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L'ombra dell'uomo - Jane Goodall
Quando parliamo di scienza siamo soliti considerarla come un insieme di attività di manipolazione, sperimentazione e quantificazione di dati raccolti in laboratorio e difficilmente riusciamo ad assimilarla allo studio del comportamento animale. In questo è consistito il lavoro dell'allora (priva di titoli e dottorati) ventiseienne Jane Goodall, ella ha dedicato la sua giovinezza e tutta la sua vita allo studio dell'individualità degli scimpanzé al fine di identificare la loro storia come specie, ed è per questo che soventemente non le sono stati riconosciuti i giusti meriti del suo operato. L'attribuire un nome ad ogni animale incontrato, l'osservare lo spulciamento reciproco e/o le cure prestate dalle madri ai figli, non è il classico modus operandi delle ordinarie ricerche scientifiche, e pertanto è stato interpretato come uno sconvolgimento delle regole empiriche nonché del contesto sociale ed ecologico che ne caratterizza la vita.
In realtà è proprio grazie a queste meticolose osservazioni che siamo riusciti a delineare i tratti più significativi di questa specie, è solo per merito delle registrazioni, degli appunti presi nella quotidianità animale che siamo arrivati a dire che a quel determinato comportamento corrisponde la situazione/azione x o y. Ed è inevitabile non restare sorpresi quando Mike riesce a conquistare la posizione di maschio alfa non tanto grazie alle sue dimensioni – in realtà modeste tanto che in precedenza ricopriva le ultime fila del branco – bensì squisitamente per la giusta applicazione dell'intelligenza e della capacità di associazione, o ancora come non rivedere in Flo l'atteggiamento di tante madri umane con i loro piccoli e la gelosia dei fratelli e delle sorelle maggiori dinanzi al nuovo arrivato? Questi sono solo alcuni degli esempi che quest'opera ci dona.
Scritta nel 1971 e rivisitata negli anni a venire in relazione all'evolvere delle scoperte conseguite, essa si mostra nella sua più brutale semplicità con l'unico obiettivo di arricchire il nostro animo ed invogliarci alla ricerca. Jane Goodall non fa altro che condividere con noi le scoperte di una vita e senza la pretesa di scrivere un saggio ci spiega con calma e pazienza ogni passaggio, ogni comportamento invitandoci tanto alla riflessione quanto alla stessa osservazione che ha colorato le pagine della sua vita. Un testo ricco, ben articolato, scorrevole e piacevole da leggere. Un romanzo da assaporare con calma e da godersi sotto ogni aspetto e prospettiva. Un testo per il quale è valsa la tanta attesa.
Maria Darida - 7 anni fa
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Fiore di fulmine - Vanessa Roggeri
Nora Musa ha appena dieci anni quando la sua vita cambia radicalmente. Cresciuta in un piccolo villaggio minerario sardo, Monte Narba, a cavallo tra il 1800 e il 1900, la giovane ha un carattere irrequieto nonché la tipica tempra testarda e coraggiosa propria della sua famiglia oltre che una meravigliosa chioma bruna e magnetici e profondi occhi verdi, occhi indomabili, i suoi, come la foresta. Uscita prima in cerca della madre Luigia e di poi adirata con lei, la ragazzina, incurante del pericolo della tempesta che sta per sopraggiungere, si allontana da casa avventurandosi per i terreni e i colli limitrofi. E’ qui che il fulmine la colpisce, è qui che la sua esistenza si interrompe. E’ morta Nora, è morta. Di lei non resta altro che un corpicino freddo segnato da quel fiore di fulmine che dal collo alla caviglia l’ha marchiata. Eppure, pochi giorni dopo, Nora si risveglia riscoprendosi, oltretutto, bidemortos; ella è cioè capace di vedere i morti. I suoi fratelli e sua madre non la riconoscono più. Ha perso il calore, il sorriso, è divenuta cupa, taciturna. La cugina di Luigia farà, inoltre, di tutto pur di allontanarla da casa, plagerà infatti la già turbata madre facendo leva sulle superstizioni ed inducendola così a credere di fare il bene della discendente rinchiudendola in un istituto di orfanelle. Questa decisione sarà però fatale non solo le sorti di questa eclettica protagonista, ma anche per i consanguinei che ne pagheranno a caro prezzo le conseguenze.
Passano nove anni. Nora è divenuta una giovane donna dai bellissimi tratti e dai grandi occhi penetranti. Le sue sorti sembrano nuovamente essere state segnate poiché la madre superiora dell’istituto, che mai l’ha stimata e che mai ha apprezzato i suoi pregiatissimi lavori di ricamo, ha ritenuto ottimale, per domare questa sua indicibile tempra, un lavoro di operaia in una tabaccheria del paese con tanto di alloggio in una bettola nota per le scarse condizioni igenico-sanitarie nonché per la tubercolosi che nella medesima è facilissimo contrarre. Peccato però che la suora non abbia fatto i conti con Donna Trinez, la quale avendo notato la bidemortos ha deciso di prenderla con sé…
“Les jeus son faits”. Il destino ha fatto il suo corso, la serva deve adempiere alla missione che le è riservata. Non vi si può sottrarre.
Con questo romanzo Vanessa Ruggeri, ci ripropone un personaggio forte, acuto, solido, senza sbavature, intrigante. Ella infatti ci parla di figure femminili che, sia nelle vesti di serve che di padrone, vengono analizzate nel loro intimo, senza nulla celare al lettore che pagina dopo pagina è sempre più rapito dalle stesse nonché dalle vicende proposte. E seppur lo sviluppo delle medesime sia intuibile, così come il mistero che si cela dietro quell’inspiegabile e caro decesso, l’opera non delude, bensì coinvolge ed appassiona senza difficoltà. Merito questo, indubbiamente da attribuire anche allo stile narrativo adottato dall’autrice, la quale si avvale di un linguaggio pregiato, ricercato, prolisso, ma al contempo fluente e caldo.
“«Gli sciocchi hanno paura di ciò che non capiscono, ecco perché qualche bambina non ha piacere di giocare o parlare con te. Non comprendono che sei un miracolo vivente, un segno della misericordia di Dio.»
«Non sono un miracolo, solo un osso di pesca», la corresse Nora con un’espressione innocente sul viso.
Suor Nicoletta si intenerì. «Si, ma anche l’osso di pesca più duro è capace di germogliare e tu, mia piccola Nora, sono sicura che quando giungerà il tempo diventerai un meraviglioso albero e i tuoi fiori saranno bellissimi»” p. 69
«Già, proprio di foresta stiamo parlando. Il guaio però è che la foresta non la puoi comandare, e nemmeno capire» p. 84
«Non è vero che una donna può non avere potere e libertà», le disse un giorno con tutta la forza del suo spirito. «Il lavoro e l’istruzione rendono la donna libera, nonché una governatrice giusta e generosa della propria famiglia» p. 152
«Ho pensato che le piante di questo giardino potrebbero essere entrate in corrispondenza con certi dolori dell’anima che affliggono chi le ama e ogni giorno se ne prende cura. E’ probabile allora che come naturale conseguenza, i rami, le foglie e le rare infiorescenze mostrino i segni esteriori di quella sofferenza. Ecco perché non riuscite a trovare il male che le affligge: viene da dentro, da recessi che non si possono scrutare» p. 170
Maria Darida - 7 anni fa
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1984 - George Orwell
Scrittore, opinionista, giornalista, saggista nonché attivista politico britannico Orwell è uno degli autori più diffusi ed apprezzati del XX secolo sicuramente ricordato per il contributo dato al filone della “letteratura distopica” spesso utilizzata nella sua lotta contro il totalitarismo. Pertanto, nonostante sia artefice di saggi e romanzi variegati e di notevole spessore, viene soventemente ricordato per opere quali “1984” e “la fattoria degli animali”.
1984 o 2014? Sebbene il romanzo risalga al 1948 rappresenta una delle opere più attuali e concrete del panorama letterario odierno. Affilata e vigorosa l’analisi di Orwell abbraccia numerosi aspetti caratteristici delle società, senza nulla mai lasciare al caso e senza alcunché risparmiare al lettore. Dalla politica, alla teoria delle masse, alle emozioni, alla teoria dei gruppi, all’oppressione determinata dalla leadership estrema, lo scrittore dà vita ad un universo complesso, ricco, veritiero e tangibile con mano. Un universo dove « La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza », dove l’uomo non è altro che una pedina le cui sorti sono rimesse alle arbitrarie decisioni dell’apice. Il protagonista, Winston Smith, è un membro subalterno del Partito, incaricato di “correggere” i libri e gli articoli di giornale già pubblicati al fine di rendere riscontrabili e veritiere le previsioni addotte dal regime; non solo, egli deve modificare la storia scritta contribuendo all’alimentazione della fama dell’infallibilità del Partito stesso. Winston Smith è un bieco strumento in mano al sistema.
Apparentemente un uomo malleabile si rivelerà essere un individuo con forte personalità che mal sopporta le tirannie e le imposizioni del vertice. Affiancato da Julia (la donna di cui è innamorato) ed ingannato da O’Brien, Winston sarà cadrà in balia degli avvenimenti, verrà arrestato e poiché refrattario al condizionamento sociopolitico del Socing verrà reinstruito mediante tre fasi (apprendimento, comprensione ed accettazione) al termine delle quali non avrà altra possibilità che allinearsi al regime.
In conclusione l’opera dell’autore è uno specchio della realtà che merita di essere letto. Per chi fosse interessato Orwell, come molti altri autori, ha lasciato vari carteggi con cui comprendere l’essenza e il “perché” delle sue opere. Ne è un esempio la lettera del 1944 in risposta a Noel WIllmett, che aveva sottoposto allo scrittore la domanda sul se il totalitarismo fosse una prospettiva anche per Inghilterra e Stati Uniti, da cui si evince che George aveva già teorizzato le basi del grido di allarme che a distanza di 4/5 anni si sarebbe tradotto nel romanzo “1984”.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il pigiama del gatto - Ray Bradbury
Finora inedita in Italia, “Il pigiama del gatto” è l’ultima raccolta in vita di uno degli autori più geniali presenti sul panorama letterario. Costituita da 20 storie, a cui si sommano un prologo ed un epilogo; l’opera si caratterizza per l’inconfondibile penna di Bradbury che se da un lato rende omaggio agli autori che da sempre l’hanno ispirato quali Fitzgerald, Poe, Wilde o Melville, dall’altro trascina il lettore nel suo policromatico mondo, un universo fatto di amicizie, paure, panico, delusioni, viaggi nel tempo, amori perduti, incompresi e ritrovati, artisti tanto improbabili quanto sottovalutati resi celebri da inaspettati colpi di scena, senatori ubriachi capaci di giocarsi uno stato dopo l’altro degli Stati Uniti D’America in un casinò indiano, femmes fatales ammaliatrici di emofiliaci scrupolosi in tutto tranne che sul versante femminile. E così tra una pagina e l’altra l’opera si fa divorare rapendo lo sconosciuto avventuriero che si incammina sul sentiero di promesse delineato da Bradbury.
Ciascun racconto ha una sua morale, lo scrittore nell’introduzione ci narra come questi siano stati concepiti, qual è stata la molla che ha ispirato il “demone” inchiodandolo alla scrivania fintanto che la redazione quei pensieri non fosse indelebilmente trascritta su carta. Sono stata colpita in modo diverso da ogni racconto, alcuni quali ad esempio “Crisalide” o ancora “Il completista” sono lo specchio della realtà di ieri e di oggi e Bradbury non erra quando suggerisce al lettore di mettere a confronto i due scritti, “Il pigiama del gatto” è di una delicatezza e di una dolcezza infinita che si esprime con tutta la sua folgorante forza soprattutto sul finale, con “l’isola” le paure e le fobie umane sono messe in luce con ogni sfumatura ed ogni paradosso, in “Ci comporteremo normalmente” la Susan del passato si ritrova a far i conti con il Ray del presente e il timore interiore di diventare l’uomo non sperato.
Un’opera di indubbio valore, che si esprime indelebilmente grazie alla sua semplicità.
Maria Darida - 7 anni fa
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Cronache marziane - Ray Bradbury
Le suggestioni che Bradbury riesce a creare con le sue idee, con il suo stile, con il suo semplice narrare sono perle rare capaci di risvegliare il subconscio umano in tutte le sue imperfezioni e paure. Quando lessi per la prima volta le “Cronache”, poco dopo aver ultimato il mio amato ed ispiratore Fahrenheit 451, restai basita dal genio di questo autore, dall’idea di riflessione proposta, dalla poesia con cui riusciva a trasmettere con chiarezza lo specchio dell’umanità del tempo. Perché questo ha fatto Bradbury, da un lato nell'ipotizzare la conquista dell'uomo di altri ancestrali pianeti – e nonostante l'intrinseca possibilità di ricominciare tutto dal principio, di porre rimedio a quegli errori che tanto lo avevano caratterizzato sulla Terra – ha dimostrato l'incapacità del genere di appartenenza di far tesoro dei propri sbagli e dunque di imparare da essi; dall'altro ha offerto una panoramica completa della cultura del tempo; gli abitanti che popolano questo romanzo non sono altro che l'archetipo dell'americano medio degli anni '40/'50 razzista, falso perbenista, mentalmente stereotipato e totalmente rivestito di infiniti pregiudizi.
In antitesi ai terrestri vi sono poi i marziani, esseri diversi dai primi ma non tanto nell'aspetto – non attendetevi la descrizione di alieni dalle tre teste e le sette braccia – quanto nell'evoluzione della propria civiltà. In tal senso, un racconto mi ha particolarmente colpito, ed è quello del padre missionario che affascinato da queste “sfere” azzurrine cerca di instaurare un rapporto con predette creature sino alla consapevolezza di non dover far altro che limitarsi ad imparare dalla loro saggezza. Altro passaggio – dei tanti – che mi ha arricchito – e che considero una rarità – è quello dell'emigrazione dell'intera popolazione di colore sul pianeta Marte perché quando non hai niente da perdere non hai paura di lottare per ricominciare e cambiare le cose. Viceversa il bianco si rende conto della rilevanza che aveva il nero – che ha tanto maltrattato e deriso – soltanto quando lo ha perso e i fiocchi di cotone aleggiano tranquilli nelle distese coltivate. Ulteriore significativo spunto di riflessione l'ho riscontrato nel brano che ha quale protagonista l'eclettico Stendahl che nella sua brama di vendetta riscuote nel lettore quell’insegnamento che l'indimenticabile Fahrenheit 451 aveva trasmesso nella sua lettura.
Marte è sinonimo di perfezione; è la metafora della Terra prima dell'avvento del genere umano. Che avesse ragione Spender? Si, vien da affermare. Il giungere sul pianeta rosso del terrestre può tradursi nella bieca brama di potere, nella stupidità, nell'arroganza, nella corruzione perché ogni buon principio che, almeno inizialmente animava il cuore dei coloni, si è perso nell'oblio per dar adito a quelle caratteristiche stanziate nell'anima dell'uomo. Non stupisce dunque che chi crede di sapere imponga la sua dottrina, che le passioni si tramutino in mania, che il buono ed il rispetto diventino concetti astratti paragonabili tanto alla devozione quanto al miraggio. Perché accettare, perché non rispettare quel nuovo mondo ed imparare dai lasciti di una cultura evoluta? Perché l'uomo non riconosce minimamente quegli errori insiti nella propria natura e alla dipartita per Marte, prepotentemente e testardamente, se li porta dietro radicandoli in un pianeta che a sua volta diventerà immagine e somiglianza di quello appena abbandonato. E dunque, a cosa è servito andarsene?
Feste e proclamazioni si aspettava al suo arrivo su Marte il terrestre invasore. La sua conquista del pianeta è paragonata a quella che ha visto protagonisti gli indios d'America al giungere degli europei alla conquista del Nuovo Mondo. E si stupisce l'astronauta della Terra; perché le chiavi del Pianeta Rosso non gli vengono consegnate? Perché i marziani li prendono per pazzi o comunque non si mostrano entusiasti del loro arrivo? Ben quattro spedizioni prima di pervenire all'estinzione degli alieni. Inevitabile il passaggio di proprietà che, badate bene, non è una resa da parte dei marziani bensì una la metafora del padre che accontenta il figlio capriccioso sussurrandogli all'orecchio di non crogiolarsi sugli allori visto che da quel momento la battaglia da condurre è contro la sua stessa natura di rampollo.
Nel finale il dubbio, l'incertezza sul futuro narrata con grande maestria e con pillole di saggezza letteraria che si marchiano indelebili nella mente di chi legge.
Con ambientazioni quasi fiabesche, significati intrinseci e una scrittura esaustiva, chiara e magistrale; Bradbury dà vita ad un'opera che vale la pena di essere letta. Il suo significato viene colto in più riprese, alla conclusione del componimento, infatti, non è possibile comprenderne tutta la profondità, questa in parte sfugge, non perché il lettore non sia capace di percepirla bensì perché è necessaria una riflessione a posteriori, a freddo per assaporarla nella sua interezza. Come più volte asserito dallo stesso autore lo scritto è una rivendicazione della fantasia contro il realismo letterario dell'epoca, è intriso della visione del Mondo propria da sempre di Bradbury che, come altri autori del suo tempo (vedi Huxley o Orwell), tendeva il suo occhio scrutatore nella panoramica del “bianco e del nero” senza dar voce alle sfumature; ma è e resta un componimento degno di nota. Un romanzo che va gustato e letto poco alla volta.
Vi lascio con un breve incipit:
« I marziani scoprirono il segreto della vita tra gli animali. L'animale non cerca di capire la vita. La sua stessa ragione di vivere è la vita; esso gode e gusta la vita. Vede, tutta la scultura marziana, questi simboli animaleschi ripetuti all'infinito...»
«A me sembra una cosa pagana».
«Anzi! Quelli sono simboli divini, simboli di vita. L'uomo, anche su Marte, era divenuto troppo uomo e non abbastanza animale. E gli uomini di Marte si accorsero che per sopravvivere avrebbero dovuto dimenticare la solita domanda: Perché vivere? La vita era la risposta a se stessa. La vita era propagazione di maggior vita e di un vivere la miglior vita possibile. I marziani si accorsero che la domanda “Perché vivere” veniva fatta invariabilmente al culmine di un periodo di guerra e disperazione quando non c'era risposta. Ma poi la civiltà si placò, le guerre cessarono e la domanda perse ogni senso per altri motivi. La vita era bella, non c'era più bisogno di discussioni e di analisi».
« Si direbbe che i marziani fossero molto ingenui».
« Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo. Non permisero alla scienza di stritolare l'estetica e la bellezza. E' sempre questione di gradazione. Un uomo della terra si dice:-” In quel quadro il colore non esiste realmente. Uno scienziato può dimostrare che il colore è soltanto il modo secondo cui le cellule sono disposte in una data sostanza per riflettere la luce. Pertanto, il colore non è una parte sostanziale delle cose che mi capita di vedere”. Il marziano, infinitamente più acuto, dirà: “Magnifico quadro. Lo dobbiamo alla mano e alla mente di un uomo ispirato. Alla sua idea, il suo colore vengono dalla vita. E' dunque cosa buona”. »
Maria Darida - 7 anni fa
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Fahrenheit 451 - Ray Bradbury
Quando un lettore si appresta a leggere Fahrenheit 451 mai penserebbe di trovarsi dinanzi ad un romanzo scritto nel lontano ’53, la sua attualità è sorprendente. Chiunque, perfino il lettore che non lo ha apprezzato o colui che non ama il filone scientifico, trova in esso elementi di quotidianità e di attualità rendendosi conto che la nostra società sempre più finisce con l’assomigliare a quella descritta da Bradbury.
Un’opera geniale che esalta il sapere e che dimostra che per quanto un regime possa cercare di fermare la cultura e di rendere “pecora” un popolo (“governare un branco di pecore è più facile che governare un branco di leoni”), questa resiste inarrestabilmente. Non solo, Fahrenheit 451 va ben oltre all’essere una mera e semplice esaltazione dell’erudizione, questo ci porta a comprendere quanto i meccanismi della mente siano essenziali per “aprire gli occhi”, per essere consapevoli e non schiavi delle briglie di un sistema.
E così Montag da incendiario si ritrova ad essere un ricercato. Il suo compito non sarebbe altro che quello di bruciare alla temperatura di Fahrenheit 451, ma come può dar fuoco ad un qualcosa senza comprenderne la ragione? Perché il sistema ha così timore del sapere, perché i “libri” sono così pericolosi? Qual è la vera giustificazione a tutto “quel bruciare”? Il meccanismo della riflessione si insinua minaccioso nella sua mente fino a portarlo a maturare la consapevolezza che la conoscenza non va combattuta bensì sfruttata a proprio favore, va protetta. E’ grazie a questa rivelazione che scoprirà se stesso, forse per la prima volta.
Un romanzo significativo, solido e curato nei minimi dettagli. Una di quelle opere che non sono per tutti ma che veramente andrebbero lette. Uno dei regali migliori che mi siano mai stati fatti.
Un estratto:
«Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri. Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene. No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso.»
Maria Darida - 7 anni fa
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Ma gli androidi sognano pecore elettriche? - Philip K. Dick
Per molti leggere di un universo in cui gli uomini convivono con gli androidi, in cui l’umanità ha colonie sparse per la galassia e l’essere robotico è la fonte di compagnia/servitù per eccellenza per il nostro genere di appartenenza è un qualcosa di inconcepibile, implausibile. Eppure sempre più la tecnologia si sta muovendo verso questi lidi, verso questi nuovi traguardi, tanto che le opere di autori maitre del settore quali Asimov e Dick, seppur appartenenti a due tipi di fantascienza distinti, non sono più così improbabili, inimmaginabili, anzi.. Come noto “ma gli androidi sognano pecore elettrice” è il romanzo da cui è stato tratto il celebre“Blade Runner” e se dunque siete amanti della tipologia è il testo adatto a voi.
Le vicende narrate si svolgono interamente nell’arco di una giornata estremamente lunga e faticosa per il protagonista, il cacciatore di taglie Rick Deckard; 8 nuovi androidi modello Nexus 6 illegalmente fuggiti da Marte hanno fatto ritorno sulla Terra e suo compito è quello di ritirarli (eliminarli) quanto prima. Il problema è che questi prototipi sono perfette riproduzioni degli organismi autentici, le differenze sono minime e dunque sempre più complesso è individuarli, non commettere l’errore di colpire un corpo notoriamente considerato vivente anziché un prodotto della scienza.
Non solo, la Terra è descritta come un luogo distrutto da una polvere che cade dal cielo come pioggia, questa ha primariamente colpito le cavallette, di poi gli uccelli ed infine tutti gli altri abitanti del pianeta, nessuno escluso, anche l’uomo infatti non è immune da suoi effetti tanto da, una volta esserne venuto in contatto, essere classificato quale “un cervello di gallina” o un “cervello di formica”, catalogazione a cui segue l’essere ridotto a lavori dove è richiesta la minima intelligenza e l’interdizione al migrare verso altri corpi celesti. La popolazione mondiale è perciò decimata, la maggior parte si è trasferita su Marte o altre colonie e i restanti vivono dediti al “mercerianesimo” una pseudo religione che fa leva sul legame empatico ed il cui messia altro non è che Mercer, da qui il nome della fede. Ma chi è questo Dio? Non è altro che un ubriacone, non è altro che mercificazione (Mercer non significa infatti Mercy bensì merchandise) e come fa l’organismo autentico a prendere consapevolezza di tale assunto? Grazie, ironia della sorte, all’androide che svela all’umanità che non esistono ideali assoluti a cui tendere, che ciò che è bene per uno non è necessariamente bene – ne tantomeno male – anche per l’altro, che in definitiva gli uomini non sono poi così veri perché credono ciecamente nella finzione, così, per partito preso senza interrogarsi sull’autenticità.
Un aspetto che viene particolarmente evidenziato nel testo è il legame con gli animali. Mentre nella nostra società il benessere è rappresentato dall’oggetto in sé per sé (dall’avere il telefono di ultima generazione al SUV superaccessoriato) nel mondo dispotico di Deckard questo è costituito dalla proprietà di un animale vero e non elettrico. Il “catalogo Sidney” offre la stima dei prezzi di ciascuno di questi, e il nostro protagonista non è immune dal desiderio di possederne uno vero tanto che decide di concludere il lavoro, nonostante tutti i dubbi morali che lo assalgono durante lo scorrere degli avvenimenti, soltanto per poter coronare tal desiderio.
Il romanzo è intriso di neologismi, numerose sono le questioni che vengono poste al lettore che pagina dopo pagina indirettamente arriva a chiedersi cos’è veramente l’umanità, cosa rende umani e cosa no, quanto inficiano la coscienza e la consapevolezza su tale requisito, quanto alla fin fine gli androidi siano semplici prodotti di laboratorio e non anche qualcosa di più. Considerazioni a cui va aggiunto il fatto che attualmente ciò che ci permette di porci sul “piedistallo” è appunto il possesso di qualità quali l’intelletto, la conoscenza, la coscienza rispetto agli animali, nostri attuali metri di paragone. Qui la domanda sorge spontanea. E se lo scenario mutasse e dunque la società non fosse composta soltanto dal binomio uomo-animale ma a questo si aggiungesse il fattore androide, prodotto di laboratorio capace di dimostrarsi più utile in determinati incarichi, più versatile nello svolgimento di molteplici funzioni, su quali elementi potremmo fondare la nostra pretesa di superiorità? Quali caratteri potremmo addurre al fine di evidenziare una loro appartenenza al solo genere macchina ed una nostra qualità preponderante sull’organismo cibernetico? Dick ci suggerisce una risposta e questa è l’empatia, la capacità di immedesimarsi negli altri, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni, gioie e sofferenze, e lo fa a tratti con particolare rudezza (basti pensare alla mutilazione del ragno dinanzi a J.R. Isidore).
Eppure lo stesso autore sembra volerci suggerire, tra le righe ,che anche questa qualità è un qualcosa che non ci dà una sicurezza totale in quanto gli androidi, descritti quali soggetti con una propria individualità, intelligenza, capaci di fare del bene quanto di complottare per raggiungere scopi talvolta moralmente discutibili, non è detto che non acquisiranno mai tale caratteristica così come, il loro altro handicap identificato nella brevità della vita per ancora l’incapacità di riprodurre le cellule, non è un ostacolo invalicabile poiché il loro creatore uomo con le scoperte scientifiche riuscirà a correggere anche queste piccole imperfezioni. E quando anche questo traguardo sarà raggiunto, cosa ci differenzierà davvero da loro? Niente. L’umanità si sarà auto-annientata.
Il testo va assaporato, non è una di quelle opere che possono tranquillamente leggersi in un paio di giorni perché con significato relativo, è composto da capitoli brevi, scelta che permette alla mente del lettore di restare sempre vigile.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il club dei padri estinti - Matt Haig
Philip ha soltanto undici anni quando Brian, il padre, muore in un incidente stradale. Proprio durante il funerale l’adolescente assiste per la prima volta ad un fatto inconsueto: il suo papà è tornato nella veste di fantasma, fa parte di quel che viene chiamato “Il club dei padri estinti” ed esige vendetta. Rivela infatti al giovane di essere stato assassinato dal fratello, lo zio Alan, e che l’unico modo per non restare prigioniero del regno del terrore è che il discendente lo uccida.
E se da un lato si instaura il rapporto tra mente e mente, dall’altro lo zio si insinua sempre più nella vita della famiglia con piccoli ma significativi gesti (dal risollevare le sorti finanziarie del pub del defunto allo sposare la ex cognata vedova). Per Philip la situazione è intollerabile, le pressioni non mancano. Giusto per rincarare la dose alle problematiche familiari si aggiungono quelle scolastiche in quanto il ragazzino è preso di mira dai bulletti dell’istituto, che approfittandosi del suo dolore, della sua vulnerabilità, non mancano di vessarlo appellandolo con nomignoli quali “Elmo” o “schizzato” nonché di umiliarlo pubblicamente con angherie fisiche di non poco rilievo.
Ci troviamo così davanti ad una situazione di impasse: da un lato il protagonista vorrebbe realizzare la volontà dello spettro-padre, dall’altro si rende conto che moralmente l’omicidio che gli viene chiesto di porre in essere è sbagliato. E’ combattuto il nostro moderno Amleto tra “l’essere e il non essere”, il “credo e non credo” ed il “sbaglio se lo uccido ma al tempo stesso se non lo faccio papà vagherà in eterno nel regno del terrore”.
Purtroppo la vita scorre, i giorni passano ed il ragazzo, preda degli eventi, non ha modo di metabolizzare la perdita. E come far fronte a questa mancanza di tempo, di comprensione, di lutto? Come andare avanti quando anche tua madre sembra aver dimenticato di aver perso un marito da nemmeno due mesi dimostrandosi già pronta ad un nuovo connubio?
Un improvviso cambio di registro riporta il lettore dal surreale alla realtà lasciandolo sgomento, sconcertato, obbligandolo a riflettere su quanto i condizionamenti esterni e l’ingannevolezza delle apparenze siano fuorvianti, su quanto sia complesso il rapporto adulto-bambino. Non c’è cosa più difficile che affrontare i nostri spettri, gli imprevisti che ci sconvolgono l’esistenza e la mente è talvolta l’unico vero rifugio nonché valvola di sfogo che abbiamo perché talvolta si ha semplicemente bisogno di dar la colpa a qualcuno.
Questo è un po’ quello che accade a Philip che si ritrova senza appoggi, senza quel punto di riferimento saldo capace di indirizzarlo nella giusta direzione.
Il racconto è caratterizzato da uno stile semplice, il linguaggio è quello di un bambino che si affaccia all’età dell’adolescenza; se deciderete di leggerlo vi troverete davanti ad una fiumana di pensieri, dialoghi con se stessi che, badate bene, non sono da sottovalutare; impressionante è infatti la linearità che Haigg ha trasmesso a questi.
“Pensai che Mrs Fell aveva ragione. Esistono delle scelte. SI può dare ascolto ai fantasmi oppure no e si può pensare ciò che si vuole dipende da noi perché ci sono soltanto due cose che sono vere al 100 per 100 e cioè che si vive e si muore e qualunque altra cosa non è né vera né falsa è un misto tra le due. E’ entrambe. Non è nessuna”.
Maria Darida - 7 anni fa
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Sylvia - Leonard Michaels
SYLVIA, OH SYLVIA...
Sylvia, un nome, un grande amore, una follia, un viaggio visionario incontrollabile ed inarrestabile. Quando il ventisettenne protagonista di questo lungo racconto fa rientro, in quelli che erano i primissimi anni ’60, a New York, dopo due anni di corsi postuniversitari a Berkley ed altrettanti tre (dal 1953 al 1956) per laureati presso l’università del Michigan, mai si sarebbe immaginato di essere travolto da una spirale di circostanze, eventi di tale portata. L’attrazione di una sera che si tramuta in una livida ossessione per confluire infine in un allucinato inferno coniugale.
Sylvia e il giovane, mai nominato per nome, si conoscono, fanno l’amore, fanno e rifanno nuovamente l’amore ed il giorno dopo vanno a convivere insieme. Lei, studentessa universitaria di lettere antiche, lui scrittore e successivamente professore, che si vede sfuggire la situazione di mano. Ella è una donna incontrollabile, patologicamente affetta da gravi squilibri mentali non curati che fanno si che ogni giorno sia un litigio, che ogni giorno sia una incomprensione, che ogni giorno sia una semplice e pura insania. Ma chi era Sylvia? Sylvia era a suo piacimento una donna timida, dalla sensibilità patologica, preda di improvvisi scoppi d’ira, o ancora era una donna fascinosa, una “puttana per intellettuali”(cit) che si dilettava a sorseggiare bourbon e che si vantava delle proprie infedeltà coniugali col marito per poi richiedere allo stesso di tornare insieme dimostrando così di saper essere splendidamente depravata, dotata di humour brillante e distruttivo, perversa ed irresistibile. Eppure a nulla valeva il fatto che il suo quoziente di intelligenza fosse superiore alla media, a nulla servivano le premure del compagno, ella si sentiva ripugnante, si odiava, detestava il suo riflesso, non si accettava e trovava qualsiasi scusa per rifarsela con Leonard. Che uomini di ogni genere la trovassero attraente, arguta e affascinante, era un mero dato di fatto.
«Darei trenta punti del mio quoziente d’intelligenza per un naso più corto».
«Non c’è niente che non va nel tuo naso».
«E’ troppo lungo, di un millimetro»
Le liti che coinvolgevano la coppia talvolta erano talmente forti e sconvolgenti che perfino i vicini di casa si rifiutavano di porre loro il saluto. O ancora, quante volte l’innominato protagonista, che di fatto però sappiamo essere l’autore stesso, si ritrovava a dover gestire i suoi sbalzi d’umore, a tollerare i suoi scatti inconsueti, a cercare di rassicurarla con ogni gesto d’affetto possibile dormendo appena un’ora per poi alzarsi per andare al lavoro. Quanto semplicemente l’ha amata.
“Sylvia”, Adelphi, è un romanzo autobiografico che narra le vicende che hanno visto protagonisti Leonard Michaels con quella che sarebbe diventata la sua prima moglie, Sylvia Bloch, per confluire infine al tragico ed inesorabile suicidio di questa. L’autore, mantiene un certo grado di riserbo e di ambiguità su ciò che rappresenta verità e su ciò che è, passatemi il termine, “fiction”, eppure pagina dopo pagina si percepisce quanto questa storia abbia significato per lo scrittore, quanto effettivamente lo abbia provato e turbato, lo abbia segnato.
Il racconto segue un equilibrio ed una linea narrativa ben precisa, Michaels è attento, preciso, chiaro e puntuale nella ricostruzione tanto che l’opera si dimostra essere un buon reportage dei fatti, ma al tempo stesso è empatico, diretto, libero alle emozioni che vengono espresse nella loro crudezza, nella loro disperazione, nella loro impotenza. Tra le note di Elvis Presley e Allen Ginsberg, tra i fiumi di alcol, droga, sigarette e sesso, tra le prime chiare manifestazioni di omosessualità, assistiamo alla “folie à deux” di queste anime interdipendenti, incapaci di vivere insieme e di lasciarsi andare, autodistruttive.
«Il mio delitto, che esisteva solo nella sua testa, non poteva essere dimostrato, ma neanche la mia innocenza.[…] Era questa la mia infedeltà segreta, mai confessata ai diari. Malgrado l’infelicità quotidiana del nostro matrimonio, scrivevo che amavo Sylvia. Lo scrivevo ripetutamente nei diari, asciugandomi lacrime sincere e patetiche. “Amo Sylvia”. [..] In un lampo quelle donne si impressero nei miei nervi e nelle mie ossa. Non parlai mai con nessuna di loro, né le rividi. Le ricordavo con amore e disperazione. Cominciai a ricordarle prima ancora che fossero scomparse alla mia vista, come se non fossero mai state altro che reminescenze, figura di una vita precedente e più felice.» pp. 83-85.
«Era come incontrarsi sulla grande ruota dell’esistenza, procedere attraverso altre vite, e poi incontrarsi di nuovo, senza ricordare di essersi già incontrati in precedenza. Però io me lo ricordavo» p. 88
«Il ruggito di un aeroplano squarciò il cielo. Ogni cosa giungeva a me come sensazione, non come sentimento. Non avevo sentimenti a cui fossi in grado di dare un nome. Non avevo sentimenti umani» p. 128
Maria Darida - 7 anni fa
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È solo una storia d'amore - Anna Premoli
Aidan Tyler, crogiolandosi sulla vincita di un Premio Pulitzer, si è lasciato andare. Sono infatti cinque anni che non scrive, cinque anni che, coccolato dalla critica, si bea sulla scia delle numerose copie vendute, sul successo ottenuto. Eppure da allora non è riuscito ad elaborare nemmeno più una riga. La sua esistenza si è data alla dissolutezza, alle frivolezze così come le sue avventure amorose, conquiste che mai vedono quali protagoniste donne intelligenti e argute. Questo almeno fino a che, dopo l’incontro con Norman, il suo agente, incontra Lauren meglio nota come Delilah Dee, autrice di romanzi rosa. Inizialmente l’uomo non si rende conto di trovarsi di fronte ad una collega pertanto, e senza troppe cerimonie, demolisce il genere per la quale ella presta la sua penna, dando avvio ad una serie di diatribe, discussioni e litigi che li porteranno a stendere la stessa storia ma vista dal punto di vista maschile e femminile e che sfoceranno, in conclusione, in un profondo amore.
Per poter valutare questo romanzo è necessario porre in essere un distinguo: se siete infatti “vergini” della Premoli vi troverete di fronte ad un testo semplice, simpatico, senza troppe pretese, e con una base di partenza buona che viene sviluppata in modo lineare e con tutti i presupposti per attrarre; ma se al contrario avete già letto opere di questa autrice, detto elaborato, vi lascerà – o vi potrebbe lasciare – perplessi. Se infatti lo schema narrativo adottato è il medesimo (la coppia si incontra, litiga e si innamora), i temi sottesi sono molteplici. Appare infatti di tutta evidenza come la stessa abbia con questo scritto voluto rispondere “ad un messaggio”. Ella si concentra particolarmente sull’appartenenza al genere rosa, rimarcando da un lato come questo venga spesso svalutato – a suo dire soprattutto dal pubblico maschile che dimostrerebbe nei confronti di questo un atteggiamento snobbante, sminuente – e dall’altro muovendo una critica silenziosa a talune altre innominate autrici-colleghe che sono le prime a dar vita a racconti in modo più che opinabile. Sembra quasi voler dire “se vi muovono contestazioni è anche colpa vostra perché ve la cercate”. Infine conclude, tramite la voce della protagonista femminile, rimarcando che non c’è niente di male ad appartenere a questo filone che anzi chi ve ne fa parte deve esserne fiero e vincere il malessere interiore che spesso i terzi inducono a provare, che si può essere al tempo stesso scrittrici e altro, che si può meritare stima a prescindere dal mero preconcetto e pregiudizio, che il romanzo rosa è ad oggi suddiviso in molteplici sottogeneri ma che quello principale e classico – quindi no erotico e fasce intermedie – rappresenta il maggiore strumento di espressione del femminismo. Non mancano inoltre i riferimenti alla politica, tantomeno alle elezioni presidenziali americane che hanno da poco avuto termine.
Come potete quindi vedere, se da un lato la Premoli ci offre uno scritto piacevole e con tutte le basi per riuscire, dall’altro tocca questioni a lei talmente care da indurla a dire la sua. Nelle note finali, la medesima spiega e rimarca quanto anzidetto. L’effetto conseguente è che prende meno rispetto agli altri suoi scritti, ma non per questo non merita di essere letto. Che dire, a quando la storia tra Norman e Alex? Siamo curiosi..!!
Maria Darida - 7 anni fa
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