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Frammentario del mattino - Antonio Morelli
Già autore di ben quattro raccolte, Antonio Morelli, poeta empolese di grande sensibilità ed acume, ci dedica e fa destinatari di “Frammentario del mattino”, (Edizioni Erasmo, anno 2015), componimento con cui lo scorso 30 aprile, a Livorno, ha ottenuto la menzione speciale della seconda edizione del Concorso “Giorgio Caproni”.
Chi già è avvezzo alla poetica di Morelli certamente riconoscerà nell’opera presentata molteplici delle tematiche care e proprie allo stesso. Non mancano infatti quelle liriche atte ad esprimere un poetare che è esperimento di vita, un poetare che è luogo da vivere ma che rilutta a farsi vivere, un poetare che è necessità di “vivere in poesia”, un poetare ove la componente magnetica e tridimensionale è dettata dal trinomio tempo-spazio-dimensione, un poetare dedito alla tragicità, un poetare ove ricorre “l’acero e la distanza”, un poetare intriso di sofferenza, dolore, delusione e perdita, un poetare ricco di tutte quelle componenti che tanto hanno attanagliato la vita del verseggiatore. Ma, al contempo, “Frammentario del mattino” si erge anche ad opera nuova, ad opera ricca di evoluzioni, di rimessioni, di intimità.
Perché oltre che ad un’evoluzione linguistico-stilistica che ad ogni componimento – da “Poesie private a “Frammentario del mattino” passando per “Diario in versi del brutto tempo” – è palpabile, effettiva, materialmente tangibile, è presente in questo, anche un’evoluzione contenutiva che si contrappone alle predette costanti del letterato.
La parola persiste ad essere mezzo e fine, persiste ad essere il ponte di congiunzione tra la sfera dell’io intimo e dell’estemporaneo, persiste ad essere connessione indissolubile tra il mondo interiore ed esteriore, alternando stati di lucidità a tratti volutamente incerti, ma è anche soluzione unica. Il verbo è il tassello, è l’esperienza cognitiva che permette di riallacciare il rapporto interrotto, venuto meno, caduto.
Un poeta, Morelli, in bilico tra occasioni e atemporalità, tra delusioni e temporalità, tra spazialità e dimensionalità, tra prigionia e desiderio di libertà, un poeta Morelli che ha la capacità di rendere vivi i lemmi, che ha la capacità di trasportare l’avventuriero conoscitore in una profondità che non è più individuale, ma collettiva.
«Quando sono poeta
NON sono NULLA
SONO solo lui…
che foggia la parola
Lucida l’acero il mattino
Si nutre di pulviscolo
Ossigeno..
Per essere solo
Titubare contro
Ogni identità..»
“Sono il canto”, p. 39/40
Maria Darida - 6 anni fa
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Mia suocera beve - Diego De Silva
Doveva essere una cosa rapida e indolore fatta di pochi e semplici passi: recarsi al supermercato, acquistare gli articoli necessari e tornarsene felicemente a casa. Che altro? Niente. Peccato che non sempre i nostri desideri combaciano con quella che è la realtà, l’Avvocato Vincenzo Malinconico, in merito ne sa anche troppo.
Lui che nella vita non può certo definirsi un uomo di successo, lui che ha un divorzio alle spalle, due figli, una moglie che ha voluto dividersi ma che continua a contattarlo per tutto, lui che ha una suocera gravemente malata che tra tutti i parenti – figlia compresa – non desidera altro che scambiare due chiacchiere con il genero, ovvero con Malinconico stesso, pure nominato d’ufficio doveva ritrovarsi! Eh! Perché, tanto, ne aveva poche. Ed è così che quella che poc’anzi abbiamo definito una ingenuissima capatina al supermarket, si tramuta in un vero e proprio sequestro di persona con carattere mediatico. E tra tutti proprio una vecchia conoscenza doveva incontrare, e proprio questa vecchia conoscenza lo doveva riconoscere, e proprio questa vecchia conoscenza doveva decidere quel giorno di attirare l’attenzione e di farsi giustizia da solo nominando legale della parte sequestrata – di fatto rea di aver commesso un altro reato per cui mai è stato punito, mai è stato condannato – innanzi a tutta la platea esterna e mediatica coinvolta attraverso l’utilizzo della tecnologia e dei canali informatici e on line. Si, tra tutti, lui, proprio lui è stato scelto. Sei felice Malinconico, vero?
E’ da queste premesse che ha avvio una delle commedie più esilaranti in circolazione nell’ultimo periodo. De Silva, infatti, sotto la falsa veste dell’ironia che una tragicommedia può celare, destina al lettore un componimento denso di significati e ove, tra tutti i principi, traspare certamente, la volontà di far riflettere su quella che è la forza e su quelle che sono le conseguenze del fenomeno mediatico. Il Giudice popolare finisce con l’essere coinvolto, chiamato a giudicare, con o senza titoli, con o senza volontà. Ed ancora, l’avventuriero, è chiamato a meditare sul senso della vita, su quelle che sono le speranze, le illusioni, le crisi di ogni uomo.
Il tutto è avvalorato da un linguaggio forbito, ironico, satirico, fluente che, battuta dopo battuta, tiene incollato chi legge sino a conclusione dell’opera. Un testo che arriva a più riprese, con un aspetto divertente alla prima lettura, e con un carattere riflessivo successivo alla conclusione della stessa. Nel mio caso, ad esempio, posso dire di averlo apprezzato per ironia e sarcasmo nello scorrimento ed ora che da almeno un paio di mesi l’ho ultimato, per contenuto e valori intrinseci.
«Se dovessi indicare il principale dei miei difetti, quello di cui più avverto la ricorrenza nei rapporti che instauro con gli altri, direi che è la mia tendenza a rimuginare. Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l’amore. Soprattutto quando lo faccio (che poi, se uno ci pensa, rimuginare è un’attività da psicopatici. Perché si rimugina sull’accaduto, e l’accaduto – come dice la parola stessa – è già accaduto. Per cui è chiaro che affliggersi su faccende insuscettibili di modifica è un piacere morboso, una necrofilia intellettuale, una pratica masochista). Bene, io faccio di peggio: a volte mi lascio prendere così tanto dai rimugina menti che addirittura scrivo. Riempio cartelle di Word nella speranza di trovare le parole giuste per fissare un punto di vista e tendenzialmente non cambiarlo più. Faccio notte, quando proprio mi fisso. E poi mi dico: “Ma sei scemo, cosa devi scrivere, un libro?» p. 46
«Di cosa sto parlando? Di stare fermo mentre tutto scorre. Del guardare senza capire. Del non poter chiedere spiegazioni a qualcuno senza fare una figura di merda. Ecc di cosa sto parlando. Un po’ come quando, a una tavolata di più persone, qualcuno fa una battuta che fa sganasciare tutti dal ridere e tu, che non l’hai sentita perché in quel momento eri distratto, cominci a ridere a tua volta per non sentirti escluso, e dopo un po’ ti tirano tutti i muscoli facciali per lo sforzo (perché nella vita si possono fingere un sacco di cose ma non le risate), così prendi un tovagliolo per nasconderti il minimo indispensabile, aspettando che lo sganascio corale si auto estingua e si torni a conversare normalmente, e invece il divertimento impazza, tutti si scambiano pacche rumorose (uno ha anche sputato l’acqua in faccia a quello di fronte), per cui ti concentri maniacalmente sui brandelli di frase estratti dalla battuta sconosciuta che qualcuno ripete fra i singhiozzi nel tentativo di afferrare il tema che ha scatenato il genio comico del battuti sta, ma intanto l’eccitazione collettiva ha acceso la comicità di qualcun altro, che a sua volta ha lanciato un’altra battuta legata alla prima che ti sei perso, e giù altre risate,e tu che sei all’oscuro di tutto fai di nuovo finta di ridere e così via, per cui a un certo punto non ne puoi più e allora, con i crampi alle mascelle, ti alzi e dici che devi andare in bagno e infatti ci vai e ti lavi la faccia tre volte di seguito, dopo di che ti guardi nello specchio e ti sembra di vedere un uomo disperato.» p. 63
Maria Darida - 6 anni fa
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Prendiluna - Stefano Benni
Prendiluna, anziana settantenne gattara, è una docente di italiano in pensione che una notte come tante sogna Ariel, un vecchio bianco gatto passato a miglior vita che le assegna una missione: deve trovare dieci Giusti a cui affidare i suoi dieci gatti (Hanta il rosso, gatto cacciatore e sessuomane, Nasone, filosofo e abile a mimetizzarsi, Sylvia, gatta poetessa e acrobata, Dolores, gattina seduttiva dagli occhi grigi, Gonzalo, gattino irascibile e guerriero, Emily, gatta bianca, solitaria e sofferente il mal d’auto, Cronopio, grasso e dormiglione, figlio di Sancho, Raymond, giocoso e rombiballe, Jorge, gatto esoterico e telepatico della stirpe di Durendal, Prufrock, gatto mangione, sopravvissuto e molteplici catastrofi) altrimenti il mondo finirà.
E mentre la donna dà avvio al suo incarico, due suoi ex alunni, Dolcino e Michele, laureati rispettivamente in Demonologia e in Schizofrenia (il secondo, in particolare, “con precedenti per furto continuato, oltraggio, interruzione di processione sacra, soggetto a pericolose crisi di delirio urlante, ipersensibile al rumore, altezza uno e novantaquattro”), scappano dal manicomio in cui sono ricoverati da anni. A loro volta hanno sognato del compito della maestra ed hanno scoperto che una volta concluso questo, ella, incontrerà Dio, soggetto a cui devono “dirne quattro”.
A concludere il quadro, gli Annibaliani, guidati da Chiomadoro, personaggio misterioso dal passato sconosciuto.
Sulla falsariga di un romanzo visionario e allucinante, Stefano Benni, ricrea una perfetta fotografia di quella che la società attuale, ponendo in essere una chiara denuncia a quei tempi moderni che si sostanziano nelle apparenze, negli apparecchi tecnologici, nelle futilità, nelle droghe, nell’alcol, e in tutti quegli escamotage atti a rifuggire dalle problematicità e dalla realtà.
Un romanzo godibile, ironico e rapido è “Prendiluna”, un romanzo che, nel suo arrivare, conquista solo a metà, forse a causa di talune evidenti forzature, oppure semplicemente, perché è così intriso di fantasia ed immaginazione da risultare – anche per le menti dedite ed inclini a queste ultime caratteristiche – a tratti sfuggente.
«[..] Non c’è un perché, solo qualcosa che manca, la pazzia è questa mancanza, è il pezzo tagliato via, prezioso, insostituibile. E fa male..» p. 81
Maria Darida - 6 anni fa
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Non ditelo allo scrittore - Alice Basso
Correva l’anno 1996 quando “Verrò a trovarvi sul lago”, opera a firma Ruggero Solimano, faceva il suo ingresso nel mondo della letteratura consacrandosi come uno dei testi più acclamati ed apprezzati dal grande pubblico. Sono ormai trascorsi vent’anni dalla divulgazione eppure detta fama non accenna a diminuire. Peccato però che le edizioni “L’Erica” si siano rese conto di un piccolissimo dettaglio che sino ad ora era passato inosservato: “Verrò a trovarvi sul lago” non è stato affatto scritto da Ruggero Solimano bensì da un ghostwriter di prima categoria. Tante le domande che si celano dietro l’enigma, tanti i quesiti a cui è necessario dare risposta. Ma, prima di tutto, questo misterioso scrittore va trovato, e chi meglio di Vani Sarca può riuscire in questa impresa?
Al contempo il commissario Berganza è alle prese con un caso molto complesso, un’indagine atta a smontare una rete di traffico di sostanze stupefacenti capitanata da un boss agli arresti domiciliari tutt’altro che innocuo. Lo stesso coinvolgimento nell’inchiesta della nostra amata protagonista si rende alquanto arduo; Romeo, consapevole del pericolo, è infatti sinceramente preoccupato per l’incolumità della sua pupilla.
Il quadro è completato da Riccardo e dal suo inarrestabile corteggiamento, corteggiamento che non ha speranze di buona riuscita poiché il cuore di Vani, non solo non ha ancora siglato nei suoi confronti un armistizio, ma ha pure intrapreso un’altra direzione; una direzione che richiede coraggio, coraggio di osare prima che sia troppo tardi.
Ed è così che al doppio rebus da risolvere, Silvana è costretta ad affrontarne un terzo di carattere prettamente sentimentale, un terzo personalissimo dilemma che la costringerà a fare i conti con sé stessa e che la porterà a rischiare il tutto per tutto.
«Ebbene: non scordatevi mai che, insita nell’essere umano, vi è e vi è sempre stata un’idea sana di amore, fatta di scelta consapevole, di fiducia e di impegno; l’idea del prendersi per mano e andare insieme nella stessa direzione aiutandosi a vicenda di fronte alle prevedibili difficoltà. Un’idea che già nel Seicento riusciva a farsi strada fra le mille sovrastrutture delle imposizioni religiose sociali. Al di là dei condizionamenti culturali che nel corso della storia ci hanno detto come dovessimo comportarci per essere accettati, dentro la nostra specie, da sempre, c’è questo seme di bellezza e perfezione che anela a germogliare. Cercate quello, aspirate a quello, non accontentatevi di nulla di meno, non giustificate nulla che non sia a quell’altezza. E se Dio vuole non dovrete mai pentirvi di una storia malata o di avere buttato via del tempo in qualcosa che non lo meritava. Anche solo un libro.» p. 301
Ultimo capitolo disponibile della serie, “Non ditelo allo scrittore” è uno scritto magnetico, capace per stile narrativo nonché per contenuti, di fare breccia nel cuore del disarmato lettore che, trafitto sin dalle prime battute al muscolo pulsante radicato nel petto, va avanti e avanti tutto d’un fiato sino alla conclusione dell’opera. Perché è ASSOLUTAMENTE impossibile riuscire a staccarvisi prima. E in quella fase “del mentre”, il cuore dell’incauto conoscitore che mai si sarebbe aspettato di trovarsi innanzi ad un episodio così avvincente e ricco di sviluppi, rischia seriamente di andare in fibrillazione atriale maligna con conseguente arresto cardiaco; patologia che, badate bene, non manca di sopraggiungere con il colpo finale dell’epilogo.
Eh si, perché l’opera de qua non delude e non dà segno di cedimento in nessuno dei suoi intervalli, conclusione compresa. Non solo. La stessa evoluzione delle vicende avviene con i giusti tempi, in un crescendo continuo che ha inizio con “L’imprevedibile piano della scrittrice senza nome”, che prosegue con “Scrivere è un mestiere pericoloso” e che approda ad uno dei tanti possibili risultati con “Non ditelo allo scrittore”, classe 2017. Una maturazione che, ancora, non risparmia la stessa ghostwriter e i suoi scheletri nell’armadio e che è accompagnata da una penna calda, fluente, familiare ed al contempo ironica.
Ed anche se i giorni passano, Vani resta e con lei resta la curiosità del sapere se continueranno, o meno, le sue avventure. Alice Basso, ci rimettiamo a te! Cosa ci riserberai per il futuro?
Maria Darida - 6 anni fa
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Il giorno dei morti - Maurizio De Giovanni
Un bambino, uno come tanti. Il classico scugnizzo, abbandonato a sé stesso, alle intemperie, alla povertà, alle miserie della vita. Il suo gracile corpicino viene rinvenuto nelle prime ore del mattino, il suo unico amico, un cane bastardino a chiazze, è rimasto con lui sino alla fine ed ora, seppur privo della facoltà di parlare, sussurra e chiede a Ricciardi di indagare, perché non tutto è come appare, non tutto è come sembra. Il suo è uno sguardo silenzioso, mosso, dalla volontà di giustizia ma anche dal legame di fedeltà che lo stringeva al piccolo balbuziente che soltanto con lui sapeva parlare.
Ed il commissario Luigi Alfredo Ricciardi non si sottrae a quella preghiera, a quella richiesta sorda. Non può farlo perché quegli occhi sembrano invocarlo a gran voce, non può farlo perché qualcosa nel ritrovamento del cadavere non lo convince. Va contro tutto e contro tutti il funzionario, arriva addirittura a prendersi qualche giorno di ferie, lui che non si è mai assentato dal lavoro, lui che è sempre arrivato prima dell’orario di inizio del turno per andarsene ben oltre dopo questo, pur di poter investigare, pur di poter arrivare alla verità. In contemporanea, l’imminente visita del Duce in quel di Napoli, in contemporanea il corteggiamento incessante della vedova Vezzi ormai trasferitasi in città, in contemporanea il sodalizio tra la tata Rosa e la paziente e calma Enrica, in contemporanea Modo e Maione, antitesi perfette dell’agente.
Un capitolo, questo, dove De Giovanni non manca di toccare il cuore di chi legge, dove l’autore non manca di solleticare le corde più intime. Perché sotto la falsa veste dell’indagine di polizia, tante sono le tematiche che vengono toccate ed affrontate, molteplici sono le riflessioni indotte.
E’ mediante l’ausilio di due creature affini, il piccolo cane e il bambino affetto da balbuzie, entrambi così magri da potersi perfino assomigliare, che la magia ha luogo, che il ruolo e la figura del protagonista si consolidano, che la visione di una Napoli affamata e indigente ma prostrata al Fascismo si palesa, che l’emarginazione sociale affetta e penetra nei cuori. Poiché sono sempre i più deboli a pagare il conto di quella avidità e povertà, loro, gli invisibili, i dimenticati. I dimenticati che sono avvicendati da un semplice ed ineguagliabile legame: la lealtà. E’ da questo che traggono la forza di andare avanti, di sopravvivere.
«Perché sono stato un bambino anch’io orfano pure io, brigadie’. Senza un padre e senza una madre, abbandonato in mezzo alle strade di questa città. Io lo so, che non sei niente; che se campi o muori è lo stesso e nessuno se ne fotte. Mi sono dovuto guadagnare la vita a bocconi e a morsi, proprio come a questa creatura sfortunata che avete trovato a Capodimonte. Diciamo che è stato un fiore sulla cassa di questo bambino. Un fiore da parte di Bambinella» p. 236
Non mancano infine, le tanto attese svolte in ambito sentimentale, ma in merito non svelo altro in quanto queste non sono che i primi passi per quegli sviluppi che troveranno una evoluzione significativa e concreta nell’ultimo capitolo della serie, “Rondini d'inverno. Sipario per il Commissario Ricciardi”, da ieri disponibile in libreria (e che si, lo confesso, ho già letto).
In conclusione, “Il giorno dei morti. L’autunno del commissario Ricciardi” è un testo caldo, avvolgente, empatico e ricco di contenuti, un testo avvalorato da uno stile fluido che accarezza il conoscitore e che non pecca nemmeno per ricostruzione storico-ambientale.
«Acqua. Acqua che non lava. Che scende in mille fiumi e trascina il fango sulle soglie dei bassi e dentro, allungando dita melmose sui pavimenti in terra battuta, nella paglia annerita dei letti. Che picchia sulle finestre e sveglia il sonno, o reca nei sogni fantasmi di antichi dolori. Che lascia tracce nere sugli alti muri di tufo, trovando vie in vecchi palazzi per minarne le fondamenta. Che imbratta scarpe lucide e strappa ombrelli nelle mani, perché non vuole ostacoli per entrare nelle anime e portarci l’umido della tristezza. Acqua che separa. [..] Acqua che deruba [..]. Acqua che fa paura. [..] Acqua che non finisce» pp. 57-58
Maria Darida - 6 anni fa
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Rondini d'inverno - Maurizio de Giovanni
«-”Qual è la barriera, Lina?”
-“Quella che alziamo tutti, ogni giorno, per non farci riconoscere dagli altri”
-“E la tua barriera, qual è?”
-“La faccia, dotto’. La mia barriera è la faccia”»
Il Capodanno è ormai alle porte quando l’omicidio ha luogo senza lasciare dubbio alcuno né in merito al suo esecutore, né in merito alle modalità di esecuzione: Fedora Marra, attrice di grande successo, è stata uccisa dall’anziano marito Michelangelo Gelmi a seguito di un colpo di pistola esploso durante la rappresentazione teatrale della Rivista che li vedeva protagonisti. Un colpo di pistola vero, tra tutti quelli a salve, ha fatto sì che in questo 28 dicembre si tramutasse in un giorno di morte e dolore. Ricciardi e Maione accorrono sul luogo e sin da subito, il misterioso ed eclettico funzionario dagli occhi verdi, si dimostra perplesso e non convinto circa quella che sembrerebbe essere la dinamica del delitto. Tante, le questioni, che lo rendono dubbioso, esitante, molteplici le indagini da compiere.
Ma Ricciardi non è in tumulto solo e soltanto per il mistero da risolvere, lo scombussolamento è altresì incrementato dall’aspetto sentimentale che non manca, in quest’ultimo capitolo, di svilupparsi ed affermarsi. Protagonista femminile di questa evoluzione è niente meno che Enrica. Riuscirà Luigi Alfredo a lasciarsi andare ai sentimenti e a convivere con la felicità anche se questa è un qualcosa per lui di così nuovo da risultare ingestibile?
Al contempo il brigadiere Maione è investito di un’altra parallela inchiesta: Modo, il dottore ironico e antifascista che accompagna il due sin dalle prime avventure, ha bisogno di sapere, di conoscere la verità circa le ferite di cui è stata vittima Lina, una vecchia amica pestata a sangue (e quasi a morte) da non si sa chi.
Ha il suono ed il ritmo di una ballata quest’ultimo episodio delle avventure di uno dei commissari più amati del panorama italiano. Una ballata che sin dal principio si distingue dai precedenti capitoli per storia quanto per emotività, quanto per contenuti. Se da un lato la trama risulta infatti essere intuitiva, essendo lo scenario rappresentato un qualcosa che inevitabilmente suscita nella memoria del lettore una innegabile sensazione di deja-vu, dall’altro, non mancano quegli elementi “salati” ed “appetitosi” che ne invogliano e stimolano lo scorrimento.
Chi legge trova inoltre soddisfazione dal punto di vista dell’amore, riuscendo, De Giovanni a ben dosare ogni avvenimento ed ogni sviluppo relativo. Il tutto è accompagnato dalla sensazione di sentirsi a casa, sensazione che è determinata da quella scrittura fluente, calda e ponderata che è propria dello scrittore.
Eppure, eppure, è come se mancasse qualcosa. E’ come se l’elaborato arrivasse ma soltanto a metà. Nonostante le premesse, infatti, il conoscitore si sente a tratti spaesato, insoddisfatto da quelle che sono le vicissitudini, forse perché, implicitamente si aspettava un “sipario” diverso per il funzionario maledetto. Una storia, differente, non tanto dal punto di vista della sfera affettiva, quanto da quello del caso da risolvere. Vengono meno inoltre alcuni personaggi che costituivano una costante nonché una colonna portante dell’opera, mentre altri vengono inseriti quasi forzatamente. Apprezzabile, al contrario, il taglio dato al brigadiere Maione a cui viene resa giustizia per i suoi immancabili doveri svolti.
In conclusione, un buon testo seppur con qualche leggera sbavatura. Non il mio preferito ma certamente un degno epilogo. E chissà che in futuro le danze non vengano nuovamente aperte…
«Ogni rondine ha il suo viaggio, guaglio’. Io dovevo intraprendere il mio. Ho fatto ritorno per morire dov’ero nato. Nell’unico posto dove sono stato felice. [..] Prima non valevi niente come non vale niente chi suona e canta, e non sa che deve raccontare. Adesso hai imparato. E hai capito che devi partire, perché sei una rondine, una rondine ha bisogno di un viaggio per essere felice.»
Maria Darida - 6 anni fa
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Un adulterio - Edoardo Albinati
«Restava solo lo sforzo di esistere, lo sforzo inutile, il costo, il peso, l’ansimare, il volere, la faticosa rapina di un attimo appresso all’altro, inghiottire l’aria, inghiottire il proprio respiro. Tutto ciò non appena staccava le mani dal corpo di quella donna, come si stacca la spina di un apparecchio dalla corrente e inizia il consumo dell’energia accumulata. Tanta? Poca? Possibile, già agli sgoccioli?» p.26
Erri e Clementina non possono resistere a quella passione che li travolge e consuma. E’ impensabile. Il loro è un amore che brucia, che esige di essere vissuto anche se questo significa compiere un adulterio. Un adulterio che è ultimato consapevolmente, senza indugio alcuno, senza rimpianto e senza rimorso. Il tutto si dipana e sviluppa nel lasso di tempo di un fine settimana su un’isola che, con i suoi colori e profumi, fa da cornice a questo sentimento irresistibile.
Da queste brevi premesse ha inizio l’ultimo romanzo di Edoardo Albinati, uno scritto che assume le forme di un lungo racconto, che si esaurisce in appena 126 pagine e poche ore di scorrimento. Il tema trattato, al contempo, non spicca di originalità essendo quella del tradimento una della problematiche che sono maggiormente ricorrenti nella letteratura di tutti i tempi.
Il testo dell’autore si distanzia dai consueti elaborati, incentrati sulla inevitabile e successiva conseguenza del gesto compiuto, per il fatto che detta passione si distacca dal senso di colpa: il desiderio sessuale è legittimato ed avvalorato da quella trasgressione e pulsione inarrestabile a cui è inimmaginabile far fronte. L’amore, è secondo questa prima analisi, un qualcosa che dovrebbe essere vissuto senza vincolo alcuno, e a prescindere dagli effetti che le nostri azioni possono arrecare a noi stessi quanto a chi ci circonda.
Ed è da qui che “Adulterio” si sofferma e muta la propria prospettiva: la storia dei due protagonisti, come altre relazioni clandestine della realtà, non riesce a sopravvivere a questi due giorni di paradiso apparente. Perché l’amore è un legame affettivo e come tale ha bisogno di confini, di progetti, di stabilità ed anche e non di meno di fedeltà reciproca. Amare è rispetto, condivisione, emozione e non umiliazione, menzogna, inganno.
«Ora che lo avevo per le mani non lo desideravo più ma mi sembrava stupido lasciarmelo sfuggire. Si, eri forse tu quella persona attesa, ma oramai con te potevo solo commettere adulterio. Infrangere qualcosa invece che costruirlo» p. 123
Ancora, Albinati ci fa riflettere su quelle che sono le opportunità della vita, su quelle tentazioni che soventemente ci mettono alla prova con la loro attrazione fatale. Da qui sono introdotti quei limiti imposti dalla coscienza, dalla morale, dagli insegnamenti di vita ricevuti. Perché paradossalmente, rispetto all’impostazione della storia narrata che potrebbe sembrare un inno alla libertà, l’amore ha bisogno di vincoli, di relazione, ha bisogno di essere coltivato giorno dopo giorno, di maturare e crescere sotto il sole e sotto la tempesta.
A ciò si somma uno stile narrativo scarno, diretto, breve che conquista soltanto a tratti. La lettura, vuoi per le argomentazioni trattate, vuoi per brevità, resta sospesa tra i due poli della piacevolezza e non.
Si apprezza per la morale ma non necessariamente per la successione degli eventi che tendono a calcare la mano – volutamente – sulla sfera dell’intimità fisica.
«Ma non la chiedo, non la esigo, la felicità. Non la merito. Quella che mi hai dato u in questi giorni già mi sta schiacciando. Mi leva il fiato. Sono priva di forze dopo due giorni appena. Appena mi sento felice, subito divento triste, te ne sei accorto? Te ne sei accorto amore mio?» p. 124
Maria Darida - 6 anni fa
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A ciascuno il suo - Leonardo Sciascia
Una lettera minatoria. Uno scherzo? Una burla di cattivo gusto? Questo il pensiero del signor Manno, farmacista del paese nonché destinatario della missiva incriminata. Trascorrono i giorni ed il suo corpo, insieme a quello del medico Roscio, vengono rinvenuti, alla data del 23 agosto 1964, privi di vita in quella che doveva essere una semplice e mera battuta di caccia.
Immediatamente, Roscio viene qualificato quale vittima innocente del farmacista perché se non fosse andato con lui, certamente sarebbe vivo. Le indagini proseguono seppur appaiano paralizzate, seppur giorno dopo giorno l’interesse verso il misfatto sembri venire meno ed il colpevole già individuato dalla massa.
Il professor Paolo Laurana, docente d’italiano, latino e storia nel liceo classico del capoluogo, è un uomo disciplinato, metodico, preciso, poco incline ai divertimenti, rigoroso e fortemente rispettoso delle volontà della madre. Gli stessi alunni lo hanno sempre considerato un tipo bravo ma curioso, curioso nel senso di quella stranezza che non arriva alla bizzarria, a quella bizzarria opaca, greve, quasi mortificata. E’ a lui che il dettaglio salta all’occhio, è a lui che sarà implicitamente attribuito il compito di sbrigliare la matassa, di giungere ad una risoluzione del caso.
Ma come addivenire alla verità, come mettersi contro il sistema quando si può essere stranieri, nella verità o nella colpa, ed anche, insieme nella verità e in quella colpa, che regola questo ordinamento di sistema stesso?
«Ma sa com’è? Una volta, in un libro di filosofia, a proposito del relativismo, ho letto che il fatto che noi, ad occhio nudo non vediamo le zampe dei vermi del formaggio non è ragione per credere che i vermi non le vedano… Io sono un verme dello stesso formaggio e vedo le zampe degli altri vermi» p. 69
Attraverso l’espediente dell’investigazione, Leonardo Scia Scia, dà vita ad un romanzo incalzante, scorrevole e ben calibrato che trasporta in lettore in un universo di denuncia.
La Sicilia che ci viene presentata è infatti un luogo di omertà, di ipocrisia, di corruzione, di pregiudizio, di assuefazione, di dicerie, di connivenza con la malavita. Al tutto si sommano atmosfere affascinanti, caratterizzate dal pettegolezzo e dalle chiacchere di piazza, dalla consuetudine, dalla mentalità prettamente familiare, dalla concezione della mafia che, come un’ombra, è onnipresente eppure formalmente intangibile.
L’autore non si risparmia nemmeno in merito alla caratterizzazione dei personaggi: ciascuno è delineato e reso concreto a prescindere dalla durata della sua apparizione. Il lettore, grazie a ciò, riesce a prefigurarsi chiaramente chi ha davanti, con le sue forze e le sue debolezze.
Non manca nemmeno quel gusto retroamaro che in un epilogo inevitabile trova la sua sostanza. Non vi è possibilità di cambiamento, in questo luogo fatto di menzogna, non vi è speranza. Chi cerca di mutare le cose, finisce con l’essere ed il diventare, inevitabile parentesi di un tempo che fu.
Questo e molto altro è “A ciascuno il suo”.
Maria Darida - 6 anni fa
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La vita in due - Nicholas Sparks
Russell Green, trentaquattro anni, pubblicitario, nato a Charlotte nel North Carolina, con Vivien, PR conosciuta nel 2006 a New York, credeva di aver trovato l’amore della sua vita. E’ un eterno romantico il protagonista nato dalla penna di Nicholas Sparks, tanto che non appena ha associato il nome della mora ed affascinante donna con quello di Julia Roberts in “Pretty Woman”, non ha avuto dubbi e nel 2007 è convolato a nozze con la medesima per poi, a distanza di un lasso temporale ancora più breve, riscoprirsi padre di London, una deliziosa bambina che lo ha nominato guardarobiere degli abiti delle sue sette barbie.
Gli anni passano, Vivien decide già durante la gravidanza di lasciare il lavoro per dedicarsi alla figlia, e così il marito si ritrova a dover guadagnare quanto di più possibile per poter sopperire alle esigenze della costosa consorte. Questa infatti non ha remore e non ha limiti in quanto a compere. Eppure lui vuole renderla felice, desidera non solo che lei lo sia ma che soprattutto lo sia con lui. Il giorno che Russ è costretto a lasciare il lavoro per delle incomprensioni con il capo e a buttarsi in una nuova avventura come libero professionista – con le incertezze che ne derivano e il disappunto di tutti coloro che sono al suo fianco – , la crepa che già era insita nella loro vita di coppia diventa un cratere; il vaso definitivamente si rompe.
Manca di dialogo nel loro rapporto, un’assenza che li porterà alla più dura delle decisioni e alle conseguenze giuridiche derivate. Green si ritrova così senza lavoro, senza compagna, a lottare per poter crescere la sua pargola, e con altre problematiche familiari che non vi anticipo per non rovinarvi la lettura.
E se nella prima parte l’opera stenta a partire non brillando particolarmente di originalità, ma anzi facendo storcere il naso a più riprese per questo continuo assecondare ogni vizio ed ogni richiesta della consorte e per il conseguente atteggiamento egoista di quest’ultima (con la quale è assolutamente impossibile relazionarsi, è abilissima infatti a far sì che in ogni lite e discussione, la “colpa”, seppur propria, ricada sul compagno e sulle sue presunte pretese), nella seconda questa prende campo e si apre di significato soffermandosi ed incentrandosi in quella che è vera sostanza della medesima: il rapporto padre-figlia.
Questa linea di demarcazione è ciò che consente a chi legge di andare avanti e di non abbandonare lo scritto dopo appena un centinaio di pagine. Perché proprio grazie alla delineazione di questo legame, che ha bisogno di svilupparsi e crescere, che il padre matura, abbandonando le insicurezze ed incertezze di un tempo per abbracciare nuove responsabilità e nuovi percorsi. L’anno che lo vedrà protagonista, infatti, sarà un periodo dove assaporerà il gusto amaro della perdita, il gusto amaro del separarsi da un proprio caro, il gusto amaro delle battaglie legali, il gusto amaro del doversi sapere reinventare ed adattare alle più svariate delle situazioni. E tutto perché quel rapporto padre-figlia deve essere salvaguardato e presentato.
Sono trascorsi dodici mesi, ma Russell è un uomo diverso e con lui è differente la prospettiva con cui affronta il divenire.
Al tutto si somma uno stile narrativo prolisso, non particolarmente elaborato ma che consente e rende agevole lo scorrimento a tutti coloro che cercano una storia non impegnativa e con cui evadere dalla routine.
In conclusione, una piacevole lettura estiva senza pretese.
Maria Darida - 6 anni fa
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Il caso Fitzgerald - John Grisham
John Grisham abbandona, in questa calda estate, le aule dei tribunali nonché i suoi cari ed affezionati avvocati e/o giudici, per presentarsi al lettore un’opera nuova, con un thriller che pur mantenendo quelli che sono i punti salienti della sua penna, si spoglia del vecchio per rinnovarsi interamente.
La Princeton University, è nota per il suo dipartimento di libri rari e collezioni speciali, ed in particolar modo per cinque prime edizioni a firma Francis Scott Fitzgerald. Un bottino che fa gola ai tanti e a cui, quindi, è impossibile resistere. Quattro malavitosi, con un piano accurato e ben studiato, riescono ad abbattere ogni linea difensiva della struttura e ad appropriarsi degli stessi. L’FBI è però alle costole del quartetto, tanto che riesce già nelle ventiquattro ore successive al furto a mettere le mani (o forse sarebbe meglio dire, “a mettere le manette”) su due di questi. Degli altri, non vi è alcuna traccia. I mesi passano, la notizia, come spesso accade, perde parte di quello che è il suo slancio iniziale, ma le ricerche delle opere non hai fine e/o interruzione.
Su questo assunto assistiamo ad un cambio scena nonché “io” parlante. Viene introdotta la figura di Bruce Cable, proprietario della “Bay Books” la libreria più rinomata a Camino Island, in Florida. Uomo intelligente e scaltro, il libraio ha saputo ben investire l’eredità del padre e la passione innata per la letteratura. Ancora, Grisham, presenta Mercer Mann, docente nonché scrittrice di modesto successo che, viene incaricata di indagare sull’appassionato rivenditore/lettore in quanto noto collezionista di opere prime, da un’organizzazione che sta svolgendo un’indagine parallela a quella degli agenti federali. Riuscirà Mercer a scoprire le eventuali implicazioni dell’uomo nel furto dei manoscritti? Oppure, in realtà, dietro a quest’ultimo, si cela qualcun altro? Chi sarà, di fatto, il mandante di questo eclettico delitto?
Con uno stile chiaro, fluente, preciso ed esaustivo, Grisham si reinventa, dando vita ad un giallo davvero piacevole. La trama regge, non si perde nello scontato, non mancano i colpi di scena seppur mai risultino essere eccessivi. Buono anche lo sviluppo successivo. Gli stessi protagonisti non sono lasciati al caso. Ciascuno è delineato con minuzia, sia per passioni, che nelle varie ambientazioni. I luoghi sono approfonditi, descritti con cura talché chi legge non fatica a risvegliarsi tra le strade della cittadina in compagnia di eterogenei compagni di viaggio.
In conclusione, un elaborato che si presta ad una lettura rapida, adatto altresì tanto agli amanti del genere quanto ai non, e che riporta l’avventuriero conoscitore a ritrovare nello statunitense novelliere quello sprint e quello smalto che negli ultimi legal thriller si era, almeno a mio modesto giudizio, in parte perso. E vi riesce proprio mettendosi in gioco con un qualcosa di completamente diverso. Una buona prova.
Maria Darida - 6 anni fa
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