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Lo straniero - Albert Camus
COSÌ È...
Meursault è un impiegato di origini francesi che vive ad Algeri. Il primo incontro del lettore con l’uomo avviene con la scoperta della morte della madre. Sin da queste iniziali battute egli appare come un individuo anaffettivo, apatico; in realtà egli, come chi legge, è vittima di quel sentimento a cui è impossibile dare un nome quando una persona cara, ed ancora di più un genitore, viene a mancare. Per questo, di primo acchito, viene spontaneo rifiutarlo, egli è diverso dal comune immaginare sé stessi. E se già da questa primordiale partenza il lettore nutre nei confronti del protagonista, sentimenti ambivalenti, nel susseguirsi della vicenda egli risulta essere ancora più lontano dalla dimensione dell’odierno conoscitore. Una colluttazione con un arabo sulla spiaggia ed il conseguente gesto del protagonista, ne segnano le sorti: verrà arrestato e condannato a morte e mai cercherà conforto nella religione. Durante le fasi processuali, tra l’altro, viene spontaneo chiedersi: ma Meursault è a processo per aver ricoverato la madre in un ospizio, per non aver pianto al suo funerale e per non aver chiesto perdono a Dio, o perché ha ucciso un uomo? Altra riflessione si sostanzia in quelli che sono gli ultimi momenti della sua vita: l’assurdità palese della situazione mixata ad un universo di circostanze di indifferenza e insensibilità verso l’umanità induce, a ritenere che il reo possa trovare consolazione solo in quel destino comune che alla “fine dei giochi” lo accomuna ad ogni incensurato, ponendoli – entrambe le “categorie” – indistintamente sullo stesso identico ago della bilancia.
Questo particolare personaggio di Camus, un uomo senza mappa e senza coordinate, un individuo non immorale ma perduto proprio come lo scrittore nella realtà immagina essere coloro che popolano il suo tempo, spiazza ed infastidisce tutti coloro che, abituati ad uno sviluppo e maturazione del protagonista, assistono al suo mancato pentimento. Egli infatti non si giustifica, non si difende. Si limita a rispondere con dei brevi “si”, “no”, “Non ho niente da aggiungere” alle domande che gli vengono poste e questo perché nel suo intimo sa che verrà condannato perché così è e così è sempre stato: come non ha potuto decidere della sua nascita similarmente non potrà decidere della sua morte. Che questa accada per espiare ad una pena o semplicemente per vecchiaia, malattia, incidente stradale o altro, non fa la differenza.
In tanti modi può essere interpretato “lo straniero” di Camus. Certamente l’analisi può partire dal concetto di responsabilità. Lo straniero è di fatto irresponsabile perché subisce gli eventi sottraendosi alla ragionevolezza perché solo chi è consapevole di ogni suo gesto può agire per modificare il suo futuro, il suo destino. Camus dunque muove dal presupposto: responsabilità e ragionamento come strumenti per migliorare le vite di chi entra in contatto con noi (e di conseguenza le nostre), ragionamento e responsabilità nell’ottica di azioni che hanno un significato, un peso, così come ogni parola. E lo scrittore sceglie, sceglie sempre perché non ci sono mali peggiori da evitare, o prese di posizione da difendere, bensì decisioni da condividere e da valutare per poterne pienamente constatare il senso ed evitare dunque di procedere per dogmi e illusioni. Ma quindi chi è lo straniero? Lo straniero non è chi appartiene ad una diversa cittadinanza o chi non si riconosce in se stesso, è tale chi convive con un denominatore comune di sofferenza, difficoltà e debolezza. E solo e soltanto agendo il soggetto potrà fare qualcosa; forse non potrà cambiare il mondo, ci sussurra Albert, ma certamente potrà migliorare la propria qualità di vita.
Per Camus scrivere è una forma di liberazione. Sin dalla tenera età è abituato ai sacrifici; figlio di lavoratori concepirà l’ideologia come una macchina di giustizia troppo lontana dalla vita reale. Fondamentale è l’equilibrio, condizione a cui per primo si sottopone poiché egli è per primo estraneo a tutto: alla Francia che lo considera algerino, all’Algeria che lo considera straniero, ai comunisti che lo considerano un reazionario e paradossalmente anche ai conservatori che lo considerano comunista. Questa condizione di estraneità lo sottopone ad una riflessione continua ed incessante che non lo abbandona mai e che lo porta ad interrogarsi sul senso della vita e su quali sono i motivi per cui valga la pena viverla. Con “lo straniero” affronta tutto questo – concludendo ed approfondendo il ragionamento ne “la peste –, consacra l’incolmabile e insanabile solitudine dell’uomo, e riesce a descrivere l’esistenza come un qualcosa che, casualmente ma non senza causa, semplicemente, accade.
«E così, più riflettevo e più cose sconosciute e dimenticate tiravo fuori dalla mia memoria. Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi» p. 107
«Non mi ero reso conto di quanto i giorni potessero essere al tempo stesso lunghi e brevi. Lunghi da vivere, senza dubbio, ma così dilatati da finire per riversarsi gli uni negli altri. Sino a perdervi il proprio nome. Ieri e domani erano le uniche parole che conservassero un senso per me» p. 108
«Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era neanche sicuro di essere vivo, perché viveva come un morto. Certo, io sembravo a mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e della morte che mi aspettava. Si, non avevo altro. Ma almeno possedevo quella verità quanto lei possedeva me. Avevo avuto ragione, avevo ancora ragione, avevo sempre ragione. Avevo vissuto in un modo e avrei potuto vivere in un altro. Avevo fatto questo e non avevo fatto quello. Non avevo fatto quella cosa ma avevo fatto quest’altra. E dopo? Era come se avessi aspettato per tutta la vita quel minuto e quell’alba che mi avrebbero giustificato. Niente, assolutamente niente aveva importanza, e sapevo bene perché. Anche lui sapeva perché» p. 155
Maria Darida - 7 anni fa
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La sorella - Sandor Marai
ARMONIA, MALATTIA E VITA.
«Non mi compatisca» disse tagliente. «La malattia ci dona esattamente quanto ci toglie.» «Tanto quanto la musica?» chiesi con assoluta mancanza di tatto. «Ci dà qualcosa di diverso, ma nella stessa misura» insistette. P. 59
Era il terzo Natale dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale quando ha luogo l’incontro tra lo scrittore io narrante e Z., pianista ungherese di grande talento musicale oltre che di notevole fama. Quella comunione di circostanze e pensieri che sorge tra i due uomini, non è altro che un rincontrarsi ad anni di distanza da quei salotti dove immancabile era la figura di E., donna maritata, di grande fascino e presenza. Ed è a seguito di questo incontro, ed è solo e soltanto dopo mesi da questa notte che, l’io narrante, riceve quel manoscritto di cui le voci e le parole avevano proferito. Un lascito, non solo una memoria.
Firenze. Il musicista ha appena terminato uno dei tanti concerti che ha in programma quando lo sente, quando ne percepisce la presenza. Qualcosa è cambiato, il suo organismo lo sta avvertendo del fatto che una strana malattia è insita nel profondo; tutto ha principio con una leggera nausea, un capogiro, con un qualcosa che in lui «morì per poi allo stesso tempo farlo rinascere» come se fosse «morto per la vita e nato per la morte». Di fatto questa è in realtà una patologia dolorosa, incerta, invalidante, capace di arrecare la paralisi oltre che altre sofferenze nel corpo e nell’anima. Il lungo ricovero ha inizio, dei salotti dell’alta società, del ménage a trois con E. la moglie del diplomatico comune amico, della musica e di tutto quello che sino ad allora costituiva la sua quotidianità, non vi è più traccia, si tramuta in un sogno, in una bolla, in un universo parallelo; una seconda vita che si è intercambiata con quella della degenza, con quella dettata, statuita e regolata dal male che affligge, che sfianca, che priva. Una nuova realtà scandita quindi dal ritmo inesorabile delle cure che si susseguono a quegli incontri costanti della giornata: il professore, l’assistente medico, le quattro sorelle e… il dolore. Il patire è una voce sorda, regolare, continua, che compare nelle ore e nei momenti della giornata più inconsueti, che talvolta concede una tregua silenziosa, per poi riaffiorare nel cuore dei momenti più inaspettati come una lama di coltello che penetra le carni.
I giorni passano, tutti uguali, cadenzati dalle visite della alta e grossa suor Dolorissa, dalla bella ed ingenua suor Cherubina, dalla diligente suor Mattutina e dalla cerea e meticolosa suor Carissima, donne che altro non sono che le custodi del segreto della malattia, sono cioè «depositarie del segreto di mille tormenti, umiliazioni, miserie umane. [.. ] Portavano la felicità proibita, e sapevano che il tormento e il piacere, nel corpo straziato, cercano ospitalità con la stessa crudele indifferenza (p.147)». Ma spesso nemmeno questa quotidianità instaurata è sufficiente ad alleviare il patimento, è necessario ricorrere a quel “rendez-vous chimico” che facendo leva sulle sostanze stupefacenti, appiana quella sensazione di disagio, di male senza, apparentemente, chiedere alcunché indietro. Ed è in questo limbo, in questa atroce sensazione di nulla che inizia l’analisi della propria vita, del proprio passato, presente e della consapevolezza dell’assenza di un futuro poiché tra le eredità della malattia vi è la paralisi a ben due dita, anulare e mignolo, della mano destra. Non ha altra scelta se non quella di dire addio alla musica colonna portante del compositore.
«Avevo capito che l’unico senso della mia via era stato servire quella tenue armonia; e che ormai tutto era in ordine, perché avevo adempiuto al mio compito, avevo servito fedelmente la musica, non avevo mai peccato contro l’armonia di proposito, e con ogni energia del corpo e della mente, della ragione e della volontà avevo espresso quello che la musica voleva dire. [..] L’avevo capito, finalmente. Quando era venuto a mancare? Non riuscivo a trovare una risposta. Nonostante l’esercizio, l’ansia del perfezionamento, la cura scrupolosa dei particolari, non avevo raggiunto la musica: è pur vero che erano ben pochi coloro che, come me, erano in grado di servire la musica con tanta imparziale fedeltà, con la stessa coscienza di sacrificare ogni capacità fisica e spirituale, ma io avevo smarrito il contenuto divino della musica, il vissuto.» pp. 89/91.
«La melodia non ha mai “senso”. Eppure esprime cose che a parole non si è capaci di esprimere.» p. 228
Quelli della degenza sono per Z. giorni in cui elabora, riflette sulla propria arte, sul proprio essere, sui suoi sentimenti. La malattia a tal proposito sembra evolversi finendo cioè col rappresentare la menzogna della vita, lo strumento con il quale ha finito per identificare il vuoto esistenziale dettato dall’insoddisfazione, dalla mancanza, che lo circondavano. Quella voce femminile che durante una tanto attesa – puntura della – notte gli sussurra “non voglio che lei muoia” fornisce al malato l’energia e la speranza necessarie a non lasciarsi andare al buio dell’aldilà.
Quello di Marai è un elaborato ricercato, fornito di una trama solida nonché di una penna ricercata, mai approssimativa e sempre eruditamente avvalorata. L’autore riesce infatti a rendere atto all’essere umano la sua complessità, quello che è il profondo insieme di strati e substrati che consciamente e/o inconsciamente lo compongono. Tante sono le perle di riflessione contenute in questo romanzo, tanto in merito alla malattia che alla condizione di malato, quanto al parallelismo tra chi assiste il paziente e chi subisce questa condizione, tanto in merito a quella sofferenza non sempre fisica bensì psicologica che viene definita patologia ma che in realtà è ben altro. Talvolta, sembra sussurrarci Marai, basterebbe analizzarla più nel dettaglio questa psiche, poiché attraverso questa ricerca potremmo conoscere delle risposte ai nostri più arcani enigmi.
«La ragione è nulla. La passione è tutto. Forse è quello che Goethe chiamava Idee, e così Platone e gli altri, i quali sapevano che il senso della vita è la passione che splende dietro le forme. La passione è più forte del piacere.» p. 178
«Il suo polso è eccellente. Lei ha una tempra straordinaria, maestro. E ha imparato molto negli ultimi mesi. E’ stato un ottimo paziente. Ha imparato che non basta essere malati, non basta prendere le medicine. Bisogna anche rispondere, alla malattia e a tutto ciò che ci mandano la malattia e la guarigione. Anche questo bisogna impararlo. E poi, quando la vita ci chiama..» p. 227
Maria Darida - 7 anni fa
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L'arte di essere fragili - Alessandro D'Avenia
“Caro Giacomo, in quest’epoca si parla tanto di adolescenti, ma si parla troppo poco con gli adolescenti. Parlare con gli adolescenti non è articolare un elenco di “devi” o “dovresti”. Non guadagna la fiducia dei ragazzi chi la cerca scimmiottando la loro adolescenza, ma chi partecipa alla loro vita, scegliendo volta per volta la giusta distanza. Solo chi vive il suo rapimento genera rapimenti e provoca destini: solo se io so che cosa ci sto a fare al mondo metto in crisi positiva un adolescente, che non vuole gli si spieghi la vita, ma che la vita si spieghi in lui, e vuole avere a fianco persone affidabili per la propria navigazione”. P. 34
Non è semplice rendere l’idea di quel che è “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’avenia, non perché l’opera sia incomprensibile o di scarso valore bensì per la molteplicità di contenuti che in essa sono racchiusi. L’autore, infatti, in queste pagine, pone al lettore, e a sua volta si auto-pone, una serie di quesiti di gran rilevanza, una serie di interrogativi che spaziano per quella che è la vita e la realtà di ciascun individuo in ogni fase della maturazione umana. E lo fa senza avere la pretesa di poter offrire soluzioni semplici perché come ben ci ricorda, la vita stessa non è semplice dunque, non può essere minimizzata, non può essere risolta facendo riferimento ad una formula matematica, ad un minimo comune denominatore da applicare al caso incontrato nel percorso di crescita interiore. A questo punto vi starete chiedendo: ma come riesce D’Avenia a far si che tutto questo abbia luogo? Come può rendere atto di questi mutamenti interiori, di questa energia che vuol uscire, dei dubbi, dei fallimenti, di questi interrogativi che immancabilmente attanagliano l’uomo? Semplice, mediante una serie di scambi di battute con niente meno che Giacomo Leoparadi.
Esatto, perché “L’arte di essere fragili”, non è un romanzo ma un vero e proprio epistolario. Simbolicamente l’opera può essere suddivisa in quattro parti così come quattro sono le componenti fondamentali dell’essenza della vita:
- L’adolescenza, o arte di sperare;
- La maturità; o arte di morire;
- La riparazione, o arte di essere fragili;
- Il morire, o arte di rinascere.
Dunque D’Avenia per ogni sezione che affronta crea una serie di lettere tutte munite e caratterizzate da un proprio argomento letto in chiave leopardiana, troverete infatti all’interno dello scritto stralci de “Lo Zibaldone”, ma anche le poesie più note – quali “l’infinito” – o meno note perché ultimo frutto della composizione poetica del letterato o perché semplicemente meno apprezzate dai docenti di turno – quali “La ginestra o il fiore del deserto” – , tutti strumenti, questi, utilizzati per rivedere concetti fondamentali del vivere di ieri e di oggi. E si, l’autore de “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, non ha paura di leggere Leopardi in chiave ottimistica, o ancora meglio, realistica: rompe gli schemi e ci mostra anche quegli aspetti meno celebri della sua esistenza dedita allo studio, alla ricerca dell’amore, alla solitudine, alla ricerca del compimento.
E quel vetro che potrebbe rendere distante lo scritto da chi legge viene rotto mediante il ricollegamento a casi concreti accaduti nel corso della professione di insegnante del palermitano. Dunque, alla riflessione, segue la realtà, il vero. E tra casi di ragazzi autolesionisti, che cercano l’eccesso, che sono infelici e meditano il suicidio, ve ne sono anche altri che da quelle parole traggono riflessioni e ne inducono altrettante in chi è destinatario dei loro quesiti, perché, prendono consapevolezza, si svegliano. Tra i tanti, significativo a tal proposito è un passaggio:
«”Professore, lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e guardare un po’ di più il Grande Fratello”. [..] Quella frase mi colpì, non per la sua insolenza ma per la sua verità bruciante. Tradotta suonava così:”Professore, per favore può tornare nel mondo piccolo della bruttezza e non farmi sentire che esiste la bellezza? Può non costringermi a scegliere tra il nulla e l’essere? Ora che so che ci sono cose in cui la vita si sente così forte, cose così belle, devo uscire dalla mia comoda indifferenza e prendere posizione: a che punto sono del mio compimento, che cosa voglio dalla vita? Professore, può per favore evitarmi minuti di rapimento, altrimenti devo mettermi in cammino verso il compimento?” » p. 68
All’analisi dell’adolescenza è destinata circa metà dell’elaborato, questo perché gli “adolescenti non pongono domande, sono domande”; sono energia che vuol uscire, esplodere, essere destinata ad un obiettivo, e sono al tempo stesso provocatori perché pongono interrogativi a cui vogliono risposte, risposte che devono e pretendono essere semplici e risolutive quando in realtà a molte di esse è possibile rispondere soltanto con la dimensione dei forse, dell’incertezza.
Con il termine di questa fase ricca di speranza, sogni e vigore segue quella dell’esperienza, della maturità. Quella porzione di vita destinata a rendere coscienti gli interlocutori del fatto che tutto ha un inizio ed una fine, quella consapevolezza atta a cogliere gioie e dolori, fragilità e forza, successi e insuccessi, non deve essere vissuta come un qualcosa che è subito dall’uomo passivamente; poiché come vediamo nella fase della riparazione, la si può anche amare, abitare, mutare. L’adulto, che sia professore o meno, è chiamato a custodire, a riparare i più giovani, ad aiutarli con le parole proprio perché in loro è insita la fragilità. E’ punto di riferimento per quelle anime così convinte di sapere cos’è il mondo eppure capaci di cadere come un castello di carta alla prima folata di vento, ecco perché nonostante il proprio intimo fallimento, le proprie più ardue lotte, deve trasmettere il “rapimento”, l’esperienza, la saggezza. Deve essere, in ultima fase, consapevole egli per primo del fatto che essenziale è dare compimento a se stessi e alle “cose fragili” perché soltanto così possono essere salvate dalla morte, con l’amore. Solo così si può rinascere, soltanto così si può abbracciare “l’arte di essere fragili”, custodirla, farla propria, svilupparla, renderla unica.
Mi fermo qua perché come potete ben vedere, in poco più di 207 pagine, sono contenuti ragionamenti di grande valore che toccano temi talmente ampi e variegati che, continuare a parlarne potrebbe, da un lato rovinarvi il gusto della lettura, ma soprattutto, non riuscire a rendervi davvero idea di cosa questo elaborato è. La sua stratificazione è talmente vasta che le considerazioni vanno assaporate un poco alla volta onde evitare che sfumino, che evaporino nel calderone di ricchezza che avete tra le mani.
In conclusione, una conversazione con Leopardi, che non delude, che arricchisce e che è in realtà un’automeditazione atta a coinvolgere tanto i giovani quanto gli adulti.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il labirinto degli spiriti - Carlos Ruiz Zafón
IL LABIRINTO DEGLI SPIRITI. IL CIMITERO DEI LIBRI DIMENTICATI
Alicia Gris sa bene che certe ferite non risarciscono mai, sa bene che con taluni dolori non si può imparare a convivere, per quanto ci si provi. E non sono i mali fisici quelli che arrecano più sofferenza bensì quelli dell’anima. Ventisettenne, acuta, riservata, perspicace, perennemente all’erta, ella è un camaleonte, una donna cioè che è capace di rivestire ogni personaggio e che grazie alla diffidenza naturale che nutre verso ciò che la circonda, è il prototipo perfetto per lavorare all’indagine che ha quale protagonista la scomparsa del ministro Don Mauricio Valls. Ecco perché Leandro, l’uomo che l’ha tolta dalla strada e le ha insegnato tutto quello che sa, la sceglie.
Era una mattina come tante, la festa in maschera organizzata per Mercedes, la figlia dell’onorevole, era giunta al termine da poche ore, quando Don Mauricio e Vincente si accingevano a salire – e scomparire – sulla vettura di quest’ultimo. Da questo momento dei due non si ha più alcuna notizia. Alicia, affiancata – pur se mal volentieri – dal capitano Juan Manuel Vargas, dà inizio alle ricerche tenendo conto anche del fatto che da qualche settimane del collega Lomana, a sua volta investito del caso, non si ha più traccia. Tanti sono i tasselli che non combaciano, ne è ben consapevole e a tutto questo si somma un ulteriore misterioso ritrovamento: durante la perlustrazione della residenza di Valls, ben nascosto sotto un cassetto della scrivania, la coppia Gris-Vargas ritrova uno strano e raro libro intitolato “Il labirinto degli spiriti. Ariadna e il Principe Scarlatto” di Victor Mataix. Da Madrid, la scena, inevitabilmente si sposta a Barcellona.
E tanto Alicia è collegata ad una vecchia conoscenza, Fermìn Romero de Torres, nonché alla famiglia Sempere, tanto dall’indagine relativa a Valls tornano alla memoria del lettore il nome di David Martìn, il cd. Prigioniero del Cielo, dell’Avvocato Brians, di Isabella Gispert, di Fumero e di tanti altri indiscussi protagonisti di questa succosa quadrilogia.
Cosa ne è stato del politico? Perché qualcuno lo sta costringendo a vivere le sofferenze che i detenuti confinati a Montjuic hanno provato sulla loro pelle durante gli anni di prigionia? E chi è quell’uomo dal volto rivestito da una mezza maschera? Ed ancora, cos’è che di fatto lega ed unisce Valls, Salgado, David Martìn, i Sempere, Brians, una serie di ritrovati numeri indecifrabili, i libri di Mataix, Sanchis, il suo autista senza volto e tutti gli altri eroi che hanno colorato le pagine della tetralogia? Qual è il nodo per sciogliere la matassa?
Quella descritta in queste pagine è una Spagna vittima dei regimi totalitari, una Spagna dove la giustizia seguiva i suoi fini, dove i principi del giusto processo e dell’oltre ogni ragionevole dubbio, non erano ancora stati sanciti; un territorio dove la polizia poteva avvalersi della tortura pur di ottenere la confessione necessaria a chiudere il caso in oggetto d’esame. Al dato storico si sommano i luoghi e le persone, entrambi magistralmente descritti, entrambi tridimensionali, e una trama che non scontenta spingendo anzi ad andare avanti, col fiato sospeso per il desiderio di risolvere l’enigma, il mistero.
Era il 2001 quando Carlos Ruiz Zafon pubblicava “L’ombra del vento”, opera originariamente uscita in “sordina”, non acclamata dal pubblico iberico e di poi divenuto uno dei più grandi fenomeni editoriali con all’attivo ben oltre otto milioni di copie vendute nel mondo. Con “Il labirinto degli spiriti”, Mondadori, novembre 2016, siamo di fronte a quella che (probabilmente, perché in futuro, chissà) è la conclusione della tetralogia del Cimitero dei Libri dimenticati ma abbiamo anche tra le mani uno dei romanzi più belli ed avvincenti scritti dall’autore.
L’opera, infatti, è caratterizzata da un intreccio narrativo solido, magnetico, dai giusti tempi. Zafon è un maestro nel fornire indizi e rimescolare le carte così da creare quella giusta dose di suspense nel lettore che, rapito da quel che è il rebus non può che andare avanti. A questo si sommano altresì i protagonisti di questa storia, eroi “vecchi e nuovi” che arrivano, si fanno amare, si fanno odiare e salti temporali necessari per conoscere appieno delle vicende e risolvere le stesse. E se quello che vi spaventa è la mole, vi dico di non farvi intimorire. Seppur lo scritto sia composto da 815 pagine, esso scorre e si fa divorare con la velocità e facilità di un libro di 300/400 facciate, tanto che giunti alla sua conclusione la sensazione provata non è quella di pesantezza, di aver scalato una montagna, di aver concluso un’impresa titanica, bensì quella di vuoto; quel vuoto che è sinonimo di abbandono, quel vuoto che solo i libri veramente belli sono capaci di lasciare.
In conclusione, Zafon non delude, ma conquista e affascina. Zafon riesce nell’impresa più ardua di tutte; non rovinarsi con le sue stesse mani strafacendo. Mantenendo infatti l’equilibrio e rispettando quelli che sono stati gli intrecci narrativi che hanno conquistato i lettori e che lo hanno reso celebre, dà vita ad un elaborato che è un degno epilogo delle vicende ma che non preclude la possibilità, in futuro, di tornare a sognare.
«Non perda la speranza. Se ho imparato qualcosa in questo porco mondo è che il destino è sempre dietro l’angolo. Come se fosse un ladruncolo, una sgualdrina o un venditore di biglietti della lotteria, le sue tre incarnazioni più comuni. E se un giorno deciderà di andare a cercarlo – perché il destino non fa visite a domicilio – vedrà che le concederà una seconda opportunità»
«Tu sei una creatura notturna, Alicia, ma qui ci nascondiamo tutti alla luce del giorno»
«Alicia sentì che, dietro quel muro di oscurità, Barcellona aveva già fiutato le sue tracce nel vento. La immaginò aprirsi come una rosa nera e per un istante la invase quella serenità dell’inevitabile che consola i maledetti, o forse, si disse, era solo stanchezza. Ormai importava poco. Chiuse gli occhi e si arrese al sonno mentre il treno, facendosi largo tra le ombre, scivolava verso il labirinto degli spiriti»
«”Quanto le devo Miguel?”
“Glielo metto in conto. A domani alla stessa ora?”
“Se Dio vuole”.
“La vedo molto elegante. Visita di Gala?”
“Ancora meglio. Di libri”»
«La verità non è mai perfetta e non quadra mai con tutte le aspettative. La verità pone sempre dubbi e domande. Solo la menzogna è credibile al cento per cento, perché non deve spiegare la realtà, ma semplicemente dirci quello che vogliamo sentirci dire»
«Scrivo per me stessa, portando con me segreti che non mi appartengono e sapendo che mai nessuno leggerà queste pagine. Scrivo per ricordare e aggrapparmi alla vita. La mia unica ambizione è poter ricordare e capire chi sono stata e perché ho fatto ciò che ho fatto finché ne ho ancora la capacità e prima che la coscienza che già sento debilitarsi mi abbandoni. Scrivo anche se mi fa male, perché la perdita e il dolore sono le uniche cose che ormai mi tengono viva e mi fa paura morire. Scrivo per raccontare a queste pagine ciò che non posso raccontare a coloro che più amo, a rischio di ferirli e di mettere in pericolo le loro vite. Scrivo perché finché sarò capace di ricordare starò con loro un minuto in più..»
Maria Darida - 7 anni fa
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L'informatore - John Grisham
La trentaseienne Lacy Stoltz, single in carriera presso la Commissione disciplinare Giudiziaria, la cd CDG, ed il collega Hugo Hatch sono chiamati, in questa nuova avventura proposta da John Grisham ad affrontare un caso senza eguali per la loro sezione. Tutto ha inizio quando un uomo, dal nome fittizio Greg Myers, mettendosi in contatto con i medesimi dichiara di voler sporgere, per poi di fatto sottoscrivere, una denuncia contro la Giudice Claudia McDover, magistrato statale chiaramente corrotto ed in contatto con Vonn Dubose, apparentemente incensurato, di fatto capo di una della bande criminali più prospere e radicate della Florida, la cd. “Mafia della Costa”. Quest’ultimo, in particolare, è colui che tiene le fila del clan indiano dei Tappacola, smuovendo per mezzo dei Casinò siti sul loro territorio, contanti, immobili nonché proventi illegali di ogni genere e consistenza. Ricavi che spartisce, in buona parte, con la sua giudice personale. D’altro canto, quale miglior modo per ottenere i propri scopi se non quello di avere una donna di legge al proprio servizio, una cinquanasettenne avida e ambiziosa che non si è fatta il minimo scrupolo nei diciassette anni di servizio (dal mandare in carcere un innocente all’intascare mazzette da sperperare con Phyllis Turban, ex compagna di specializzazione, anch’essa come Claudia con matrimoni falliti alle spalle nonché amica intima), pur di soddisfare ogni capriccio? Quarantacinque giorni hanno a disposizione i due avvocati della CDG per svolgere le indagini necessarie a sostenere l’accusa, quarantacinque giorni per raccogliere tutte le prove possibili prima dell’insabbiamento, prima che la McDover smuova i suoi legali nonché trasferisca i suoi capitali, prima che Dubose si allerti ed entri in scena.
E più i due legali vanno avanti nel dissotterrare misteri e più le circostanze si fanno pericolose. Hugo ne pagherà, a caro prezzo, le conseguenze. Ormai il vaso di Pandora è stato scoperchiato, Lacy non può far altro che andare avanti e rendere giustizia a chi per troppi anni se ne è visto privato.
Con “L’informatore”, Grisham si diletta a solleticare la curiosità de lettore con un caso che abbraccia tanto la figura degli avvocati quanto quella della corruzione dei garanti della giustizia. Seppur segua la linea classica presente nei suoi romanzi, in questo capitolo, sin dalle prime battute, constata e presuppone della colpevolezza del magistrato, tanto che l’enigma si fa avvincente ed appassiona, da un lato, per quel che riguarda il modo in cui la CDG riesce ad incastrare “i cattivi” e, dall’altro, per quel che ruota attorno alla figura dell’informatore, “talpa” che non fa altro che utilizzare Myers, e un ulteriore soggetto, quali portavoce, essendo la sua posizione talmente vicina alla McDover da non poter far altro che adottare ogni livello di prudenza. Di conseguenza, il lettore, conoscendo sin dal principio del caso da risolvere e delle problematiche relative, non viene affascinato dallo sviluppo di questo, bensì dall’azione delle varie squadre d’azione coinvolte.
Stilisticamente l’opera è rapida, si legge in meno di due giorni facendosi apprezzare tanto per l’intreccio narrativo quanto che per l’enigma. Contenutivamente risulta però essere “sottotono” rispetto agli altri scritti dell’autore, risulta cioè essere privo di quel quid pluris che generalmente lo contraddistingue.
In conclusione, una lettura piacevole, non impegnativa con cui trascorrere ore liete, ma nemmeno eccelsa ed indimenticabile.
Maria Darida - 7 anni fa
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Volevo solo averti accanto - Ronald H. Balson
Ben Solomon, ottantatre anni, è disposto a tutto pur di ottenere giustizia. Nato e cresciuto a Zamosc, l’uomo porta con sé ricordi che sono ancora oggi, a distanza di oltre sessaant’anni, vividi e dolorosi. La ferita che sanguina non accenna a risarcire, non potrà mai guarire. Ecco perché ha deciso di acquistare il biglietto per l’opera, ecco perché non ha il minimo dubbio sulle imputazioni che rivolge a Elliot Rosenzweig: per quanto quest’ultimo si spacci per caritatevole ed abbia fortissime influenze su tutta Chicago, Ben è deciso a smascherarlo poiché dietro la facciata, la parvenza di bontà si nasconde niente meno che Otto Piatek, “il macellaio” nazista che ha contribuito allo sterminio degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. E c’è di più, Otto/Elliot, prima di macchiarsi indelebilmente di detti crimini, è stato cresciuto dai genitori di Solomon, ha mangiato alla loro tavola, ha condiviso momenti bui e non degli stessi, ha respirato la loro aria per poi voltare le spalle alla famiglia non appena ha iniziato a beneficiare dei lussi acquisiti con la forza dai tedeschi.
Ma come dimostrare la fondatezza di questa accusa? Tra tutti, l’unica speranza dell’anziano è l’avvocatessa Catherine Lockart, trentanovenne che dopo le remore iniziali farà l’impossibile per provare la reità di Rosenzweigt imparando altresì ad ascoltare, ad ascoltarsi. Perché per la donna l’incontro con quest’uomo non è solo un caso da risolvere, diventa una ricerca, un motivo per tornare a svolgere il suo lavoro non per le ore fatturate ma per il semplice dovere morale che è insito dietro la sua laurea. E vi riesce. Fondamentale è anche l’aiuto di Liam, investigatore privato da sempre di lei innamorato che avrà la funzione di sottoporre alla sua attenzione la missione dell’anziano nonché di ricercare tutte le prove fondamentali e necessarie per sbrigliare la matassa.
“Volevo solo averti accanto” è un romanzo che ci invita alla riflessione sotto molteplici aspetti. Ci insegna a diffidare dalle apparenze, a conoscere nel profondo, a sentire e a vedere non con gli occhi ma col cuore. E’ un elaborato che con una scrittura semplice e genuina rapisce lo scopritore per portarlo in una dimensione dove i valori della famiglia, dell’amore, dell’amicizia, della giustizia, della coerenza regnano sovrani. E’ un’opera che ci ricorda un dato di fatto della vita: tante persone si propongono quali presenti e disponibili, ma è soltanto nel momento del bisogno che avremo la consapevolezza di chi veramente sarà disposto a stare al nostro fianco per ragioni che esulano dalla convenienza.
Una storia senza pretese, forse, ma sicuramente capace di lasciare il segno. Un testo che sa farsi amare e che una volta concluso, vi mancherà.
«Ben respirò profondamente. Si guardò intorno, osservò le pareti decorate, i dipinti nelle cornici d’oro, gli ospiti ben vestiti che si gustavano le loro costate di manzo e i cabernet della California, il camino che emanava calore e confort. Quindi, con espressione triste, spiegò:”Tu ora sei seduta qui in questo tempio del lusso, sei un avvocato di successo, con una vita sicura sotto ogni aspetto, in un paese in cui una follia come quella nazista sembra inconcepibile. Oggi ripensiamo al flagello del Terzo Reich e scuotiamo la testa increduli. Come è potuta succedere una cosa simile? Perché gli ebrei furono così remissivi? E’ incomprensibile. Mio caro avvocato, non chiedermi con questa presunzione di spiegarti perché gli ebrei viennesi non lasciarono le loro case, la loro comunità, tutto ciò che conoscevano e amavano. Trovatela da sola una risposta razionale a un mondo che aveva perso il lume della ragione» p. 81
«Tutti noi rischiavamo di impazzire. Ma sai, è buffo: anche nel bel mezzo di un mondo che sta andando a pezzi si può sempre trovare una speranza a cui aggrapparsi, un futuro da sognare. Lo spirito umano ha una resistenza inesauribile. Io e Hannan passammo intere serate sul tetto a terrazza di casa nostra a guardare le stelle e a fare progetti per la nostra vita insieme. Il mondo intorno a noi stava sbriciolando, ma il futuro ci sembrava più bello che mai» p. 105
«Il male esiste, Catherine. Nelle tenebre del monte Moriah, dove non dimora la virtù, e nelle anime di coloro che se ne lasciano sedurre. E tutta l’umanità è responsabile quando si seguono, o si lasciano fare, i malvagi. Coloro che hanno perpetrato l’Olocausto, ma anche quelli che vi hanno assistito e ne hanno reso possibile la perpetrazione, quelli che ne hanno tratto profitto e quelli che hanno voltato la testa…Sono tutti responsabili. L’Olocausto […] non è accaduto per volontà di Dio, ma per volontà degli invasati dal demonio» p. 152
Maria Darida - 7 anni fa
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The chemist - Stephenie Meyer
Legalmente la Dottoressa Juliana Fortis è deceduta. In realtà, Jules, o Caty, o Casey, o Alex è in fuga da ben tre anni: l’agenzia per la quale prestava la sua opera intellettuale, ha deciso che il momento del suo ritiro fosse giunto talché prima si è sbarazzata del collega scienziato, il Dott. Barnaby, per poi passare alla sua posizione. Ma Juliana/Alex li ha preceduti ed è riuscita a fuggire. Adesso, dopo ben 1095 giorni, i servizi, per il tramite del Dott. Carston, sono riusciti a rintracciarla e a mettervisi in contatto; è assolutamente necessario che riprenda il suo lavoro, un grave rischio batteriologico si abbatte sulla popolazione mondiale e soltanto lei, con i suoi strumenti e le sue tecniche, è in grado di arginarla. In cambio della collaborazione, la promessa di essere lasciata in pace, di tornare ad essere padrona della sua vita.
Così, dopo mille titubanze e precauzioni, Alex accetta la proposta mettendosi immediatamente alla ricerca di Daniel, docente di storia, e presunto collaboratore del sicario che sta progettando l’epidemia. Sin dal momento però in cui ella viene in relazione con lui, si rende conto che qualcosa non torna e che le informazioni che ha ricevuto non solo non combaciano con la realtà ma che l’accusato è in verità innocente. Purtroppo detta consapevolezza avviene successivamente all’inizio della procedura atta a ricevere le informazioni necessarie; Alex è pentita, ha sempre svolto il suo lavoro nel migliore dei modi perché consapevole del fatto che da quanto ricavato ne sarebbe derivato il bene non solo della nazione ma in alcuni casi anche planetario, eppure mai le avevano fornito false piste dirette a farla indagare su un non colpevole. La situazione si complica ulteriormente quando sulla scena dell’interrogatorio sopraggiunge Kevin, presunto fratello deceduto, del professore. Ed è proprio con il suo arrivo che la verità viene a galla, che l’intrigo dell’agenzia dei servizi segreti viene svelato in quella che è una delle sue mutevoli forme e sfaccettature, e che le prede che avrebbero dovuto eliminarsi a vicenda, si alleano. Avendo dando vita ad un piano ben articolato e finalizzato a conseguire la reciproca libertà, i tre faranno di tutto per attuarlo.
Con questa nuova avventura Stephenie Meyer si stacca nuovamente – come in “The Host” – da quello che è il filone vampiresco che l’ha resa nota, dando vita ad una storia piacevole e sufficientemente solida. Molteplici sono i caratteri che la differenziano dal passato, in primo luogo, spicca la scelta della protagonista: Alex, non è affatto una donna debole, anzi. Ella è perfettamente capace di badare a se stessa, è autosufficiente e indipendente. Ma è anche anaffettiva. Non ha minimamente idea di cosa siano le relazioni interpersonali, pertanto quando Daniel si dimostra interessato a lei come donna e non come “specialista”, resta interdetta, non concepisce quale plausibile e possibile il dato di fatto. Il suo approccio ai sentimenti è di tipo scientifico, li affronta con distacco, come se si trovasse di fronte ad un problema matematico da risolvere. Sarà proprio quest’ultimo, figura maschile calma, placida, diplomatica, pura, inesperta e se vogliamo dirle tutte, più debole per sensibilità ed empatia, rispetto alla stessa e al consanguineo, a renderla più umana. I fatti sono inoltre a metà tra realtà e finzione toccando un aspetto concreto – quello degli agenti – mixato ad un carattere di fantasia.
L’opera nel suo complesso si fa apprezzare ed invoglia il lettore a proseguire nello scorrimento delle battute ma risulta altresì essere a tratti farraginosa, forzata, pesante. La scrittrice, infatti, calca eccessivamente sull’aspetto militaresco tanto che le azioni che fa compiere alla dottoressa nonché a Kevin, sono percepite quali surreali, improbabili, inconcepibili. Elemento questo, dunque che fa perdere in parte di smalto allo scritto. Ciò non toglie che l’avventura sia gradevole e che meriti di essere letta, semplicemente ne inficia sul grado di apprezzabilità.
In conclusione, un elaborato interessante con cui la Meyer dimostra non solo di essere capace di staccarsi dal solito filone di appartenenza, ma soprattutto di averne la volontà. Se deciderete di leggerlo, vi consiglio di approcciarvi a questo come OPERA AUTONOMA, ovvero, non aspettatevi di trovarvi ne di fronte a un “Twilight2 la vendetta”, ne tantomeno ad un “The Host parte seconda, il ritorno”. No. “The Chemist, la specialista”, è un romanzo a se stante per contenuto che per problematiche e pertanto non può essere paragonato ai precedenti dell’americana, in quanto, se così fosse, perderebbe della propria autenticità.
Maria Darida - 7 anni fa
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Gorilla nella nebbia - Dian Fossey
Talvolta ci mettiamo tutta la vita a (capire e) deciderci a percorrere quella che è la nostra strada mentre altre volte è lo scopo che si immette nella nostra via con fare travolgente ed indissolubile tanto che è impossibile non riconoscerne i segni; sottrarsi a quello che è il proprio percorso sarebbe una auto-violenza psicologica e gratuita anche quando intraprenderlo necessita una buona dose di coraggio, sacrificio ed il rischio di un “salto nel vuoto”. Questo è un po’ quello che è capitato alla giovane Diane Fossey che all’età di soli 19 anni, nella consapevolezza che per realizzare i propri sogni doveva osare, ha contratto un debito triennale per potersi permettere un itinerario di sei settimane in Africa, luogo e prima tappa che l’avrebbe poi portata ad abbracciare quella che sarebbe stata una scelta di vita.
E se da un lato “Gorillas in the misti” è l’autobiografia della studiosa dall’altro ha un valore inestimabile tanto dal punto di vista zoologico che dell’intrattenimento perché una volta iniziata la lettura è impossibile staccarsi dal testo. E’ un viaggio di sola andata (da cui mai vorremmo fare ritorno) nella foresta vergine, nel mondo dei gorilla ma anche alla di scoperta di concetti di base sulla salvaguardia di una specie a rischio estinzione e per i quali la Fossey è sempre stata irremovibile (tanto da finire con l’essere oggetto di interminabili vessazioni), così come nelle meticolose procedure adottate – e nuovamente criticate – caratterizzate dalla praticità piuttosto che dall’applicazione di rigidi ed obsoleti protocolli. Stilisticamente parlando il componimento è scritto con grande intensità tanto da trasmettere empatia a chi legge che parola dopo parola, pagina dopo pagina si sente accanto a Diane nelle sue scoperte, nelle sue avventure e disavventure. E forse è proprio a causa della sua temerarietà, della sua caparbietà nel percorrere una strada che i potenti non simpatizzavano (la sua attività di difesa dei gorilla inevitabilmente andava contrastando quella dei bracconieri, degli allevatori e di chi nutriva interesse nel commercio/scambio di tali animali) che il 26 dicembre 1985, a colpi di panga nella su capanna, è stata brutalmente uccisa.
Ho ultimato di leggere questo romanzo oltre un mese fa ma ho sinceramente avuto difficoltà a staccarmene tanto che ho deciso di rileggerlo una seconda volta prima di recensirlo. Questa scelta è stata dettata da molteplici fattori; uno dei tanti è la passione, l’autenticità ed il rispetto che lo scritto suscita. Altro elemento che mi ha indotto ad una rilettura e che ha destato in me perplessità è il fatto che per potersi allietare con questa autobiografia è necessario procurarsela in lingua originale perché in italiano non esistono vecchie copie o ristampe (e dunque volevo essere certa di aver capito bene). Nel mio caso ho acquistato la versione inglese arrivata direttamente da quel di Londra in tempi talmente rapidi che mi hanno fatto nuovamente riflettere sull’efficienza delle poste nel nostro paese (considerate che nella mia cittadina per mandare una raccomandata dalla via x alla via y dello stesso comune ci vuole più tempo che tra due diversi, ma questa è un’altra storia) e che è avvalorata da foto della vita nella foresta, requisito che incrementa il valore dell’opera.
Un dettaglio (forse per alcuni) che mi ha fortemente infastidito è la copertina: perché la casa editrice ha scelto di riportare una foto dell’attrice protagonista della trasposizione cinematografica del testo (Sigourney Weaver con in braccio un gorilla) e non una della donna che ha dedicato ogni giorno della sua vita adulta allo studio dei Gorilla (cosa che avrebbe continuato a fare sino alla sua morte naturale se non fosse stata prematuramente uccisa)? Non solo, altra peculiarità che dopo alcune ricerche nel web effettuate mentre ero alla ricerca della mia preziosa copia mi ha dato da pensare, è stato il fatto che in Italia il libro è stato trasposto, non solo con oltre un decennio di ritardo dalla sua pubblicazione originale, ma anche con la dicitura “traduzione a cura di Danilo Mainardi” (un noto etologo del tempo per i conoscitori del settore) e non con il nome del vero curatore “Gianluigi Mainardi”. Errori, dettagli e/o disattenzioni che da una casa editrice del calibro della Enaudi sinceramente non mi aspetto e tanto meno tollero. Così come non concepisco perché un romanzo del genere non sia ristampato semplicemente perché datato, o con la scusante di un argomento scomodo e non vendibile seppur attuale vista la forte sensibilizzazione che negli ultimi anni si sta affermando in merito alla questione animale (tanto che chi vi è interessato debba sentirsi rispondere:-“ahahah! Sta scherzando spero, lo cerchi in un mercatino dell’usato”-). Profonda indignazione. Ma si sa, il Dio denaro comanda anche nel settore dell’editoria.
Concludo semplicemente dicendo che la permanenza dell’autrice nel territorio africano le ha permesso di offrire con chiarezza e certezza anche quella che era la condizione interna di tali stati, essa si è resa conto quasi immediatamente della profonda instabilità politica che in essi regnava, dei conflitti di interesse esistenti tra le varie etnie e della crescita anomala delle varie economie pronte a vendersi senza indugio al miglior offerente, così come aveva compreso quanto una politica di conservazione ambientale deve imparare a muoversi in queste condizioni.
Maria Darida - 7 anni fa
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Lo strano caso dell'apprendista libraia - Deborah Meyler
Esme Garland, ventitré anni, è una giovane ragazza inglese in quel di New York. Dottoranda presso la Columbia, la studentessa ha instaurato una presunta relazione amorosa con Mitchell van Leuven docente di economia appartenente ad una famiglia più che benestante. Vuoi per la disattenzione di lui, vuoi per l’ingenuità di lei, la jeune femme si scopre incinta (non ha bisogno nemmeno di constatare un ritardo nel ciclo per rendersene conto, è per lei sufficiente un mero maggiore appetito durante un pranzo con il compagno per appurarsene. Il test di gravidanza, non farà che confermare la sua autodiagnosi). Che fare? Abortire o tenere il bambino? Dirlo al padre oppure tacere? Alla fin fine escono soltanto da poche settimane ed hanno avuto un unico rapporto senza protezione… Sulla scia di questi pensieri la Gardland opta, senza francamente aver ponderato bene le conseguenze e la portata delle sue scelte, di proseguire con la gravidanza.
Sa benissimo di essere sola avendo i genitori in terra madre, di non poter contare sul professore, di non avere risorse economiche per mantenere il nascituro ma non vuole interrompere il flusso di vita che le sta crescendo dentro e così va avanti, con il dottorato da un lato, e trovandosi un lavoro presso la Civetta – una deliziosa libreria locale, dove presterà la sua opera nel pomeriggio – dall’altro. E’ qui che conoscerà Luke, George, Dennis e tutta una serie di personaggi che nel concreto la sosterranno nei mesi che l’aspettano.
Dal punto di vista amoroso, la ragazza si ostina. E’ chiaro ed inequivocabile che Mitchell non la ricambia; più volte infatti l’ha tradita, ha mal reagito alla rivelazione di poter diventare padre (non sia mai! Un figlio fuori dal matrimonio con il mio rango sociale? Ma non scherziamo) e non è mai venuto meno ai suoi impegni e ai suoi interessi per aiutare la libraia. In ogni momento, di difficoltà e non, lui non si è mai dimostrato disponibile inducendo Esme a fare affidamento quando sulla vicina di casa Stella, quando su Luke, quando sui colleghi di lavoro. E’ il classico padre padrone che la vorrebbe relegare dietro ai fornelli, e che insensibile ai desideri della fidanzata (arriverà persino a chiederle di sposarla pur di ottemperare all’errore fatto, richiesta che nel suo intimo cela una inesauribile sete di controllo), vorrebbe pianificare ogni sua attività giornaliera; attività in cui ovviamente non è contemplato il dottorato. Il lavoro? Nemmeno questo è apprezzabile poiché lo staff della Civetta è eccessivamente maschile.
E lei? Semplice, lei tace, assorbe e si fa schiacciare da lui sino alla “rivelazione”. Il problema è che Esme confonde l’amore con l’infatuazione senza accorgersi di chi ha veramente accanto, senza ascoltare quel che il suo istinto ed il suo cuore le sussurrano.
Stilisticamente l’opera non cattura, si perde in dettagli di poco conto, non approfondisce gli aspetti che al contrario avrebbero potuto fare leva sul lettore, primo fra tutti Luke e la Civetta. I personaggi non funzionano, sono scarsamente delineati, superficiali così come i dialoghi che li vedono partecipi. Non solo, l’autrice si incaponisce in modo aberrante sulla figura di Mitchell, che diventa una fissa per la protagonista (ed un riccio sotto un piede per il lettore), quando invece, sfoltendo su questo aspetto (che è quasi la totalità dell’opera, badate bene) e concentrandosi maggiormente sulla libreria e i rapporti umani – non necessariamente amorosi –, avrebbe reso l’elaborato nettamente più piacevole, di facile scorrimento e concreto. Il titolo è oltretutto fuorviante, inadatto, inadeguato.
Apprezzo l’idea del finale in sospeso, chiaro tentativo di dimostrare quanto la vita in realtà sia in bilico e quanto non si possa sempre auspicare al “lieto fine”, ma nel complesso il testo non convince, non arriva. Se si esclude la libreria, troppe sono le leggerezze, troppi gli aspetti tirati via, troppe le circostanze lasciate al caso.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il cuore selvatico del ginepro - Vanessa Roggeri
Iannetta ha una sola colpa, quella di essere una coga. Sin dalla sua nascita in quel di Baghintos il 31 ottobre 1880 il marchio l’ha segnata e relegata in una condizione di disprezzo, di isolamento e violenza gratuita, non solo da parte delle sorelle, dei genitori e dei familiari, ma anche dei compaesani medesimi. La sua presenza è mal vista, ella è sinonimo di malasorte, di malvagità e pertanto va allontanata, se non addirittura uccisa. Questo è un atto necessario: il sacrificio di una vita per la sopravvivenza di quella degli altri. Indispensabile è agire prima che la coga si nutra del sangue umano, prima che la strega possa cibarsi del nettare pulsante dei neonati.
La giovane non è altro che una reietta, un’anima abbandonata a se stessa. Soltanto Lucia, la primogenita delle sorelle Zara, percepisce che in lei c’è ben altro, che forse la superstizione popolare ha avuto la meglio sulla ragione condannando una bambina alla fame, alla malattia, alla povertà.
«Era talmente radicata in lei l’abitudine ad essere odiata e scacciata da tutti che persino avvicinare un animale morto sembrava più sicuro rispetto a uno vivo. Le cose morte non protestavano e nemmeno bestemmiavano augurandole il male. In questo modo tutto suo Iannetta riusciva a sentirsi un po’ meno sola» p. 76
Ed infatti, mentre le altre sorelle sono fomentate dalla credenza, Lucia instaura con Iannetta un rapporto basato su gesti, sguardi, silenzi, parole non dette, un legame che riuscirà ad andare oltre le apparenze e che le permetterà, seppur dopo un piccolo periodo di vacillamento, di salvare la minore da sorte avversa riuscendo anche a concederle una parvenza di quella vita che tutti si assurgevano il diritto di toglierle. In una particolare fase della sua crescita, anche quest’ultima sarà colta dal dubbio, dalla paura, ma grazie a Giuseppe – colui che poiché venuto da fuori non può capire talché è bene che lasci le cose di Baghintos a Baghintos – e al raziocinio, si staccherà da quel contesto abietto che la circonda agendo in bene.
Un romanzo intriso di malinconia, un elaborato che pagina dopo pagina colpisce il lettore battendo su quelle che sono le leggende, i retaggi culturali, l’ignoranza. E’ un libro che, avvalorato da uno stile semplice e scorrevole, è capace di suscitare in chi legge sentimenti contrastanti che si attraggono e respingono come Lucia e Iannetta.
Maria Darida - 7 anni fa
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