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Espiazione - Ian McEwan
Briony Tallis ha tredici anni in quell’estate del 1935 che segnerà non solo la sua vita ma anche quella delle persone care che ha intorno. E’ appena adolescente, eppure lo sa: il suo destino è scrivere. Appartenente ad un alto ceto sociale, giovane, immatura, dalla fervida immaginazione non ha alcuna remora, non ha alcun indugio nel porre in essere serie e gravi accuse nei confronti di Robbie Turner, figlio della governante, reo di essere un ottimo studente desideroso di conseguire una seconda laurea in medicina nonché di amare Cecilia, la sorella maggiore dell’accusatrice. Ed è così che, quella calda ed apparentemente innocua giornata, si tramuta in un incubo, in un giorno funesto che cambierà inesorabilmente le sorti dei protagonisti di McEwan. Da quella sera infatti, Cee interromperà ogni rapporto con la famiglia divenendo infermiera, Robbie, seppur innocente, sarà condannato ed incarcerato – per poi ottenere uno sconto di pena con l’arruolamento al fronte – e Briony toccherà con mano quelle che sono le conseguenze delle proprie azioni. Di fronte alle sue dichiarazioni, nessuno si è interrogato sulla reità delle medesime, alcuno si è preso la briga di sentire anche la vittima o semplicemente di cercare un altro colpevole. E perché, d’altra parte, sottoporsi ad un tale disturbo quando una capro espiatorio era già stato offerto su un piatto d’argento? Quella bontà che per anni si era palesata non era altro che una parvenza di buone intenzioni, non era altro che un mix di falsità e generosità di circostanza. E’ bastata infatti una semplice ed infondata insinuazione a far si che, senza appello, l’individuo fosse macchiato del crimine abietto ed ogni muro fosse innalzato nei suoi confronti.
Divisa in più parti, l’opera dell’inglese classe 1948, ruota interamente sui sensi di colpa analizzati e vissuti da molteplici prospettive. Lo scritto, infatti, si divide in quattro parti; una prima incentrata su una sola giornata – quella del misfatto – ed espressa dalla tredicenne, una seconda avente quale io narrante Robbie, il suo senso di colpa, la sua abnegazione, il suo mutamento, la sua delusione, il profondo senso di morte e distruzione che lo circonda in guerra, una terza che rivede quale riferente una minore dei Tallis, quasi diciottenne, attanagliata dalla coscienza dell’errore eppure incapace di fare qualcosa nel concreto («Briony era tranquilla, mentre rifletteva su ciò che doveva fare. [..] Sapeva che cosa ci si aspettava da lei. Non soltanto una lettera, ma una seconda stesura, un’espiazione. Ed era pronta a incominciare» p. 357). Infine, in una simbolica quarta parte, che potrebbe considerarsi un epilogo, le considerazioni di un’ormai settantasettenne Briony, concludono il messaggio di McEwan facendo riflettere il lettore, portandolo alla consapevolezza di quell’espiazione tanto richiesta, bramata, desiderata, eppure impossibile da realizzare.
Stilisticamente parlando l’opera è avvalorata da un linguaggio ricco, erudito, e, se vogliamo essere puntigliosi, nelle descrizioni dei luoghi persino troppo prolisso. La prima parte, 194 pagine, in particolare, seppur costituisca una perfetta fotografia della società del tempo, poteva essere sintetizzata, onde garantirne un maggiore scorrimento. Eppure, pagina dopo pagina, se ne comprende l’essenzialità. Ogni parola è un tassello atto a ricomporre un puzzle, mirante a ricostruire la psiche di ciascun protagonista così da renderlo palpabile, concreto, tangibile, reale. E seppur quindi la prima sezione si dimostri essere più lenta, dalla seconda, “Espiazione” prende campo con tutta la sua forza dilaniante, scuotendo chi legge, arrivando nel profondo. Il tutto è avvalorato da un’impostazione analitica che può risultare fredda, apatica e dal giocare continuamente sui fraintendimenti, sulle leggerezze e sulle conseguenze che “cose poco pensate” possono provocare. Geniale l’idea della del libro nel libro, interessanti le considerazioni e autocritiche dello scrittore. Sin dalle prime battute è infatti identificabile in Briony la figura di McEwan talché le valutazioni sulla forza ed impotenza, al tempo stesso, della scrittura, dell’io pensante che inforca una penna e/o si accinge a trasportarsi innanzi ad una macchina per scrivere più o meno evoluta, risultano essere esaustivi moti di coscienza.
Personalmente ho ritenuto la parte relativa al fronte di Robbie e quella finale di autocritica di un’adulta Briony, gemme di rara bellezza nonché reale fulcro dell’elaborato. E’ in queste, di fatto, che sono intrisi la morale ed il messaggio dell’autore.
«Il problema in questi cinquantanove anni è stato un altro: come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile, ed è proprio questo il punto. Si risolve tutto nel tentativo.» p. 380
Maria Darida - 6 anni fa
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Passeggeri notturni - Gianrico Carofiglio
Con questa raccolta di trenta racconti di tre pagine ciascuno, Gianrico Carofiglio si cimenta in una delle più ardue imprese: riuscire a far riflettere il lettore su una molteplicità di temi con poche e semplici battute.
La forza di questo testo è infatti la sinteticità. L’autore riesce a far convergere l’attenzione su circostanze tra loro estremamente varie, circostanze che vanno dalle assurdità legali, alle ideologie politiche, al disagio sociale, alla filosofia morale, all’amicizia, ai legami familiari, alla perdita, alla capacità di leggere tra le parole dell’interlocutore di turno, e molto altro ancora, attraverso uno stile pulito, diretto, ironico, sarcastico.
L’approccio all’opera è in crescendo. Ab initio, scorrendo le prime pagine, viene spontaneo – soprattutto a chi già conosce la capacità dell’ex magistrato – chiedersi ove lo scrittore voglia andare a parare con questa serie di brevi storie quasi elencate con precisione matematica, poi però, un passo alla volta, il suo intento si manifesta con chiarezza e cristallinità. Da detto assunto deriva anche il naturale collegamento tra le une e le altre; vicende unite tra loro da un filo invisibile semplicemente indistruttibile.
Non forse il miglior Carofiglio, ma certamente una lettura intima da affrontare e vivere attraverso la propria personale esperienza e la propria e personale sensibilità.
«”Chesteron diceva che le fiabe non servono a spiegare ai bambini che i draghi non esistono. Questo i bambini lo sanno già”.
“E a che servono? – mi ha chiesto lei”
“Le fiabe servono a spiegare ai bambini che i draghi possono essere sconfitti» p. 10
«Il vero viaggio di scoperta non è cercare posti nuovi ma avere occhi nuovi» p. 49
«La morte non è niente. Io sono solo andato nella stanza accanto.» p. 94
n.b. = il testo potrà lasciare insoddisfatto e/o "far storcere il naso" a chi cerca ed ama il Carofiglio classico e non quello della "sperimentazione".
Maria Darida - 6 anni fa
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L'amica geniale - Elena Ferrante
Anni 50. Lila Cerrullo, classe 11 agosto 1944, e Elena Greco, classe 15 agosto 1944, vivono in una Napoli ancora provata dagli anni della guerra, una realtà ancorata ai vecchi principi e per questo poco incline al cambiamento. Lenù e Lila conoscono la povertà, conoscono il sacrificio ed il prezzo di quella società fondata sul “faticare” dove studiare è solo un corollario aggiuntivo e superficiale che non deve sostituirsi mai al lavoro, cardine essenziale e primario di ogni uomo.
Ed è in questo contesto che nasce la loro complessa amicizia; un rapporto di amore-odio, di invidia e di compensazione, di competizione e di limite, un legame stratificato e corroborato di così tante sfumature che è impossibile descriverlo a parole. Le vite delle due protagoniste scorrono parallelamente sino al termine delle classi elementari; ove a ognuna è concesso il diritto di andare a scuola ad imparare a leggere e a far di conto. Entrambe sono molto brave, ma Lila spicca di quella intelligenza mixata ad un carattere ribelle che mai Lenù, al contrario diligente e retta, avrà. E tanto sono diverse caratterialmente, tanto lo sono fisicamente, queste due eroine. Se la Greco è bionda, prima più alta e ciocciotta, di poi con l’adolescenza più bassa e formosa, Lila è dapprima bassina, magrissima e ossuta, di poi alta, slanciata e fortemente desiderata. Giunte al termine delle classi primarie, inevitabile la separazione. Vani i tentativi della maestra Oliviero di convincere i rispettivi genitori a far studiare le sue pupille. Lila deve rimboccarsi le maniche, è la risposta. I soldi servono. Elena, dopo molte azioni di persuasione, potrà al contrario continuare. E sarà così brava, così meticolosa da riuscire non solo ad ultimare le scuole medie ma ad intraprendere gli studi presso il liceo classico ove si distinguerà per essere la migliore; risultato che conseguirà, paradossalmente, proprio grazie al contributo indiretto dell’altra che privata della possibilità di continuare ad apprendere – lei che è una spugna mossa da insaziabile curiosità – imparerà, mediante i testi della biblioteca – da autodidatta non solo il latino ma anche la lingua greca.
Più passano gli anni e più quel sentiero intrapreso, quella via comune, si allontana e riavvicina, si intreccia per poi nuovamente riallontanarsi. Lenù, per la formazione ricevuta, non può più rivedersi negli amici del Rione, ma non può non rispecchiarsi in Lila suo antecedente necessario. Quest’ultima all’opposto, per fuggire alle attenzioni di Michele Solara, camorrista, decide di legarsi sentimentalmente a Stefano, il salumiere figlio di Don Achille; scelta questa che la segnerà indelebilmente.
Quelle che abbiamo davanti con l’opera della Ferrante sono pagine pulsanti, un fiume palpitante di parole che rende concrete Elena, l’amica geniale capace di coadiuvare intelligenza e volontà, e Lila di fatto la più dotata, considerata la più cattiva eppure oggettivamente colei che maggiormente sente il peso dell’ambiente, della famiglia, di una bellezza non richiesta che cerca di offuscare quella mentale, quella che non sa liberarsi degli altri per emergere, quella che invita l’altra a studiare sempre.
«”Qualsiasi cosa succeda, tu continua a studiare”
“ Altri due anni: poi prendo la licenza e ho finito”
“No, non finire mai: te li do io i soldi, devi studiare sempre”
Feci un risolino nervoso, poi dissi:”Grazie, ma a un certo punto le scuole finiscono”
“Non per te: tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine”». P. 308-309
“L’amica geniale” non è però soltanto il racconto di questa particolare amicizia, “L’amica geniale” è un elaborato che narra di una società, quella napoletana negli anni successivi al conflitto, è uno scritto che descrive i rapporti umani, che analizza la dimensione del quartiere, che scarna il binomio povertà-ricchezza, che si incentra sull’ingerenza pregnante dei genitori sui figli; un’influenza talmente forte da determinarne le sorti (basti pensare alla madre di Elena che prima la denigra perché studia, poi le rinfaccia di mescolarsi alla “feccia” dopo i sacrifici fatti per farle prendere il titolo). A contorno delle due figure principali, abbiamo inoltre una serie di personaggi secondari tutti accomunati da un denominatore comune: la voglia di riscatto, economico ma anche culturale e morale. La Ferrante sembra voler invitare chi legge a riflettere sulla durezza della vita; che è lotta, emersione, materialità e non materialità. E lo fa senza remore, senza nulla risparmiare. Il tutto è avvalorato da una penna che accarezza, munita di uno stile apparentemente semplice, in verità curato in ogni suo frangente, in ogni suo aspetto.
Primo di una quadrilogia, “L’amica geniale” si dimostra capace di catturare ed affascinare il lettore che giunto a conclusione del romanzo, resta frastornato dal contenuto. Se in di primo acchito il testo può sembrare una storia semplice, con un’analisi più a mente fredda, ragionata, si rivela in tutte le sue sfumature spiazzando. Il finale, in particolar modo, mette il temerario conoscitore in condizione di comprendere quelle che sono le conseguenze ineludibili di una decisione, ormai, chiaramente sbagliata.
Definirlo il migliore della saga, è forse, ad oggi, prematuro, perché si è davanti ad un componimento in crescendo, ma certamente è un libro valido, che merita di essere approfondito e che cattura con la forza della pazienza, della curiosità.
Maria Darida - 6 anni fa
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Carta bianca - Carlo Lucarelli
Aprile 1945, il commissario De Luca, ex comandante, è tornato alla questura, è tornato ad indagare dei crimini comuni prendendo le distanze dalla polizia politica a cui, per ragioni di servizio, è dovuto sottostare negli anni di dittatura. Ed è così che si trova ad investigare sulla morte di Vittorio Rehinard, personaggio noto per i suoi festini del venerdì, appartenente al partito nonché fortemente legato alla famiglia Tedesco. Detta morte, avvenuta probabilmente mediante l’ausilio di un tagliacarte, prima conficcato nel cuore e di poi utilizzato per evirare il defunto, è oggetto delle attenzioni dei piani alti talché ben presto il commissario ex comandante si trova a dover far i conti proprio con quel passato da cui vuole prendere le distanze. Giochi e manovre politiche si celano infatti dietro al Rehinard, la cui morte finisce con l’essere utilizzata quale espediente necessario per “incastrare” la persona scomoda di turno.
Ma a De Luca non basta trovare un capro espiatorio a cui attribuire il fatto di reato; egli è un uomo curioso, che quel colpevole lo vuole trovare davvero. Ci riuscirà? O le forze che gli orbitano intorno saranno così pregnanti da impedirgli di portare a termine la sua missione, da impedirgli di compiere quello che è il suo mestiere di poliziotto, mestiere che tutti sembrano voler negare, obliare per dare adito esclusivamente alla sua contribuzione al Fascismo?
Con “Carta bianca” ha inizio la saga che ha quale protagonista il commissario De Luca, uomo provato ma di grande acume dedito alla giustizia. Oltre che ad un romanzo accattivante dal punto di vista dell’intrigo, l’elaborato si dimostra appetibile anche grazie allo stile inconfondibile di Lucarelli che con poche battute riesce, senza difficoltà, a creare trame di suspense e colpi di scena.
Non solo, ulteriore carattere pregnante dello scritto è l’ambientazione. L’autore ricrea ad opera d’arte quella realtà dittatoriale ormai agli sgoccioli eppure fortemente viva nelle pagine del testo. Una buona prova.
«[..] In mezzo a tutta questa confusione pochi sanno veramente chi sono e cosa fanno ed è per questo che ti tieni così attaccato al tuo ruolo, tu che ce l’hai, da dirlo ogni volta che puoi, sono un poliziotto, sono un poliziotto. Così non devi pensare al fronte che si avvicina o ai punti delle tessere per il razionamento. E’ una cosa che faccio anch’io» p. 48
Maria Darida - 6 anni fa
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Poesie private - Antonio Morelli
La poesia è un’arte rara, di indubbia certezza e di grande passione. La poesia ha la capacità di cogliere il fiore solitario di quell’anima che in essa cerca comprensione, riparo, ristoro. Alla poesia, dunque, è attribuita una grande responsabilità; quella di confidente, quella di confidataria. Come un nido ella ci accoglie, come una madre ella ci conforta. I versi contenuti in“Poesie private”, sono perfetta espressione di ciò. Sono intensi ed accoglienti, puri e profondi.
Antonio Morelli, con la sua trama espressiva e la sua penna chiara, limpida e diretta, dà vita, infatti, ad un’opera dai tratti sommessi, dimessi, eppure forti e dirompenti. Ogni parola è studiata e densa di significato. Ogni parola è espressione di dolore, perché si, Antonio Morelli, è un uomo che nella sua vita ha sofferto, ha lottato incessantemente e si è scontrato spesso con la solitudine. Ma senza mai arrendersi. Ogni parola così patita, così sentita, è al contempo sinonimo di volontà, di riscatto, di via d’uscita contro quella sorte avversa che colpisce il genere umano sulla Terra.
Come fuggire dai contorni a cui la mente è costretta, come convivere con la malinconia, come coadiuvare il giardino, sinonimo di realtà, con quell’aquilone espressione di libertà, eppure temerariamente legato ad un filo? E’ attorno a questi quesiti e a questi due elementi che si snoda la raccolta; elementi, interrogativi e caratteri che se ascoltati sanno tramutarsi in immagini, figure che si fanno portavoce di sentimenti dell’anima, di bisogni della stessa, di desiderio di ordine e di bilanciamento tra speranze, illusioni e disillusioni.
«Ricerca l’abbraccio delle stagioni estreme» ci sussurra il poeta «ed un serto di rose bianche sarà il dono alla tua solitudine » (cit. “Solitudine con canto” p. 16 A.M. “Poesie Private).
«Suona vento marino. Novera i battiti della mia anima confusa. Circonda il fiato alterato del mio incedere» [..] «Il mio mattino invernale è affiorato. Il mio cuore d’oro ha taciuto» (cit..”Mare in inverno” p. 36-37; A.M. “Poesie Private”).
Ed è sulla scia di questi versi che vi affido “Poesie Private”, che vi invito a gustarne le pagine, che vi consiglio di farvi rapire dalla penna di un autore tutto da scoprire, che fa delle emozioni la sua forza e la sua peculiarità. Non ve ne pentirete.
Buona letttura!
Maria Darida - 6 anni fa
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Intrigo italiano - Carlo Lucarelli
Bologna. Il corpo di Mantovani Stefania in Cresca, classe 23 agosto 1922, viene rinvenuto privo di vita nell’appartamento usato dal marito, Mario, per le serate da scorribande con amici e “amiche”. Del caso viene investito l’ex commissario De Luca, il quale partito da Roma, si ritrova a lavorare per i servizi e a dirimere un mistero molto più oscuro ed intricato di quel che potevasi pensare ab initio.
Di fatto, il poliziotto, si riscopre di fronte un delitto non isolato, un omicidio – e non un suicidio come potevasi pensare – cioè, collegato ad altri decessi le cui indagini sono state archiviate con inspiegabile rapidità. Ma chi aveva interesse a far cadere nell’oblio dette morti? Qual è inoltre il ruolo di quella voce tanto suadente quanto roca e profonda di Claudia/Franca, personaggio femminile tanto affascinante quanto enigmatico? E quello del Fiorentino Giannino? Può davvero fidarsi, De Luca, di questo ragazzone-ragazzino, manipolato e sfruttato dai servizi eppure furbo e con gli scrupoli morali e l’allegria di un bambino che frigge di fronte ad un giocattolo nuovo?
Con “Intrigo italiano. Il ritorno del Commissario De Luca”, Carlo Lucarelli dà vita ad un giallo sottile, lineare privo di particolari colpi di scena e dall’epilogo intuibile, ma al tempo stesso accattivante e fluente. L’autore, infatti, ben mixa le componenti storiche con quelle del caso che, snodandosi negli anni ’50, è munito di tutte le caratteristiche necessarie per rendere concrete le vicende e permettere al lettore di sentirsi parte integrante di quella fase. Sulla scia del periodo Fascista, giunto a conclusione ma non ancora dimenticato e per questo oggetto di reminescenze su chi per ragioni di sopravvivenza non aveva potuto sottrarsi dal farne parte, De Luca in primis, e sulla scia della guerra Fredda, ove spie russe si connubiano perfettamente con quelle americane ed italiane, i fatti si faranno sempre più incalzanti per risolversi ,infine, in quello che è un vero e proprio intrigo tutto italiano.
Stilisticamente la penna di Lucarelli non delude risultando essere munita di quella verve magnetica che gli è propria. Lo scrittore riesce inoltre a dar vita ad un testo che è perfettamente leggibile da tutti, tanto da chi conosce dell’ex commissario, quanto da chi vi viene in contatto per la prima volta
In conclusione, non indimenticabile ma certamente da leggere. Una buona prova.
Maria Darida - 6 anni fa
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Tutta la luce che non vediamo - Anthony Doerr
«Vede cose che gli altri non vedono. Che cosa non ha fatto, la guerra, ai sognatori» p. 487
«Aprite gli occhi e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre» ci sussurra, attraverso i suoi personaggi, Anthony Doerr. La sua voce è un invito costante, leggero e penetrante che va ben oltre le parole, che va ben oltre la mera e semplice facciata, che giunge diretto sino al cuore tale è la verità di queste semplici, eppure tangibili, espressioni.
1934. Marie-Laure Leblanc vive a Parigi col padre, fabbro presso il museo del luogo, quando ad appena sei anni perde la vista a causa di una cataratta congenita bilaterale insanabile.
Werner Pfenning, otto anni, orfano, vive con Jutta, la sorella seienne, nell’orfanotrofio tedesco gestito da Frau Elena. Munito di grande intelligenza ed attitudine matematica, ben presto scopre le radio e da quel momento, quelle onde, diventano la sua vita. Studia da autodidatta ed inconsciamente spera di poter fuggire al destino delle miniere, luogo ove sarebbe stato inevitabilmente destinato al compimento del quindicesimo anno di età nonché unica fonte di sostentamento della zona e rea confessa della morte del padre.
L’imminente scoppio della guerra muta le sorti di ciascun protagonista. La ragazza, che pian piano ha imparato a leggere il braille, fugge dalla capitale col padre per recarsi a Saint-Malo, cittadina bretone protagonista storicamente nota per i fatti di guerra occorsi; il giovane, grazie alla sua fama di riparatore, viene notato da un ufficiale e destinato all’Istituto di educazione nazionalpolitica di Schulpforta dove imparerà l’arte militare, i segreti della scienza, ma anche a far fronte ai rumori della coscienza, percepiti, vissuti mediante il tramite di Friedrich, seppur inascoltati, perché ancora non maturo il tempo. Werner che d’altra parte è sempre stato piccolo per la sua età e che badava a sua sorella, di fatto difficilmente si è sottratto ad un compito, difficilmente non ha fatto ciò che ci si aspettava da lui.
Passano gli anni, salti temporali ci aiutano a ricostruire la loro storia, il loro cammino, il loro inevitabile fugace incontro. E non vi è odio né giudizio, in queste pagine, ma soltanto consapevolezza. La prima sensazione che viene percepita dal lettore è proprio questa assenza, si fa rapire dai fatti, dalle voci narranti, si immedesima in ciascun protagonista, eppure non giudica né il tedesco né il francese. Empaticamente li comprende, tanto che la sofferenza da ciascuno provata, diventa sua. Propria, unica, intima. Passo dopo passo scopre un volto nuovo del Secondo conflitto Mondiale, riflette su una semplice costante: la guerra, da qualsiasi parte la si osservi, da qualsiasi fronte la si combatta, non porta mai vincitori, ma solo vinti. Perché il prezzo da pagare è sempre alto, e si conta in vite umane che prima di essere strappate al loro ultimo alito, al loro ultimo respiro, affrontano un percorso di dolore e privazione che è sempre peggio della morte in sé. Perché alla fine dei giochi, “il sangue è sempre rosso”. E questa distanza dal giudizio, questa assenza di preconcetti, di colpevoli ed innocenti, induce alla riflessione.
Ma “Tutta la luce che non vediamo”, non è solo questo. Partendo da detto presupposto dipana la sua forbice attraverso due protagonisti così diversi e così eguali, entrambe giovanissimi, entrambe attaccati alla loro valvola di sfogo – la lettura, lei; la radio lui – pur di sopravvivere, pur di andare avanti e convivere con il malessere. Ella, con i libri, fa fronte alla solitudine determinata dall’assenza del padre di cui si perdono le tracce una volta che viene arrestato in quel che doveva essere un breve soggiorno a Parigi. Con questi vive, vede, supera il limite dei non vedenti, è parte integrante di quel romanzo, “Ventimila leghe sotto i mari”, che l’accompagna per tutti quegli anni di nascondiglio. Lui, con le sue onde radio, cerca di non pensare al conflitto, alle parole della sorella che ha sempre visto, che ha sempre saputo, si interroga sul giusto e sullo sbagliato, prende consapevolezza di quel che lo circonda ma soltanto sul finale trova il coraggio di staccarsi da quel che gli altri gli dicono di fare, da quel che gli altri si aspettano che faccia, per essere individuo e non truppa. Per essere persona che medita e ragiona e non mero esecutore di comandi.
Ed è proprio nell’epilogo che questo messaggio arriva travolgente, irrefrenabile. Perché la vita va avanti, il suo flusso è inarrestabile, il tempo passa, il passato non perdona, il ricordo non abbandona. Non ci sono vincitori, non ci sono vinti, ma sopravvissuti. Ognuno col suo bagaglio di fantasmi, ciascuno con la sua perdita, cadauno con le sue colpe.
Avvalorato, infine, da un’alternanza di voci e spazi temporali, passando altresì dalla Francia alla Germania, dal 1934 al 1944 e successivi, il premio Pulitzer 2015 Anthony Doerr, ci regala un romanzo di tutto rispetto, un’opera che alla sua conclusione manca, un elaborato che nella sua semplicità rivela verità concrete, uno scritto che si fa vivere dalla prima all’ultima pagina. Indelebile.
«Segui il percorso logico. Per ogni effetto c’è una causa, per ogni frangente una soluzione. A ogni serratura la sua chiave. Puoi tornare a Parigi, puoi rimanere qui, puoi proseguire.» p. 114
«”Quando ho perso la vista, Werner, mi hanno detto che ero coraggiosa. Quando se né andato mio padre, mi hanno detto che ero coraggiosa. Ma il mio non è coraggio; non ho scelta. Mi sveglio e vivo la mia vita. Tu non fai lo stesso?”
“No, da anni. Salvo oggi. Oggi forse l’ho fatto”» p. 456
«[..] Il tempo è una pozza rilucente che ci portiamo fra le mani; bisognerebbe usare ogni energia per proteggerla. Combattere, impegnarsi davvero per non perderne nemmeno una goccia» p. 462
«Che grandi navette di anime possano volarsene in giro, fioche ma udibili se si ascolta con sufficiente attenzione? Fluttuano sopra i comignoli, solcano i marciapiedi, e passano dall’altra parte: l’aria è una biblioteca e un archivio di ogni vita vissuta, ogni frase pronunciata, ogni parola trasmessa, che ancora riecheggia.» p. 509
Maria Darida - 6 anni fa
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Il nostre anime di notte - Kent Haruf
Holt, Colorado. Addie Moore e Louis Waters, entrambi vedovi ed in là con gli anni, sono vicini di casa da tempo immemore eppure la loro conoscenza non va oltre la facciata, la cortesia. Ecco perché la richiesta della donna di iniziare a dormire insieme per fuggire alla solitudine, per sconfiggere la monotonia della routine, delle incombenze, è tanto scandalosa quanto inaspettata. Ha deciso di avere coraggio, Addie, ed è consapevole della possibilità di un rifiuto che di fatto non arriva, Louis, accetta la sua proposta, a sua volta decide di mettersi in gioco, anche solo per curiosità, per vedere a cosa, quell’amicizia, avrebbe portato.
Iniziano così a trascorrere le loro notti insieme, ore in cui semplicemente si sdraiano nel letto, si parlano, si conoscono davvero per la prima volta, si stringono per mano, ascoltano i rispettivi respiri nel silenzio, in attesa dell’alba del nuovo giorno. Come spesso accade, in un primo momento il loro legame dà scalpore, tanto che finisce con l’essere oggetto di chiacchera degli abitanti del luogo. E proprio quando questi finiscono con l’accettare e vedere positivamente l’unione di due persone che vogliono semplicemente condividere le loro rispettive solitudini, fondere il loro tempo in un unico orologio, quello che è la vita, di questo connubio vengono a sapere le rispettive proli. In particolare, Gene, padre di Jamie, nonché figlio di Addie, non approva detto interludio; forte dei risentimenti che nutre verso il defunto genitore, ostacola in ogni modo quell’amicizia non rendendosi conto di quanto al contrario questa sia benefica non solo per la madre ma anche per il piccolo seienne.
Con una trama scarna, silenziosa, che vede sullo sfondo la cittadina che abbiamo iniziato ad amare con “la trilogia della pianura”, con tutti i suoi pregi e difetti, l’opera si basa interamente sul rapporto che si instaura tra i due anziani protagonisti. Pagina dopo pagina il lettore attende come, Louis e Addie, l’arrivo della notte, della condivisione, della scoperta. In queste ore, dove la cittadina riposa, dove non esistono altro che loro, ogni corazza viene meno in un susseguirsi di ricordi che vanno dagli affetti venuti a mancare (dalla presenza dei coniugi rispettivi alla perdita di una figlia), a quelli in contrasto (dai tradimenti alla conflittualità con chi è venuto dalle loro unioni), ai rimpianti per quei lavori inseguiti, per quei lavori insoddisfacentemente intrapresi, alla volontà di donarsi interamente l’uno all’altro, ciascuno al piccolo nipotino e alla dolce sfortunata Bonny. Perché Louis e Addie, che sono all’epilogo della rispettiva esistenza, non hanno altro che da guadagnare dall’instaurazione di un legame profondo, non hanno interesse a curarsi delle opinioni altrui poiché quel che conta è solo il presente. Perché dunque non abbandonarsi a quel flusso di coscienza, a quel puzzle di vita che va pian piano prendendo forma, che va pian piano ricomponendosi? Come non accettare il passato, come non vivere ogni giorno che hanno ancora a disposizione su questa terra come un dono, come un qualcosa di raro e prezioso da custodire ed avvalorare?
Quella che si viene a creare è una nuova famiglia, un nucleo che semplicemente si basa sulla quotidianità, sulla volontà di ascoltarsi e avere in comune un qualcosa, un qualcosa che è quanto di più prezioso ci sia e che si contrappone a quell’insipienza che aveva caratterizzato le unioni coniugali “legittime”. E non manca il tema della malattia che ha visto protagonista Haruf stesso in quegli ultimi giorni obbligati, in quell’addio forzato all’amata moglie, in quella resa incondizionata ad un dolore ormai divenuto sordo ed insopportabile.
Ma Addie e Louis sono due esseri umani, due individui che come tali cercano di far leva sul coraggio, ognuno a suo modo. Lei con la sua passione, la sua voglia di vivere, lui con la sua riservatezza, con la sua riflessività. Ecco perché quando quell’umanità torna con la sua forza dirompente frantumando, o tentando di frantumare, il nuovo costruito, l’inevitabile accade. L’egoismo altrui piega quella voglia di vivere così semplice, pura, intensa.
“Le nostre anime di notte” è un romanzo che prima di tutto spicca per l’urgenza con cui Haruf si consegna al lettore. E’ un elaborato che segue la linea della trilogia di cui sopra per la forza delle tematiche trattate che mai mancano o sono irrisorie nei testi del narratore; e che tuttavia se ne distacca completamente dal punto di vista delle ambientazioni finendo, Holt, con il fare meramente da cornice agli avvenimenti. E’ appena percepita, quasi invisibile. Protagonista indiscusso del volume è l’animo umano, con tutte le sue più variopinte contraddizioni. La sensazione è inoltre quella di abitare in una dimensione temporale sospesa, delimitata nel suo essere da quelle mura domestiche, da quell’intimità che coniuga due cuori; un arco in cui l’ineludibilità della conclusione dell’esistenza è rappresentata proprio da quell’attesa della notte.
E’ un Kent Haruf diverso, quindi, quello che conosciamo in queste pagine, un Kent Haruf che è mosso dalla volontà superiore di raccontare, di parlare alla compagna nonché all’appassionato conoscitore per un’ultima volta; un’ultima volta “prima che sia troppo tardi” (attraverso una Addie Moore calibrata in ogni sua parola e gesto), ora che, “è già troppo tardi” (mediante un Louis Waters consapevole e certo). E chissà se “li rivedremo..” (attraverso la voce del piccolo Jamie)..
Quel sentire immediato e tangente non può attendere nel suo essere vissuto, ve ne è una esigenza senza eguali. Ma badate bene, questa necessità impellente di vivere, di non perdere nemmeno un attimo di condivisione, non fa venire meno la forza espressiva e la delicatezza propria di un autore maestro nella trasmissione delle emozioni. Questa sua concreta consapevolezza di essere ormai giunto alla fine del suo percorso fa si che non vi sia altro spazio se non quello per quella “nostra vita vissuta insieme” così ricca, così ineguagliabile che nulla, né i rancori, né i rimpianti, né la pura e semplice consapevolezza che un male superiore sta per porre in essere una separazione definitiva, può offuscarla.
La più inestimabile delle dichiarazioni d’amore. Un romanzo breve ma di grande contenuto, un elaborato che arriva con quella forza dirompente dei sentimenti che non vogliono e non possono più essere trattenuti, prima come ora più che mai, uno scritto che è impossibile lasciare, che vorremmo sempre tenere con noi, un testo che commuove e sconvolge, che lascia semplicemente il segno.
«Erano sdraiati uno accanto all’altra e ascoltavano la pioggia.
E così, la vita non è andata bene per nessuno dei due, quantomeno non come ce la aspettavamo, disse Louis.
Anche se adesso, in questo momento, mi sta piacendo molto.
A me sta piacendo più di quanto io pensi di meritare, disse lui.
Oh, ma tu meriti di essere felice. Non credi?
Credo sia quello che mi sta capitando in questi ultimi mesi. Per un motivo o per l’altro.
Continui ad avere dubbi sul fatto che possa durare.
Tutto cambia. Si alzò di nuovo dal letto. [..]
Di nuovo in camera di Addie, Louis mise una mano fuori dalla finestra e sentì la pioggia che gocciolava dalle grondaie, quindi tornò a letto e con la mano bagnata sfiorò la guancia morbida di Addie» p. 88-89
«Chi riesce ad avere quello che desidera? Non mi pare che capiti a tanti, forse proprio a nessuno. E’ sempre un incontro alla cieca tra due persone che mettono in scena vecchie idee e sogni e impressioni sbagliate. Anche se, ripeto, questo non vale per noi due. Non in questo momento, non oggi.» p. 117
«Non puoi aggiustare tutto, non ti pare? Disse Louis.
Ci proviamo sempre. Ma non ci riusciamo.» p. 129
«Bé è proprio quello che stiamo facendo. Chi si sarebbe aspettato che a questo punto delle nostre vite potesse capitare una cosa del genere. Chi l’avrebbe mai detto? Per noi le novità e le emozioni non sono finite. Non siamo diventati aridi nel corpo e nello spirito» p. 132
«C’è un tempo e un luogo per ogni cosa, commentò lui». p. 140
«Allora ai nostri posti ci andranno degli sconosciuti. Senza sapere nulla di noi.
Né del perché si siano liberati quei posti.
E tu continui a non volere che ti chiami io. Non vuoi che sia io a telefonarti.
Ho paura che ci sia qualcun altro nella stanza. Non riuscirei a fingere.
E’ come quando abbiamo cominciato a vederci. Come se avessimo ricominciato. E sei sempre tu quella che deve prendere l’iniziativa. L’unica differenza è che adesso siamo cauti.
Ma stiamo anche andando avanti, non è vero? Disse lei.
Stiamo continuando a parlare. Fin quando potremo. Finché dura.
Di cosa vuoi parlare stasera?
Addie guardò fuori dalla finestra. Vedeva il proprio riflesso nel vetro. E l’oscurità subito oltre.
Fa freddo li stasera, tesoro?»
Maria Darida - 6 anni fa
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La bambina e il sognatore - Dacia Maraini
Nani Sapienza non è il classico maestro di scuola: egli fa del suo mestiere una missione, una passione, gioia, ed orgoglio.
Il suo primo obiettivo è quello di far riflettere i suoi alunni e per farlo si avvale di favole, di racconti, di miti greci, e si, perfino della cronaca nera. Quest’ultimo elemento, in particolare, lo porta a suscitare molteplici malumori, tanto dei genitori della città di S., quanto della preside. La morte di Martina, inoltre, la figlia di otto anni, venuta a mancare a causa della leucemia, è una ferita ancora aperta, è una ferita che ha provocato la pausa del suo matrimonio nonché l’isolamento, la solitudine. Quando dunque, in sogno, gli appare un’altra bambina con un cappottino rosso, a sua volta di otto anni e con la stessa camminata a paperina della sua piccola creatura, una bambina che guarda caso scopre essere misteriosamente scomparsa durante il tragitto per andare a scuola, per lui non è soltanto un caso, è un segno.
Se avete avuto modo di leggere una o più opere di Dacia Maraini, il primo elemento che sovvenirà alla vostra mente è proprio la grande differenza rispetto a predette. In queste pagine, infatti, non troverete le ambientazioni – né le atmosfere – di Bagheria, di Isolina, e neanche, quelle de “La lunga vita di Marianna Ucria”. “La bambina e il sognatore” è in primo luogo un viaggio introspettivo dove la mente è chiamata costantemente a riflettere, ad aprirsi. L’intento dell’autrice è chiaramente quello di porre l’attenzione del lettore su alcune tematiche di particolare rilevanza sociale, e, così facendo, di indurlo alla ponderazione, a chiedersi “perché” e a darsi una risposta. Il tutto avviene attraverso i pensieri di Nani, mediante i suoi dialoghi con gli studenti e grazie ad una scrittura fluida, costante, chiara, ed attuale; una scrittura che si conforma con l’oggetto del testo distaccandosi ulteriormente dai precedenti lavori. Al dialogo tra il docente e la sua classe si somma anche quello interiore dell’uomo con il suo “uccellaccio”, conversazioni dove il suo animo sognatore e fiducioso si contrappone a quello più pragmatico, cinico e amaro.
Tra le varie problematiche trattate, la violenza sulle donne e quella sui bambini, sono pregnanti. A queste se ne aggiungono altre, quali, il fanatismo religioso nei suoi estremismi, la prostituzione minorile, il turismo sessuale, i rapporti padri-figli. Numerosi anche i titoli presenti atti a consentire, al conoscitore, di approfondire il tema (vedi: “La battaglia di una sopravvissuta contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambine” di Somaly Mam, o ancora, “Io nojoud, dieci anni, divorziata” di Nojoud Ali).
Con “La bambina e il sognatore” Dacia Maraini ci invita a guardare il bicchiere mezzo pieno ma soprattutto a cercare il bene anche quando il male sembra essere onnipresente ed onnipotente, ci invita ad interrogarci prima ancora di interrogare e giudicare, a cercare risposte quando le domande finiscono con l’essere celate, obliate. E’ un elaborato fiducioso quello presentato, uno scritto dove ella ci suggerisce di lasciare ai figli uno sguardo aperto sul mondo (ciò traspare soprattutto dai passi in cui in classe, i piccoli musulmani, rischiano di essere schiacciati dalla mentalità dei padri che esigono che smettano di studiare, che non ascoltino parole diverse da quelle del genitore), un testo forte dove la scrittrice parla alla ragione, da intellettuale, da filosofa, dove senza indugi abbandona il suo stile classico onde consentire alla chiacchierata con chi ha intorno.
In conclusione, disturbante, profondo, riflessivo.
«Spero solo che tu ci rifletta sopra, Ahmed, devi capire da te dove il ragionamento fila e dove diventa ingarbugliato.. me lo fai questo favore? Ci provi a ragionare con la tua testa? Io non ti dico di scegliere fra le cose che dice tuo padre e quelle che ti dico io, ti prego solo di pensare con il tuo cervello, perché tu, come me, come tutti gli altri qui dentro, sei dotato di un motore che funziona perfettamente, e questo motore si chiama mente. E sono sicuro che, come me, come noi, la tua mente conosca il senso della giustizia. Ora ti chiedo: è giusto considerare inferiore un bambino solo perché di pelle nera e di religione diversa, quando sappiamo che quella pelle deriva dalla melanina e non da una cultura inferiore e quella religione ha lo stesso diritto della tua di essere praticata?» p. 93
«Non so quanto resisterò in questo paesino di montagna, mangiando pesce di lago e di fiume, ascoltando i discorsi amari di mia madre, guardandola muoversi come una leonessa in gabbia. Ma pure so che non me ne andrò fino alla fine della vacanza, perché la tenerezza mi prende alla gola; assieme a una pietà rabbiosa, alla voglia di scappare, e anche di abbracciarla e di baciarla su quel collo di tartaruga. Perché so che, come dice lei, questa è l’ultima occasione per starle vicino. E dopo ci perderemo per sempre» p. 172
«Ma lui ridacchia e pretende di esprimere il suo rozzo pensiero che identifica col buon senso, un po’ come il coro che commenta le azioni dei protagonisti nella tragedia greca: si presenta quale assennatezza ma è solo conformismo» p. 221
«E’ consolante per una comunità pensare che la responsabilità stia altrove, che i malandrini non appartengano a quel luogo, e che degli sconosciuti malviventi siano venuti da fuori a uccidere e devastare il povero quartiere innocente. La città intera si considera estranea a questa sparizione di cui ormai non si parla più, ma che pesa sulle coscienze dei più sensibili. Ci si può liberare di un enigma risolvendolo, dicono i saggi, non seppellendolo. Anche se ormai siamo abituati a seppellire tutto, perfino le più schifose immondizie: un poco di terra sopra e buona notte! Ma ogni tanto la terrà si apre e manda fuori un improvviso puzzo di foglia. E i pettegolezzi riprendono» p. 267
Maria Darida - 6 anni fa
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Una perfetta sconosciuta - Alafair Burke
La trentasettenne Alice Humphrey mai si sarebbe aspettata che quel lavoro, caduto dal cielo proprio nel momento del bisogno, si sarebbe rivelato un’arma a doppio taglio. Quando infatti il sedicente Drew Cambell le propone di gestire una piccola galleria nel Meatpacking District, la “Highline Gallery”, la donna, che da otto mesi è in stato di disoccupazione, accetta senza porsi troppe domande. Non si insospettisce minimamente del fatto che l’autore delle foto esposte, Hans Schuler, non voglia (e si rifiuti di) apparire, né del fatto che un presunto anonimo benefattore lo abbia preso sotto l’ala, né dell’assenza ed irreperibilità di colui che l’ha contattata, tanto che, anche se ritiene il contenuto delle immagini alquanto opinabili, il suo unico pensiero è quello di, almeno per una volta, avere il merito delle sue imprese. Alice, figlia d’arte di Frank Humphrey, regista, e dell’ex attrice, Rose Sampson, nonché sorella del quarantunenne Ben Humphrey, fratello problematico con precedenti in materia di droga, da sempre cerca di riscattarsi dal marchio di “figlia di papà”. Quale migliore occasione? I preparativi iniziano e si prolungano per appena tre settimane; il lancio della galleria non manca di farsi attendere e sorprende addirittura la stessa direttrice che, per quante aspettative potesse nutrire, non sarebbe mai arrivata ad ipotizzare un così eclatante furore e corsa all’acquisto delle foto. Il giorno seguente, le accuse. Pornografia. Pedofilia. Riuscitasi a mettere in contatto con Drew, si accorda col medesimo per parlare dei fatti il mattino seguente. Giunta in Galleria viene subito colpita da una serie di elementi: le vetrate della medesima sono state interamente coperte da fogli di carta da pacchi, all’interno non riesce ad accendere le luci, tutti gli oggetti che ne caratterizzavano l’arredamento sono scomparsi, ed il suo capo è riverso in una pozza di sangue. La polizia, non tarda, inoltre, a sottoporre alla sua attenzione, una foto che sembrerebbe ritrarla nella posa di un bacio col defunto. Ma come questo è possibile, se, di fatto, ella a malapena lo conosceva ed il massimo del contatto fisico avuto altro non era che il premere le proprie dita sulla carotide per verificarne il battito cardiaco? Che qualcuno stia cercando di incastrarla?
Joann Stevenson, ragazza madre, ha cercato di offrire la migliore delle vite alla figlia quindicenne Becca. Adesso che finalmente è riuscita ad ottenere, tra mille sacrifici, un lavoro stabile e una casa di loro proprietà, è fiera di sé e dei suoi traguardi. Da un paio di mesi, inoltre, va avanti la frequentazione con quel docente che le ha rubato il cuore. Il mondo, quindi, semplicemente le cade addosso quando, al mattino si rende conto che l’adolescente è scomparsa. Cosa le è successo? E perché? Che la sua sparizione sia collegata in qualche modo alla Galleria di Alice?
Hank Beckman è stato più volte reguardito: deve smetterla di seguirlo. Deve farla finita. Eppure lui non può, non può non controllare le mosse di colui che è il colpevole della sua morte. Ellen, la cara sorella, aveva una dipendenza, e lui non se ne è accorto in tempo..
Con “Una perfetta sconosciuta” Alafair Burke, dà vita ad un thriller caratterizzato dall’intrecciarsi ed alternarsi di più trame che, piano piano, riportano ad un mistero unico.
L’opera è intrisa altresì di una penna semplice, chiara, gradevole seppur talvolta tenda ad anticipare troppo. Si legge facilmente ma non conquista per pathos ed intensità risultando a tratti acerba. Il lettore ha la sensazione di trovarsi in una dimensione in cui non è completamente parte, come se vi fosse un vetro tra lui e il contenuto dello scritto. Lo sviluppo degli avvenimenti è buono, seppur prevedibile.
Non solo. Se in un primo momento la lettura prende ed incuriosisce, nel resto il testo è tutto un sali/scendi, e questo proprio perché se da un lato è facile - come anzidetto - intuire le intenzioni della scrittrice (riuscendo così ad anticiparne le mosse), dall'altro, la stessa, "caricandolo" eccessivamente, finisce col renderlo macchinoso.
Nel complesso "Una perfetta sconosciuta" è un prodotto apprezzabile ma non eccelso, un volume con una buona base di partenza ma penalizzato dal "voler mettere troppo", dal "voler far troppo".
Consigliato a chi ama il genere o a chi cerca una lettura senza pretese, piacevole con cui trascorrere qualche ora diversa.
Maria Darida - 6 anni fa
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