. E’ il corpo che si ferma e ti saluta. E la cosa peggiore era avere la coscienza del proprio decadimento. Della propria disgrazia. Un rumore la fece voltare verso la porta del salone. Ferma e silenziosa, impenetrabile sulla sua sedia a rotelle, c’era la vecchia. Che la guardava. Ma lo sguardo era cambiato, parlava. » p. 181
«”Le mie dita? Ah, si… le dita una volta sapevano suonare.. ora sono un po’ incastrate. Non si muovono come dovrebbero. Faccio fatica. E anche un po’ pena”. La signora alzò appena un lato della bocca. Era un sorriso. Si indicò il petto e poi le mani di Mirta. “Non capisco. Lei? Lei e le mani… le servono le mie mani?” Eleonora ripetè i gesto. Allora Mirta capì. “Lei è… le mie mani?”. La signora Ferlaini Strozzi chiuse gli occhi soddisfatta.»
Maria Darida - 6 anni fa
|
L'imperfetta meraviglia - Andrea De Carlo
Nick Cruickshank non può fare a meno di chiederselo: perché la meraviglia è imperfetta? Tutto nasce per gioco, il pensiero si sviluppa infatti a seguito di quella improbabile ed inaspettata consegna di gelato da parte di un’altrettanto improbabile ed inaspettata gelataia di nome Milena, proprietaria appunto, dell’omonima gelateria “La Merveille imparfaite”. E cosa può rispondere l’italiana se non la pura e semplice verità? E cioè il fatto che la meraviglia non può essere perfetta “perché non dura”?
Ma andiamo con ordine. La Provenza è lo scenario dove le vicende si sviluppano. Milena, di sangue italiano, ha lasciato la sua terra natia per seguire Viviane, massaggiatrice posturale. Dopo un periodo di incertezza e di arrangiarsi ha aperto la sua attività ed ora vive per questa: non può non preparare le sue leccornie, non conta se la stagione turistica è o meno giunta al termine, ella deve sperimentare, provare, creare nuovi sapori. Non vuole dar vita ad una moltitudine di nuovi gusti, la sua filosofia è “pochi ma buoni” perché il piacere deve arrivare ad ogni boccone, ad ogni assaggio. I suoi dolci devono avere la giusta cremosità e devono essere intrisi della sperimentazione, non devono e non possono limitarsi alla mera ricetta, al seguire meticolosamente uno schema. Se così fosse sarebbero impersonali, non avrebbero quella caratteristica che li diversifica. Sarebbero uguali, piatti, grigi, vuoti.
Nick, leader e frontman dei Bebonkers, è al suo terzo matrimonio. E’ un uomo giunto all’età dei perché. E’ un artista, ha voglia di mettersi in gioco, ha desiderio di verità, di confronto. Elementi questi che, per un verso o per un altro, gli sono privati. La sua quotidianità si basa sullo sfarzo, sulle apparenze, sulla stereotipizzazione: la sua stessa musica non è più libera di essere se stessa. I fan si aspettano quello stile, quelle arrabbiature, quelle urla delle origini e non ammettono cambiamenti. E’ insoddisfatto, paranoico, alla ricerca di sé ed ha costante bisogno di attenzioni.
Entrambe i personaggi sono ad un bivio: mentre Nick vive in questo costante status di inquietudine, Milena è alle prese con un rapporto in crisi, un rapporto che non sa se è giunto al capolinea o se al contrario è ancora capace di “darle emozioni”. Il fatto è che la sua compagna le ha chiesto un figlio. Ma non è una scelta libera nel senso che la protagonista è spinta in una morsa di ricatti interiori propri e dalla compagna che la confondono, le fanno perdere la rotta. Tutto questo programmare, il continuo rimarcare che Milena deve un figlio a Viviene perché quest’ultima contribuisce in modo maggiore alle economie della famiglia, perché erano i piani, questo continuo contestare la gelateria della donna, non sono altro che tasselli che si sommano alle già altre perplessità dalla medesima provate. Si chiede, infatti e a più riprese, perché il loro amore, che alle origini era spontaneo, senza pretese, libero, non oppressivo, adesso si ritrovi ad essere costrittivo e vincolante, più che delle precedenti relazioni eterosessuali avute. Non aveva deciso di chiudere con gli uomini proprio per non dover essere sempre soggetta a richieste di prole e quant’altro avesse a che fare con questo universo? Ma allora perché adesso si ritrova in una situazione addirittura più stressante di quella in cui originariamente era?
Con una narrazione caratterizzata da un alternarsi di voci, “L’imperfetta meraviglia” è un romanzo che suddiviso nell’arco di poche giornate racconta dell’imperfezione. Perché è innegabile che ognuno di noi abbia compiuto e compierà errori, eppure, talvolta un incontro causale può cambiare le carte in tavola, sconvolgere esistenze parallele. Ed è nel non essere perfetti, nella nostra impossibilità di scegliere quando di fatto la vita decide per noi, che si nasconde l’essenza di un romanzo che ci sussurra alle orecchie “la vita è breve per sprecarla a realizzare sogni altrui”.
Quella presentata è una storia che apparentemente si mostra munita di una trama – passatemi il termine – quasi banale, una storia che sembra avere poco da dire ma che in realtà ha al suo interno una grande consapevolezza. Non è un romanzo semplice da leggere, in più occasioni infatti, nello scorrere delle pagine, viene da chiedersi dove l’autore voglia andare a parare, si percepisce l’essenza di un messaggio che vuol essere trasmesso ma che resta celato tra le parole per buona parte dell’elaborato per, infine, fuoriuscire con tutta la sua forza.
Non solo, De Carlo si perde nella narrazione, spesso asserisce una quantità enorme di dettagli che rischiano di far smarrire le fila, la linea che conduce chi legge sino alla conclusione. Questo fa si che lo scritto risulti essere a tratti lento, farraginoso. Eppure, il conoscitore delle vicende non riesce a staccarsi: si interroga sul quale sia il senso dell’opera, si immedesima tanto in Nick quanto in Milena sino ad emozionarsi nell’epilogo.
In conclusione, “L’imperfetta meraviglia” è un testo che per tutte le sue componenti fa riflettere, fa meditare, sdubbia, emoziona, interroga.
«Sono domande inutili: l’ispirazione arriva o non arriva, l’evoluzione personale segue percorsi non prevedibili, e l’integrità artistica è quasi sempre un atteggiamento, quando non un alibi per falliti. Il meglio che puoi fare è coltivare un’etica da artigiano, essere onesto con te stesso e creare forme in cui possa filtrare della luce, con miracolosa infrequenza; l’alternativa è lasciar perdere tutto, sparire. Se non ci riesci, o non vuoi, per lo meno non stare a lamentarti, risparmiati le lagne e le autocommiserazioni, grazie tante.» p. 104.
Maria Darida - 6 anni fa
|
Pista nera - Antonio Manzini
Rocco Schiavone, classe 1966, proprio non ce la fa a sostituire la sua amata Roma con i monti Aostini. Da quattro mesi e dodici giorni questi hanno preso il posto della Capitale, comportamento indisciplinato la motivazione ufficiale del suo trasferimento, fisico ma non mentale. Troppa calma, eccessiva tranquillità, un paese dove tutti sono un “po’ parenti”. Impensabile ed inaccettabile per un uomo che come lui appartiene alla città eterna da 46 anni. Gli manca tutto della sua vecchia realtà, della sua squadra originaria. I giorni scorrono lenti tra un panorama e l’altro sino a quando il corpo di un uomo viene ritrovato sommerso nella neve triturato da un “gatto delle nevi”; il Vicequestore avverte immediatamente che si tratta di una “rottura di coglioni di livello 10 cum laude”. L’indagine ha inizio e il funzionario-Manzini non delude le aspettative ponendo in essere un’analisi chiara, concisa, diretta, ed al tempo stesso avvincente.
Il lettore riesce facilmente ad intuire l’epilogo nonché a capire chi ha commesso il fatto di reato eppure non può staccarsi dalle pagine. L’autore, grazie ad una penna accattivante e ad un intreccio narrativo solido, avvalorato dal giusto susseguirsi di elementi e supposizioni, offre un testo genuino, non impegnativo ma curioso.
Un elaborato chiaramente ispirato all’universo Camilleriano ma che sicuramente permette al burbero protagonista di farsi amare e apprezzare dal pubblico. Una buona partenza.
«C’era un poeta tedesco che diceva che il passato è un morto senza cadavere. Non è vero. Il passato è un morto il cui cadavere non la smette mai di venirti a trovare. Di notte come di giorno. E la cosa ti fa pure piacere. Perché il giorno che il passato non dovesse più farsi vivo a casa tua, significa che ne fai parte. Sei diventato passato. »
Maria Darida - 6 anni fa
|
Nel mare ci sono i coccodrilli - Fabio Geda
«E dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei. Ci parlavamo per la prima volta dopo otto anni, otto anni, e quel sala e quei sospiri erano tutto quello che un figlio e una madre possono dirsi dopo tanto tempo. Siamo rimasti così, in silenzio, fino a quando la comunicazione si è interrotta. In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch’io. Non so bene come. Ma lo ero anch’io.»
Il viaggio di Enaiatollah Akbari ha inizio in Afghanistan. Suo padre, camionista, muore durante un trasporto di merci e sua madre, minacciata dai talebani, non ha altra alternativa se non quella di nascondere e poi allontanare il figlio. A seguito della perdita del carico, infatti, i malavitosi, iniziano a perseguitare i suoi cari, membri, tra l’altro, degli hazara, l’etnia di minoranza perseguitata dai pashtun. Ecco perché la donna, per proteggerlo, lo porta – e lascia – in Pakistan, a Quetta, dove prima di andarsene si fa promettere dal figlio tre cose: di non rubare, di non usare le armi e di non drogarsi. Lo invita a seguire gli insegnamenti che ha ricevuto e a non arrendersi, gli sussurra che non può far altro, le circostanze le impediscono di restare al suo fianco. Deve imparare a cavarsela da solo, ma senza dimenticare quella che sino ad allora è stata l’istruzione ricevuta. Passano i giorni, i mesi, gli anni. Enajatollah è costretto a muoversi ulteriormente, a spostarsi di stato in stato, ad abbracciare lavori improbabili, denigratori e comunemente reietti da chi sta meglio, ma deve pur in qualche modo sopravvivere. Nasce in lui il proposito di trasferirsi in Europa, ha saputo che questa terra è molto diversa da quella in cui attualmente vive. Vuole andare incontro alla sua possibilità, è forse, la sua ultima chance. E per raggiungerla, questa terra, affronterà la fame, il freddo, ripetuti soprusi, il mare, la morte, la solitudine. Arriverà a Venezia, a Roma ed infine a Torino dove, grazie ad un amico dei tempi dell’Afghanistan, verrà accolto da una famiglia piena d’amore. Ed è qui che potrà coronare un altro suo grande desiderio: studiare. Negli anni di “pellegrinaggio” da un impiego all’altro, quante volte ha visto bambini andare a scuola, quante volte ne ha visti altri giocare in cortile tra una lezione e l’altra, quante volte ha semplicemente sperato di poter un giorno avere la stessa occasione, la stessa opportunità.
Enajatollah non è un sogno, non è una creazione di fantasia nata dalla fervida immaginazione di Geda.
E’ vivo, studia, e cerca di costruirsi un futuro. Per quanto ambisca a tornare nella sua terra natia, sa che ad oggi questa non ha nulla da offrirle; destina così il suo impegno alla volontà di aiutare, nei giorni che verranno, tutti coloro che sono intrappolati in una società senza speranza, destino, occasioni, in una società dove ciascuno è lasciato a se stesso, in balia dell’ignoto, della criminalità, in una società dove “arrivare al giorno dopo” è già di per se un miracolo.
Quella raccontata dall’autore è una storia che volutamente assume i toni del fiabesco, e lo fa per raggiungere i cuori tanto dei più grandi quanto dei più piccoli. E’ una narrazione che non si propone soltanto di enunciare quella che ormai è divenuta sempre più quotidianità, ma anche di sensibilizzare le menti di chi crescendo nell’agio, non immagina minimamente che esistano anche queste differenti dimensioni. Basti pensare al momento in cui il ragazzo, approdato nella sua nuova famiglia, scopre di avere un letto – e per di più tutto suo – , un tetto sopra la testa e perfino dei vestiti nuovi. Questi sono concetti e oggetti che diamo per scontati, non considerando che invece, per altri, non lo sono affatto.
Maria Darida - 6 anni fa
|
R: Nel mare ci sono i coccodrilli - Fabio Geda
«E dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei. Ci parlavamo per la prima volta dopo otto anni, otto anni, e quel sala e quei sospiri erano tutto quello che un figlio e una madre possono dirsi dopo tanto tempo. Siamo rimasti così, in silenzio, fino a quando la comunicazione si è interrotta. In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch’io. Non so bene come. Ma lo ero anch’io.»
Il viaggio di Enaiatollah Akbari ha inizio in Afghanistan. Suo padre, camionista, muore durante un trasporto di merci e sua madre, minacciata dai talebani, non ha altra alternativa se non quella di nascondere e poi allontanare il figlio. A seguito della perdita del carico, infatti, i malavitosi, iniziano a perseguitare i suoi cari, membri, tra l’altro, degli hazara, l’etnia di minoranza perseguitata dai pashtun. Ecco perché la donna, per proteggerlo, lo porta – e lascia – in Pakistan, a Quetta, dove prima di andarsene si fa promettere dal figlio tre cose: di non rubare, di non usare le armi e di non drogarsi. Lo invita a seguire gli insegnamenti che ha ricevuto e a non arrendersi, gli sussurra che non può far altro, le circostanze le impediscono di restare al suo fianco. Deve imparare a cavarsela da solo, ma senza dimenticare quella che sino ad allora è stata l’istruzione ricevuta. Passano i giorni, i mesi, gli anni. Enajatollah è costretto a muoversi ulteriormente, a spostarsi di stato in stato, ad abbracciare lavori improbabili, denigratori e comunemente reietti da chi sta meglio, ma deve pur in qualche modo sopravvivere. Nasce in lui il proposito di trasferirsi in Europa, ha saputo che questa terra è molto diversa da quella in cui attualmente vive. Vuole andare incontro alla sua possibilità, è forse, la sua ultima chance. E per raggiungerla, questa terra, affronterà la fame, il freddo, ripetuti soprusi, il mare, la morte, la solitudine. Arriverà a Venezia, a Roma ed infine a Torino dove, grazie ad un amico dei tempi dell’Afghanistan, verrà accolto da una famiglia piena d’amore. Ed è qui che potrà coronare un altro suo grande desiderio: studiare. Negli anni di “pellegrinaggio” da un impiego all’altro, quante volte ha visto bambini andare a scuola, quante volte ne ha visti altri giocare in cortile tra una lezione e l’altra, quante volte ha semplicemente sperato di poter un giorno avere la stessa occasione, la stessa opportunità.
Enajatollah non è un sogno, non è una creazione di fantasia nata dalla fervida immaginazione di Geda.
E’ vivo, studia, e cerca di costruirsi un futuro. Per quanto ambisca a tornare nella sua terra natia, sa che ad oggi questa non ha nulla da offrirle; destina così il suo impegno alla volontà di aiutare, nei giorni che verranno, tutti coloro che sono intrappolati in una società senza speranza, destino, occasioni, in una società dove ciascuno è lasciato a se stesso, in balia dell’ignoto, della criminalità, in una società dove “arrivare al giorno dopo” è già di per se un miracolo.
Quella raccontata dall’autore è una storia che volutamente assume i toni del fiabesco, e lo fa per raggiungere i cuori tanto dei più grandi quanto dei più piccoli. E’ una narrazione che non si propone soltanto di enunciare quella che ormai è divenuta sempre più quotidianità, ma anche di sensibilizzare le menti di chi crescendo nell’agio, non immagina minimamente che esistano anche queste differenti dimensioni. Basti pensare al momento in cui il ragazzo, approdato nella sua nuova famiglia, scopre di avere un letto – e per di più tutto suo – , un tetto sopra la testa e perfino dei vestiti nuovi. Questi sono concetti e oggetti che diamo per scontati, non considerando che invece, per altri, non lo sono affatto.
Maria Darida - 6 anni fa
|
L'imperfetta - Carmela Scotti
«Per difendermi lascio andare tutto ciò che di me è duro, denti, schiena, pugni, piedi e divento acqua che non si può trattenere. Da quanto la mano prende la rincorsa e colpisce? Un’ora, due, tre, quattro? Qui sotto anche il tempo ha i piedi legati ai ceppi. Vorrebbe andare e inciampa, ricade, a volte si rialza a volte no. Ha il passo ubriaco, ha il passo arrugginito, si piega in avanti, ha catene legate a caviglie invisibili. Il tempo si arrende, non passa ma cade, e quando il cuoio scende sulla pelle sembra rotolare da una montagna altissima, e tutto dura anni, rallenta, si ferma; sulle ferite si formano croste dure e marroni» p. 48
Dolce Catena ha appena quindici anni quando le sue mani sono costrette a macchiarsi di sangue. Ella non è una semplice adolescente, la vita l’ha costretta a crescere in fretta; da quando infatti il padre è venuto a mancare si è modificato anche l’equilibrio degli affetti che regnava in casa talché la giovane è stata trascinata in una spirale di inesorabile dolore. Vittima della brutalità di uno zio che non si è accontentato di entrare nel letto della madre - donna incapace di donare amore perché accecata dall’odio - oltreché figlia reietta e odiata perché colpevole di aver attirato le attenzioni di quell’uomo, questa poco più che bambina, rifiuta di spezzarsi alle intemperie, non si arrende. Ha voglia di vivere, ed è disposta a tutto pur di riuscirvi. Nella sua mente aleggia il ricordo di Giovanni, genitore che le ha insegnato a leggere nonché a trarre beneficio ed arte dall’uso delle piante che la natura offre all’attento conoscitore, in lei vive la speranza. Ecco perché, dopo aver scoperto che la notte può fare paura anche tra le mura della propria casa, si ribella a chi dovrebbe amarla ma non lo fa. Determinata fa sentire la sua voce, si oppone alla condizione di tormento in cui verte anche se questo significa attirare su di sé nuovo odio, anche se questo significa passare da un disprezzo ad un altro.
Carmela Scotti ci trasporta con le sue parole nella Sicilia magica delle leggende e delle tradizioni del XIX secolo, ci rende omaggio di un’opera capace pagina dopo pagina di commuovere, far soffrire e riflettere. Perché le sofferenze di questa giovane protagonista, non giungono al loro culmine con un atto di ribellione, anzi, si protraggono senza sosta per tutta l’esistenza della “malava”. Catena è un personaggio che vive in un mondo fatto di violenza, in una realtà in cui deve essere forte, dura e se necessario anche spietata perché nessuno le riserverà mai una carezza. Non sa cosa significa essere amata, ne amare. Nessuno glie lo ha mai insegnato. L’unico gesto di affetto e di protezione lo ha ricevuto da quella figura paterna che troppo presto l’ha lasciata. Eppure, paradossalmente, Catena, ama e a dona quel suo amore a terzi.
L’Imperfetta è un romanzo che nulla risparmia al lettore, è un elaborato in cui si alternano il presente ed il passato; la vita della donna si ricompone infatti un intervallo dopo l’altro, veniamo a conoscenza, cioè, di quello che è stato e di quello che è divenuto il suo futuro, un passo alla volta, piano piano. L’autrice si concentra in particolar modo sullo stile, dando vita ad un componimento che nella sua crudezza è poetico. Al tempo stesso non manca la forza del contenuto, in particolare, estremamente interessante è tanto la descrizione del tormento vissuto dalla “strega” nelle carceri tanto quello determinato dall’ambiente familiare e naturale circostante.
«Ci sono dolori che nessuna erba del campo può guarire. Io sono nata da una radice di dolore, la felicità non so com’è fatta, se ha faccia, mani o bocca per parlare. Ci sono dolori che non si rompono, che sono duri più delle montagne, e se incontrassero la felicità, la schiaccerebbero come una formica» p. 134
«Volevo che la pagnotta mi insegnasse ad aspettare, a fare senza, a calmare il respiro, ad avere la disciplina che serve per non morire domani. Se non avessi imparato a fare a meno, a riempire l’attesa con il desiderio disperato, non sarei durata un giorno di più, sarei morta all’ombra della prima mancanza. Perciò sedetti di fronte al pane e lo pensai senza toccarlo, fino a quando la fame mi consumò tutta, come un moccolo di candela» p. 136
Maria Darida - 6 anni fa
|
Mio fratello rincorre i dinosauri - Giacomo Mazzariol
Finalmente il giorno del pareggio era arrivato, il giorno cioè in cui non sarebbe mai più stato in minoranza, in cui avrebbe potuto avere un sostegno morale in una casa fatta di troppe donne (quel maledetto 3-2 proprio non gli andava giù), in cui avrebbe avuto un compagno di avventure, scherzi e baruffe, il giorno in cui semplicemente il suo mitico fratello sarebbe arrivato da non si sa dove per ristabilire l’ordine naturale precostituito per legge, per rendere giustizia a quei poveri membri maschili in minoranza in una famiglia prevalentemente ed inaccettabilmente in mano al gentil sesso. E non sarebbe stato un fratello normale, ma un superfratello con poteri sovrannaturali e talenti inimmaginabili!
Questo era almeno ciò che il settenne Giacomo si aspettava a seguito delle chiacchierate con i genitori e quel pizzico di fantasia che mai manca nelle menti più ingegnose. Non stupisce quindi che, quando quel 7 dicembre, Giovanni, detto Gio, venne alla luce ed iniziò a far parte della vita dei Mazzariol (cognome che in Veneto significa “folletto”), le aspettative del maggiore furono quasi subito disilluse: a dimostrazione di ciò vi era un aspetto simil “cinese” con occhi a mandorla e naso schiacciato, una lentezza di apprendimento che non combaciava con quella che i genitori gli avevano prospettato, e dunque, come non chiedersi “ma quali super poteri ha questo qui”!?
Eppure quella di Giovanni e dei suoi cari non è una storia come tante. Perché Gio è affetto dalla sindrome di Down, una patologia che ha condizionato non solo la sua vita ma anche quella dei suoi cari. E’ una storia di crescita, in cui, tramite le parole di un ragazzo di appena diciannove anni, riusciamo a focalizzare limiti e qualità che ognuno di questi ragazzi ha. Perché tra una pagina e l’altra Jack ci insegna che non è l’avere un cromosoma in meno che ci fornisce quel quid pluris tale da poterci considerare migliori di chi invece ne ha uno in più. Ma “MIO FRATELLO RINCORRE I DINOSAURI” non è soltanto questo. Con detto elaborato l’autore ci descrive con un linguaggio semplice e lineare le abitudini, l’innocenza, la visione del mondo di chi non è colpito da invidia, competizione, e quant’altro. Perché Gio è una scoperta continua, è come un pacchetto di caramelle tutte diverse che devi assaggiare, una dopo l’altra sino a finirle, e soltanto allora, forse, sarai in grado di dire qual è la più buona. E’ un ragazzo che crea con ogni singola persona che gli gravita attorno personalissime storie e mondi diversi. Egli non è matematica, ovvero una formula in cui una volta trovato il procedimento, il risultato è sempre il medesimo, no, lui è “basket”, uno sport in cui una volta che hai fatto canestro non è detto che tu riesca nuovamente a compierne un altro semplicemente replicando i movimenti. Giovanni ha il suo mondo, ha le sue passioni, il suo carattere, i suoi pupazzi preferiti (vedi Rana la rana) e i suoi amati Dinosauri, giocattoli che sono capaci di creare un universo in cui il piccolo si perde, e vive, ed esplora.
Tante sono le parti di questo romanzo che sono capaci di suscitare riflessioni nel lettore. Una delle tante su cui mi sono soffermata è quella relativa a Giacomo e all’evolvere del suo rapporto con Joe. Se infatti durante la fase delle scuole elementari per il bambino avere un fratello Down in casa non è un problema, anzi, è una cosa normale che fa parte di una quotidianità e che anzi lo fornisce di un amico speciale che gli altri coetanei non hanno, durante le scuole medie subentra la paura, il timore di non essere accettato o di essere deriso per questo così atipico membro della casa. E a questa paura si contrappone il senso di colpa. L’adolescenza lo rende insofferente, titubante, insicuro e soltanto lo scontrarsi con il mondo esterno gli permetteranno di maturare e di capire che una persona affetta da sindrome di Down non è motivo di vergogna o scherno.
Semplice, genuino, riflessivo.
«Giacomo… [..] nella vita ci sono cose che si possono governare, altre che bisogna prendere come vengono. E’ talmente più grande di noi, la vita. E’ complessa, misteriosa.. [..] L’unica cosa che si può sempre scegliere è amare, amare senza condizioni»
«Questo perché la sua vita è come un’istantanea. Gio scatta una foto, ci entra dentro e la vive, la tocca, la sporca, magari la straccia, poi ne fa subito un’altra. Tutto si esaurisce nel presente. IN quel momento la cosa più importante era il nuovo regalo, punto»
Maria Darida - 6 anni fa
|
La casa per bambini speciali di Miss Peregrine - Ransom Riggs
A volte è veramente difficile credere a quanto ci viene raccontato, soprattutto se il narrato ha a che fare con la possibilità che esistano terrificanti mostri bramosi di sangue, vendetta e potere. Questo Jacob lo sa molto bene, egli ha infatti per anni creduto che le storie enunciate dal nonno Abraham non fossero altro che le classiche favole inventate dall’adulto per tenere buono il bambino e perché no, svilupparne la fantasia. Ed è solo quando il corpo di Abe viene rinvenuto privo di vita a seguito di quello che viene catalogato come l’assalto di animali selvatici, che il nipote inizia a rendersi conto che forse non tutto quello che aveva recepito dal defunto era menzogna.
Ma c’è soltanto un modo per scoprirlo, ed è quello di recarsi sull’isola. Non sa cosa troverà, sa soltanto che deve andarvi, deve sciogliere la matassa, far luce sul mistero che per anni si è mantenuto intorno a quella figura così cara quale l’ebreo polacco era.
“La casa per bambini speciali di Miss Peregrine” è un romanzo semplice, rapido e stilisticamente fluente. L’idea di partenza è buona così come interessante è lo sviluppo della stessa, due sono però le pecche che ho riscontrato: la prima si sostanzia nel fatto che per circa ¾ del romanzo la sensazione trasmessa dalla lettura è quella di trovarsi di fronte ad una smisurata introduzione, lo scritto incuriosisce ed invoglia chi legge ad andare avanti ma al tempo stesso lo sfianca e lo lascia con un non piacevole retrogusto di insoddisfazione perché l’azione, la svolta nel mistero sembra non arrivare mai; la seconda è determinata dal finale in quanto dopo questo abnorme preambolo l’epilogo giunge in nemmeno 60 pagine e dunque la soluzione all’enigma viene propinata in modo talmente rapido da non essere gustata, apprezzata come altrimenti si dovrebbe. Non solo, è chiaro che il testo nasce quale autoconclusivo e che soltanto quale conseguenza del successo ottenuto l’autore abbia optato per la stesura di un seguito, pertanto questa chiusa di battute poste in essere alla velocità della luce, proprio non va giu.
In conclusione, il primo volume della saga di Ransom Riggs si presenta piacevole ma non eccelso a fronte delle motivazioni proposte, pertanto, se ne consiglia la lettura a chi è in cerca di un libro rapido, con una trama gradevole ed un enigma capace di catturare l’attenzion, ma non impegnativo.
Maria Darida - 6 anni fa
|
Tutte le fiabe - Jacob e Wilhem Grimm
Quante volte ognuno di noi ha sentito pronunciare nella sua vita il caro vecchio e familiare “C’era una volta”? E quante volte ancora questo è stato seguito da una narrazione chiara ed accattivante, avente ad oggetto una trama semplice a sui seguiva una morale altrettanto forte ed il classico lieto fine dove tutti vivevano “felici e contenti”? Sicuramente tutto ciò è dettato dal desiderio dell’uomo adulto di far sognare e far vivere gli anni dell’infanzia nel modo più spensierato possibile ad ogni piccolo della famiglia.
In realtà, però, queste storie apparentemente ingenue, genuine, nella loro versione originale discostano dalle trasposizioni edulcorate di cui sopra. In passato infatti le fiabe avevano lo scopo di educare alla vita, di insegnare al bambino che non sempre le cose vanno come vorremmo, che spesso la quotidianità ci spiazza, ci lascia senza fiato, ma che essenziale è non arrendersi alle avversità, fondamentale è imparare dai propri errori così da essere pronti ad affrontare quelli che saranno i futuri ostacoli. Sicuramente detta impostazione dipende anche dal mutamento sempre maggiore che l’esistenza stessa ha avuto, trattasi infatti, quello in cui predette si sviluppavano, di una fase storica in cui la praticità e la concretezza erano alla base della giornata, non c’era spazio per le frivolezze e/o per le distrazioni. Le ore scorrevano rapide in quelle che erano le fatiche lavorative e domestiche dell’uomo e della donna, per giungere ad un crepuscolo di stanchezza, prole e routine.
Queste novelle, tra l’altro, non venivano concepite esclusivamente per il pubblico infante, soventemente erano destinate anche agli adulti che avevano a loro volta il compito di ascoltare e di trasmettere il concetto della natura umana, per quella che era ma anche integrandola con elementi magici e fantastici. Ecco perché le versioni autentiche delle storie sono spesso più crude e violente, non sono mitigate (basti pensare, ad esempio, che le matrigne di Biancaneve e Hansel e Gretel erano in realtà le loro madri naturali, ma poiché era fondamentale tutelare il ruolo materno, così come era impossibile accettare che una mamma potesse essere malvagia, esse furono tramutate in matrigne). Non solo, gli stessi originari protagonisti non dovevano per forza essere “buoni”, ovvero soggetti immuni dalla malvagità, anzi! Generalmente questi erano proprio giovani maledetti, ragazzi maltrattati e/o abbandonati, uomini che rivaleggiano ed ancora persone spinte da animosità maligne nonché dedite ad abusare del proprio potere.
Nelle versioni prime, non si ha paura di mostrare l’aggressività ne tanto meno si auspica all’oggigiorno consono lieto fine. Questo perché siffatta qualità è propria della natura umana, ne è parte, e negarla, anche se questo può far storcere il naso a molti, sarebbe come smentire una parte di se stessi. A riprova di ciò basti pensare alla fiaba dei piccoli di cinque o sei anni che, nella prima versione, giocano al “macellaio”: mentre uno fa il macellaio, un altro cuoce ed il terzo è il maiale. Il macellaio assale il maiale e gli taglia al gola mentre il cuoco raccoglie il sangue in una ciotola. Viceversa nella seconda abbiamo due fratellini sempre dediti al medesimo gioco. Quello che fa il macellaio sgozza l’altro. La madre sopraggiunta sul luogo a seguito delle urla, colpisce al cuore il figlio rimasto. Il terzo figlio, lasciato dalla mamma per soccorre il ferito, muore annegando nel catino. La donna, realizzata la morte di tutti e tre i suoi discendenti, viene a sua volta a mancare di crepacuore. Chiara è la violenza/aggressività insita nel racconto eppure, nella sua lettura integrale troverete quella che ne è la morale, il suo perché.
Evidente è dunque che tra gli obiettivi dei narratori vi era quello di trasmettere quella che appariva essere la realtà, la concretezza, la verità di una società basata sulla funzionalità, povera e pessimistica. Ma non fatevi intimorire da ciò, né dovete ipotizzare di trovarvi di fronte ad un elaborato horror. Queste favole, dei fratelli Grimm, così come di tanti altri autori, seppur più dure delle versioni che conosciamo, arrivano e sono tutte intrise di etica ed insegnamento proprio perché non ovviano alla verità dei fatti del tempo in cui sono scritte.
Stilisticamente l’elaborato è fluente, erudito, e capace di suscitare molteplici spunti di riflessione. Da leggere e da non sottovalutare.
Maria Darida - 6 anni fa
|
|