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L' ombrello dell'imperatore - Romanzo di Tommaso Scotti
«È a dir poco curioso come, a volte, il destino ci leghi nella maniera più strana. In questo caso, tramite un ombrello.»
A prima vista non è altro che un anonimo oggetto realizzato con cura e dedizione per il dettaglio, quella stessa cura e dedizione che è propria alla realtà nipponica. Eppure, è proprio quell’oggetto, quell’ombrello all’apparenza così innocuo a essere l’arma del delitto utilizzata per determinare la morte di Yuki Funagawa, nato il 2 dicembre 1986. È un particolare insolito, quell’ombrello. Uno di quelli con la copertura in plastica trasparente, un modello molto comune, di taglia grande, con le stecche di una settantina di centimetri. Questo si trova chiuso sul pavimento accanto alla vittima, il bianco della punta è completamente nascosto dal sangue rappreso e da tracce di bulbo oculare destro del deceduto. Un comunissimo bene contraddistinto, per l’occhio più acuto dell’osservatore, soltanto da un puntino rosso, a prima vista un adesivo o un simbolo dipinto situato sul manico di plastica bianca. È questo dettaglio che colpisce l’ispettore Takeshi James Nishida della squadra Omicidi della Polizia di Tokyo e soprannominato Boss dai colleghi per quella grande dipendenza da caffeina in latina della omonima marca. Takeshi è un hafu ovvero un mezzosangue di madre americana e padre giapponese. È anche per questo condannato a non salirci ai piani alti; in Giappone vige la religione dei protocolli, religione di cui Nishida non è un seguace: egli appartiene alla strada. E Takeshi ha anche ereditato i tratti caratteriali della realtà occidentale, tratti che lo rendono spesso impulsivo, poco accomodante e disincantato verso quella dimensione che lo circonda e che lo vorrebbe esattamente al suo contrario.
«Negli ultimi vent’anni si era fatto un nome risolvendo casi complicati e mettendo dentro non pochi delinquenti, nonostante a volte per ottenere risultati avesse dovuto usare metodi poco ortodossi. Il che purtroppo, unito alla sua abitudine estremamente non giapponese di dire in faccia alla gente come la pensava, non andava molto a genio ai suoi superiori. Anzi, ai suoi superiori non andava a genio per niente.»
Bastano pochi rilievi per appurare che oltretutto quell’ombrello appartiene alla persona più impensabile: l’Imperatore. Ma com’è possibile? E a chi appartiene quell’altro piccolo tratto di impronta digitale che dalle analisi risulta essere presente sullo stesso? Per il Tommy Lee Jones che è Takeshi, che sovente è stato paragonato a questo personaggio stante i suoi tratti particolari che lo rendono molto avvenente, avrà inizio una indagine atta a cercare di scoprire la verità in quella che è una morte tutt’altro che chiara.
A far da sfondo una Tokyo che non dorme mai e che ci viene proposta in una serie di tinte e retroscena, luci e ombre, che per mezzo di un protagonista che per il suo sangue misto riesce a far da ponte, scopriamo in modo completamente diverso. Tra le pagine dell’opera, inoltre, oltre all’indagine verrà quindi ritratta una perfetta fotografia della società giapponese a cui si affiancherà anche la trattazione di una serie di tematiche molto attuali e a noi vicine che non anticipo essendo collegate alla risoluzione dell’enigma che ci accompagna nel giallo.
«L’ispettore ne aveva viste abbastanza da sapere che la più grande oscurità è spesso nascosta alla luce del sole, ma in quel caso gli risultava difficile credere di avere di fronte un assassino.»
Quello di Tommaso Scotti è un esordio molto interessante che propone al lettore un protagonista che entra subito nelle sue simpatie e che con rapidità coinvolge e trattiene. Il conoscitore è incuriosito dalle vicende, affascinato dalla cultura nipponica e da questa figura dai tratti fisici appena tratteggiati eppure così vivida nella mente per carattere e determinazione. L’opera è inoltre ben strutturata. Parte da presupposti ben elaborati e a questi ne aggiunge altrettanti che rendono la narrazione più stratificata e l’enigma più articolato da risolvere.
Lo stile è fluido, rapido, limpido. Accompagna per mano, conduce senza difficoltà.
Un esordio, “L’ombrello dell’imperatore” che ci presenta un autore che tornerà ancora a far parlare di sé, che non vedo l’ora di rileggere e che sarà un piacere approfondire ulteriormente.
«C’è la nostra anima qui dentro, ed è un’anima di acciaio. Questa vite è il nostro testamento imperituro in un mondo usa e getta.»
Maria Darida - 2 giorni fa
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Malinverno - Domenico Dara
«Osserva sempre la gente con attenzione, Astolfo, fissa i particolari, che ognuno, la sua storia vera, non la porta stampata sulla faccia ma nascosta dentro pieghe invisibili della pelle.»
Astolfo Malinverno sin da quando ha memoria, ha memoria delle parole. Articolate dalla madre, narrate dalle voci, lette dai libri. Parole che sono balsamo per il cuore, moto per vivere la vita con quell’emozione mancata, sentimento, verità. Un po’ come lo stesso ricordo di quella madre che tenendolo stretto al petto oltre che a insegnargli ad ascoltare i battiti del cuore, gli insegnava a osservare le esistenze vicine e lontane. È nato con un difetto alla gamba, leggermente più corta, eppure, è proprio questo difetto che gli consente da adulto di diventare il bibliotecario di Timpamara e inaspettatamente, poi, anche il custode di quelle anime accomiatate nel suo cimitero.
«Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie.»
Ed è dal momento in cui viene incaricato di prendersi cura anche di quel luogo ove sono custodite le spoglie mortali dei cari degli abitanti del paese, che la sua vita cambia. Seppur all’inizio egli prenda con confusione l’incarico attribuitogli, ne rimanga perplesso, sorpreso, stranito, di poi si rende conto che al contrario quel luogo è una casa esattamente come la biblioteca e che, come nelle più inaspettate delle sorprese, lo sente suo. È durante uno dei suoi giri di perlustrazione iniziali che l’occhio gli cade sulla tomba di una donna dai lineamenti magnetici, dall’assenza di alcun riferimento sulla nascita, la morte, il nome, le origini. Ella è un’anima che lo ha chiamato e da allora lui la chiamerà Emma come la Emma di “Madame Bovary” di Flaubert. I giorni passeranno tra sogno, immaginazione, desiderio di conoscere il vero e tanta introspezione perché Malinverno per mezzo di questa donna del ritratto comincerà a interrogarsi sul suo vissuto, sul suo essere, sui suoi legami. E tutta quella quotidianità ostinatamente e minuziosamente costruita negli anni verrà ulteriormente infranta da un’altra figura che subentrerà nella sua vita con un mistero a farle da cappotto.
«Ci sottovalutiamo. Pensiamo di non essere capaci di affrontare certi dolori ma poi, alla prova dei fatti, dai meandri inesplorati del nostro organismo emergono minute molecole di sopportazione che si mischiano alle piastrine del sangue e irrobustiscono il corpo e ci fanno sopravvivere, malgrado ogni tentazione di arrendevolezza, come se Natura sapesse quanti dolori può distribuire, conoscesse la portata d’ognuno e mandasse il dolore giusto, quello che colma le misure senza affondarle, che noi nemmeno sapevamo di essere così resistenti ma Natura sì, Natura sapeva.»
Ha inizio da questi brevi assunti l’ultimo lavoro di Domenico Dara, testo quello presentato, che è intriso di una malinconica dolcezza e che con grande sensibilità e semplicità ci porta a guardarci dentro, a porci a nostra volta delle domande. È un libro intriso anche di nostalgia ma anche di tanta umanità, una umanità che trasuda da ogni pagina per mezzo della voce non solo del protagonista ma anche per mezzo delle voci di tutti gli abitanti del paese. A far da cornice e a esser parte portante dello scritto è ancora la letteratura, prevalentemente – ma non esclusivamente – classica che passando dal Don Chisciotte a Moby Dick ricompone quello che è l’io di Astolfo. Quest’ultimo è un protagonista che naturalmente suscita empatia nel lettore, che entra nelle sue grazie, in parte per la sua sensibilità, dolcezza e gentilezza, in parte per la grande immedesimazione che suscita. Ancora, ad impreziosire vi è la curiosità di far luce sull’arcano, un arcano a mio modesto parere intuibile ma la cui intuibilità non inficia sul proseguimento della lettura perché a prevalere è il viaggio posto in essere dal lettore per mezzo della voce di Malinverno.
L’opera scorre tra le mani del conoscitore con ritmi diversi. Accelera, rallenta, accelera ancora. Scuote per quel carattere malinconico che la caratterizza, per quell’aspetto nostalgico di cui è impressa, arriva per quella dolcezza sottesa che l’accompagna eppure può suscitare due reazioni diverse in chi legge: può trattenerlo o può respingerlo. E questo a causa della prosa narrativa di cui è caratterizzato. Questo continuo riferimento alla letteratura è uno degli aspetti forti del titolo ma anche più deboli perché rischia di far perdere di vista quello che è il filone centrale della narrazione e rischia altresì di far scemare l’interesse che se all’inizio è onnipresente ed è mosso anche da questo carattere, a lungo andare ne risente, affaticando e appesantendo l’avventura. Ancora, a rischiare di respingere il lettore vi è il tema che viene trattato che non è dei più semplici e nemmeno dei più allegri. Se queste ambientazioni e queste argomentazioni non sono di vostro interesse, infatti, il volume non riuscirà a colpirvi.
Ultimo nemico è la logica. Logica e riscontro nella verità che può rendere fallace alcuni passaggi nodali dell’evoluzione delle vicende, soprattutto se nel corso della vita si è vissuto almeno una parte di quell’esperienza che è la realtà della separazione da un legame e la realtà cimiteriale. Ecco perché consiglio la lettura di “Malinverno” staccandosi dalla logica, staccandosi dal dato del vero a ogni costo.
“Malinverno” è una storia che va letta lasciandosi trasportare dalle parole, facendosi condurre per mano da Dara, senza porsi troppe domande e senza cercare troppe risposte. È un viaggio introspettivo e come tale va vissuto. E allora sì che arriverà con tutta la sua forza e tutto il suo contenuto. Viceversa, potrà subire delle battute d’arresto, essere vissuto come farraginoso.
Infine, lo stile. Domenico Dara è dotato di una prosa magnetica, evocativa, musicale. Incuriosisce, trascina, trattiene ma rischia anche di “andare fuori rotta” per le digressioni continue che possono portarlo a essere un po’ troppo prolisso. Il libro conta 329 pagine ma sarebbe arrivato anche con una cinquantina di queste in meno, o comunque con qualche piccolo taglio o limatura. Ciò rischia di renderlo un autore non per tutti. Cosa che non deve essere necessariamente considerata come un difetto, anzi.
Leggere “Malinverno” è una esperienza sensoriale. Lascia tanto e arriva durante la lettura ma soprattutto dopo questa, a distanza di tempo. Commuove, emoziona, palpita.
«Perché se il destino dei libri è morire come esseri viventi, anche gli uomini, quando smettono di respirare, non diventano che storie.»
Maria Darida - 8 giorni fa
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Donne dell'anima mia - Isabel Allende
Con “Donne dell’anima mia” ripercorriamo il percorso di vita di Isabel Allende dai tempi dell’infanzia sino ai giorni nostri in particolare soffermandoci sul suo essere da sempre femminista. Ella, infatti, sin dalle prime battute di questo titolo di appena 174 pagine e capitoli brevi composti da un paio di pagine ciascuno, si afferma tale sin dall’asilo, sin dalla più tenera età e dunque in netta contrapposizione con quel machismo che le ruotava attorno. Un componimento, dunque, autobiografico e il cui tema è chiaro sin da subito, pertanto, se non siete lettori amanti di questa tematica, suddetto scritto non potrà solleticare particolarmente le vostre corde e le vostre curiosità anche perché non esente da cliché. Se al contrario siete amanti della problematica potrà essere un buono spunto per arricchire il vostro bagaglio o comunque per avvicinarvici.
La Allende non ci risparmia di confessioni, non ci risparmia di riflessioni. La sua penna è rapida, informale, diretta. La pillola non viene resa più indolore, l’anima è messa a nudo per quello che è e per quello che può offrire. Nel suo bene e nel suo male.
Ecco perché può dividere. “Donne dell’anima mia” è un volume dove la protagonista è Isabel Allende e il suo femminismo. Non c’è spazio per storie di tempi che furono o per una prosa poetica ed evocativa come nelle sue opere del passato più celebri e famose. Non è oggetto del lavoro proposto e del suo essere scritto. Quindi se questo cercate, ne resterete delusi.
Se viceversa cercate una biografia, un testo che non è altro che una confessione, un memoir dell’essere passato e presente, una sorta di vademecum di valore e principi in cui credere, una lettera a cuore aperto, ecco allora che farà per voi. Certamente questo non è il libro con cui cominciare a leggere l’autrice per conoscerla nell’aspetto di scrittrice. Buona lettura!
Maria Darida - 8 giorni fa
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Un'amicizia
«Ma cos’è un’amicizia? Non avevo vincoli di sangue né giuridici, diritti e doveri, ero semplicemente lì con lei su quella panchina a franare. La abbraccia più forte che potevo. Le asciugai le lacrime, provai a contenere la sua disperazione mentre si ribellava […] tentai di rassicurarla, consapevole di mentire. Perché le parole a questo servono: a sperare, ingannare, abbellire e migliorare, ma la realtà è un’altra e se ne frega dei nostri desideri.»
Bea ed Elisa sono come il giorno e la notte, distanti e diverse, un universo parallelo che non si sa per quale gioco del destino o regola matematica violata, giungono a incrociare le loro strade e a vivere gli anni più intensi della loro vita insieme sino al sopraggiungere di quello che sappiamo già dalle prime pagine essere un punto di rottura che come le ha unite le porterà a separarsi.
Siamo a T una fatiscente cittadina di periferia situata in Toscana, nei pressi di Livorno, con vista panoramica sulle isole dell’arcipelago. Elisa è la straniera, la forestiera. È giunta da Biella con la madre e il fratello con sempre più gravi problemi di droga, per tornare a vivere con il padre che non vede se non in occasioni ben prefissate essendo i genitori separati. Non si ama, non spicca per bellezza nonostante i suoi capelli rossi e quelle lentiggini che le solcano il viso. È presa in giro dai compagni, sbeffeggiata. Vive di parole ed è grazie alle parole e alla biblioteca che vede per la prima volta Lorenzo, coetaneo compagno di liceo del quale si invaghisce. Ed è ancora tra le mura di questo complesso che il suo rapporto con Bea passa dall’essere quello di derisione a quello di amicizia. Lei che è la più bella, che è già famosa per i suoi servizi fotografici, che mai può permettersi di prendere un chilo o di avere un ricciolo libero da quella chioma rigorosamente piastrata, diventa la sua migliore amica.
Passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni. Siamo a cavallo degli anni duemila e con questi passano le vecchie abitudini del vecchio mondo e arrivano le nuove dettate da quella cosa chiamata internet ancora sconosciuta e perfino denigrata. Il padre di Elisa è un ingegnere e subito ne resta affascinato, ci si tuffa a capofitto e propone alle ragazze anche di aprire un blog. Erano tempi diversi, erano i primi spiragli di quello che sarebbe diventato il mondo e se Elisa è reticente, Bea ha già fiutato l’occasione e iniziato a perpetrare la sua strada. Si impone come la bella, viene denigrata e definitiva frivola per questo, eppure questo suo essere la porterà a fatturare 50 milioni di euro l’anno quando non sarà più Beatrice ma la Rossetti e di anni ne saranno passati quindici. Perché la Rossetti ci ha visto lungo e adesso tutto è cambiato, tutto ha uno spessore diverso. Anche la loro amicizia, un’amicizia che viene rivissuta per mezzo di diari di scuola e poi stesa su carta in un giorno con un altro in prossimità della Vigilia di Natale…
«Per quanto oggi possa suonare incredibile quando cominciarono a diffondersi i blog erano territorio di conquista non per quelle come Bea, ma per quelle come me. A chi navigava nel 2003 non fregava nulla di bellezza o di vestiti: erano aspiranti scrittori, oppure “amanti di qualcosa” come mio padre, che desideravano condividere la propria passione, persone in vena di esplorazioni e amicizie. L’imperativo era scoprire, non mostrarsi.»
Ma cosa ne è stato di Beatrice e di Elisa? Perché la loro amicizia è giunta alla fine? Cosa è successo? Silvia Avallone torna in libreria con “Un’amicizia”, opera che riporta l’attenzione del lettore a riflettere su un tempo che ormai ci sembra lontano anni luce ma che in realtà non lo è. Ci porta a guardarci indietro, a chiederci cosa è stato e cosa è, ci chiede di dare uno sguardo al nostro essere stati e al mondo che ci circonda. E ci chiede, ancora, se tutto questo, è davvero necessario, se una vita per essere vissuta ha davvero bisogno di essere raccontata.
Tanti sono i temi che affronta, senza paura e senza nulla risparmiare al conoscitore. C’è tanta filosofia, inoltre, tra queste pagine e c’è anche tanta introspezione. Lo stile narrativo è rapido, pungente, trattiene. Accelera per poi leggermente rallentare nella seconda parte quando è proprio la vicenda che ti chiede di diminuire la marcia della lettura per afferrare quei concetti, quei sottesi che chiedono di emergere tra le fila. La storia è interamente narrata da Elisa e il conoscitore è catapultato nella sua mente, nei suoi pensieri.
Un libro attuale, che chiede di essere letto, che parla di una storia che riguarda tutti noi e che semplicemente resta. Buona lettura!
«La vita ha davvero bisogno di essere raccontata, per esistere?»
Maria Darida - 8 giorni fa
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L'inverno di Giona - Filippo Tapparelli
Non ha ricordi della sua infanzia Giona. Nemmeno uno. È consapevole di esser stato bambino ma la sua memoria è ferma ai giorni del presente o a quelli del passato prossimo. Vive in un tempo immobile dove i rammenti non esistono, dove non esiste un prima e dove la sua unica eredità è un logoro maglione rosso rattoppato che ha mutato la sua forma in funzione della sua crescita. Ha quindici anni, Giona. Vive con Alvise, un uomo che riveste la funzione di padre e nonno e che lo educa in modo austero, con la violenza, con il dolore, con il castigo. Perché questo è l’unico modo di apprendere, l’unico modo di far propria la conoscenza.
«Hai sbagliato e queste sono le conseguenze. Lo sai benissimo. Io ti spiego come fare ma tu continui a sbagliare. Non impari. Ecco perché ti punisco. La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. Deve essere così. Diffida da chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica.»
Anche i corpi raccontano una storia, l'una di precisione e di esattezza, di controllo, l'altra una di insicurezza, sottomissione, asservimento. Mentre Giona ha i capelli color iuta, il torace sottile, le gambe magre e lunghe, il collo e spalle spioventi, il vecchio ha capelli candidi, senza interferenze di grigio, mani grandi ma non sproporzionate, giuste per torcere la legna o insegnare, un corpo robusto quel tanto che basta a compiere i vari lavori e a incutere timore. Non solo nel nipote, ma in tutto il paese. Perché tutti, indistintamente, temono l’anziano. Tutti, indistintamente, si piegano al suo volere.
«Perché non hai portato il maglione di sopra, Giona? mi chiede di nuovo. […] Guardami, Giona. Ora ti insegnerò cosa è il freddo e cosa è una scelta. Brucia il maglione nella stufa o lascialo dov’è ed esci da questa casa. […] È facile, Giona. Butta il maglione nella stufa o vai fuori di qui. La sua voce è diversa. Più affilata. Se avesse un colore sarebbe grigia come la lama del suo coltello. “Non sai cosa fare, Giona? È facile. Brucia il maglione, ha detto il vecchio. Brucialo e accucciati per terra vicino alla stufa. Almeno ti scalderai ancora per qualche ora, fino a quando non si raffredda. E domani ci penserai”. Ma così lo perderò e avrò freddo per sempre. “Allora esci dalla porta, passa la notte al gelo e spera che domani gli sia passata. Spera che ti faccia ritornare a casa, spera che ti ridia il maglione. Ma non hai nessuna certezza che lo farà. Quale delle due cose è quella giusta, bambino?” Non so.»
Voce, che cosa devo fare? Voce, taci. Madre, dove sei? Padre, perché non vi trovo più? Mi sono allontanato soltanto per far pipì. Carbone, cosa ci fai qui micio? Scappare. Scappare da quelle punizioni, affrontare il passato, ricordare.
«I ricordi fanno male ma non uccidono, Giona. Sei stato coraggioso. Sei ancora vivo.»
Chi sei davvero Giona? Sei sicuro che questo sia il tuo vero nome? Un medico, un ospedale. Ciao Luca. Cos’è davvero l’inverno di Giona?
Una narrazione serrata, forse poco fluida, allucinata e capace di trasmettere la sensazione di trovarsi in una dimensione temporale sospesa, isolata, a sé, è il teatro in cui, per mezzo di un paese a ridosso della montagna le cui fondamenta sembrano sgretolarsi e in cui il confine tra verità e finzione è labile, sottilissimo, le vicende prendono campo. Il lettore è condotto per mano, è costretto a confrontarsi con un mondo fatto di violenza, cattiveria, brutalità, un universo privo di affetto alcuno, privo di ogni manifestazione positiva del sentimento. È costretto a confrontarsi con una stagione aspra e dura, metaforicamente e non. Ciò, almeno, sino all’ultima sezione, una discesa che dagli inferi in cui ci eravamo precedentemente calati, ci riporta alla dimensione del presente, a scenari completamente diversi ma comunque non meno aspri, tormentati, angoscianti e veritieri, a nuovi salti temporali, a nuove voci, nuovi protagonisti; una chiusa che ci porta capire cosa davvero è accaduto, qual è la verità, chi è davvero il personaggio principale e quale sia l’inverno che noi, insieme a lui, siamo costretti a fronteggiare. Il tutto sino a giungere ad un epilogo affatto scontato, che rimescola le carte, che sorprende.
Meritatamente vincitore della XXXI edizione del Premio Calvino, Filippo Tapparelli propone al lettore un romanzo fortemente evocativo, ambiguo, dalle atmosfere conturbanti, dai virtuosismi stilistici e dove niente è come appare. Invita il conoscitore a riflettere, lo obbliga a governare emozioni quali ansia e angoscia, a scrutarsi dentro, a indagare nel proprio buio.
Un esordio che ha quale colonna portante una storia insolita che tiene con il fiato sospeso dall’inizio alla fine, ben orchestrata e dal finale inaspettato e che ci permette di conoscere un autore che saprà ancora far parlare dei suoi lavori.
Maria Darida - 1 anno fa
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Bianco - Bret Easton Ellis
«Un atteggiamento tossico sembrava esondare da ogni post o commento o tweet, che ci fosse davvero oppure no. Si trattava di un fastidio del tutto nuovo, qualcosa che non avevo mai provato prima – e si accompagnava a un’ansia, a un senso di oppressione che provavo ogni volta che mi arrischiavo ad andare in rete, la sensazione che in un modo o nell’altro avrei commesso uno sbaglio per il semplice fatto di condividere ciò che pensavo a proposito di qualcosa. Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti. […] Come se nessuno sapesse più distinguere un essere umano da una serie di parole digitate su un touchscreen. Il clima culturale in generale pareva incoraggiare il dialogo ma i social media erano diventati una trappola e quello a cui in realtà miravano era silenziare l’individuo.»
L’idea di scrivere un nuovo romanzo, a distanza di ben trent’anni dall’uscita del primo, nasce in Ellis nel 2013 mentre si trovava in autostrada dopo aver trascorso una settimana a Palm Springs con un’amica con cui era stato al College negli anni ’80. Anni ben diversi da quelli attuali, anni in cui andare a scuola o non andarci, guardare un programma o un altro alla tv non aveva la stessa risonanza, protezione e ovattamento di oggi.
«Non fregava niente a nessuno i quello che guardavamo o no, di come ci sentivamo o di cosa desideravamo, e non eravamo ancora stati incantati dalla religione del vittimismo. Paragonata a ciò che oggi viene considerato accettabile ora che i bambini sono ipercoccolati fino all’inettitudine, era l’età dell’innocenza.»
Anni in cui comprese che non l’essere vincenti ma l’essere “frustrati, disillusi e feriti rendeva il piacere, la felicità, la consapevolezza e il successo sia più tangibili sia palesemente assai più intensi”. Ma adesso chi è Bret Easton Ellis oltre che “il cattivo” per eccellenza che divulga coscientemente sui vari canali social impressioni, considerazioni, provocazioni e pensieri? Come non far ciò, d’altra parte, in un’epoca in cui la libertà di parola si è evoluta al punto tale da diventare una cd. “responsabilità di parola” all’interno della quale viene abnegato ogni confine tra pubblico e privato tanto che ogni individuo si sente legittimato a proferir tutto ciò che passa per la mente? Il risultato pertanto del fenomeno è che i confini del che cosa è possibile o meno raccontare si sono talmente dilatati da raggiungere estremità vacue, non limiti.
E questo in un certo senso è quello che fa Ellis: analizzare il fenomeno radicato in una società fatta ormai di luci, neon, apparenze, oggetti scintillanti, droghe, alcol, sesso, estremizzazioni, feticismi e cercare di trovarne una spiegazione. Perché la prima impressione che emerge dalla lettura di “Bianco” è che, in questa lunga disamina che parte proprio dagli anni della sua giovinezza, passando a quelli che sono stati gli anni del successo, ci si stia trovando di fronte ad una spiegazione del perché Bret sia una persona così schietta e “stronza” o del come un uomo della sua età non riesca a far i conti con questo mondo così radicalmente cambiato a fronte del “quando si stava meglio” anche se in verità si stava peggio.
Per poter davvero apprezzare “Bianco” è necessario conoscere gli anni ’80 e considerarli quale il momento storico in cui un po’ tutto ha avuto inizio tra alienazioni e ossessioni ed eccessi, è necessario avere consapevolezza, ancora, di quelli che sono stati gli anni ’90 e duemila con tutte le relative conseguenze fino alla crisi economica del 2008 e il seguente decennio.
L’obiettivo di Ellis è senza dubbio quello, dopo aver dipinto un quadro che rappresenta una vera e propria panoramica del presente, di tirare le fila ma senza mai cadere nella rassegnazione o nella depressione. La narrazione è infatti intrisa di disincanto, di cinismo, di entusiasmo. “Bianco” può definirsi pertanto un saggio di critica cinematografica e di critica a quello che sin dal primo capitolo è definito come “Impero”, l’Impero americano.
Quello che avete davanti, se deciderete di leggerlo, è un testo stratificato, con molto da offrire, capace di suscitare riflessioni nel lettore ma che richiede un certo impegno nella sua discoperta. In parte per questa forte impronta autobiografica che lo caratterizza, in parte per la necessaria chiave di lettura che richiedere di applicare per essere apprezzato e compreso nelle sue varie sfaccettature, in parte per questa serie di tematiche scottanti che tratta.
Un saggio che consiglio a tutti coloro che cercano scritti di sostanza, attuali e volontariamente provocatori e a tutti coloro che vogliono interrogarsi sulle cause del tempo che viviamo.
«In passato, nell’ormai lontana epoca dell’Impero, gli attori potevano tutelare le loro identità scrupolosamente progettate ed enigmatiche in modo più facile e completo rispetto al giorno d’oggi, in cui tutti viviamo nel mondo digitale dei social media e dove i nostri telefoni catturano senza filtri istanti che una volta restavano privati e ciò che ci passa spontaneamente per la testa può venire tradotto in una frase o due su Twitter.»
Maria Darida - 1 anno fa
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Facciamo che ero morta - Jen Beagin
“Facciamo che ero morta”, si ripete Mona. Un gioco di quando era bambina, un modo per far sentire Mickey un padre decente per qualche minuto, un modo per non pensare alla sua vita e a quell’infanzia e adolescenza da cui lei non è uscita integra. Ventiquattro anni, donna delle pulizie e con un passato duro e crudo alle spalle, Mona, ogni martedì sera presta servizio di volontariato distribuendo kit di siringhe pulite ai tossici.
«Tra le persone che conosceva, aveva più cose in comune con i tossici che con chiunque altro. Come lei, erano invisibili al resto della società – loro in quanto tossici, lei in quanto colf – e, come lei, mangiavano praticamente qualsiasi cosa fosse coperta di glassa. Tra loro non c’erano buoni samaritani, esibizionisti o tipi alla Save the Children. Fumavano come turchi e mangiavano nachos e hot dog comprati al 7-Eleven, tutte cose che lei apprezzava»
Ed è durante uno di questi turni che lo vede: Mister Laido. Per i primi mesi di quel gioco di osservazione per lei, lui non era stato altro che un numero dall’epilogo già scritto, “un pellicano impantanato nel petrolio, sfinito e in condiscendente attesa della sua stessa disfatta”, poi, un libro dal titolo “La vita di Art Pepper” stabilisce il contatto e dal contatto nasce una relazione la cui sorte è inevitabile ma a cui, eppure, è impossibile sottrarsi.
Sin dal principio la protagonista dell’esordiente Jen Beagin colpisce il lettore per il suo essere semplicemente così se stessa e per le sue scelte: eclettica, triste e sola a causa di traumi vissuti nell’infanzia che le hanno arrecato disturbi mentali non superati nonostante cinque anni di terapia, ella si accontenta del suo lavoro di donna delle pulizie, vive le vite dei suoi clienti di cui conosce tutto grazie a quella intima confidenza che assume pulendo e al contempo si innamora di un quarantaquattrenne che per sei mesi riesce a restare “pulito” per poi ricadere nel suo programma di autodistruzione, programma in cui però non ha intenzione di coinvolgerla fino alla fine. Non solo, a renderla ancora particolare è la scelta di andarsene e di lasciar tutto per seguire il consiglio proprio di quest’ultima voce che per l’intero componimento le fa da eco nella mente. Abbandonata così Lowell, Massachusetts, la giovane giunge nel New Mexico e approda in una cittadina vicina a Taos abitata da una bislacca comunità di nullafacenti e new ager quali Yoko e Yoko.
«Tu non sei una lotofaga, Mona, – disse Nigel con pazienza. – Non più. Sei risalita a bordo e stai tornando a casa. È giunta l’ora di gir battendo co’ pareggiati remi il mar canuto. Rema con tutte le tue forze e non guardarti indietro»
Leggendo di Mona molteplici sono le sensazioni di dejà vu con “Eleanor Oliphant sta benissimo” di Gail Honeyman. Le due eroine, infatti, sono vicine proprio per il modo di porsi rispetto al mondo fuori e alla dimensione esterna a quella del proprio io a causa di traumi che le hanno segnate nell’età dello sviluppo, tuttavia, man mano che l’opera prosegue nel suo scorrimento, vediamo che in realtà questa apparente comunanza di romanzi, finisce con l’imbarcarsi su rette parallele che sono destinate a non incontrarsi mai e che forse mai si sono incontrate se non per qualche gioco della nostra mente. La differenza tra i due scritti risiede proprio nel contenuto, perché se Eleanor passa dalla solitudine all’amicizia, dal disturbo psichico alla terapia per la guarigione, alla speranza per un futuro diverso fatto di possibilità e di un principio, a un domani che diventa possibile, Mona è talmente contrita nella sua psiche e nel suo passato così poco lineare e affrontato, che si limita semplicemente a tentare di mutare la propria condizione andandosene in un’altra città ma senza davvero provare a cambiare la sua esistenza. Conosce persone, conosce situazioni e realtà paradossali sin dalla prima pagina, ma le manca quel qualcosa per riuscire. Lo dimostra il fatto che nonostante la sua giovane età mai pensi ad un’alternativa concreta al suo lavoro. Ama scattarsi foto in pose assurde e talvolta inquietanti, ha un rapporto provato con il suo corpo, potrebbe essere tutto, ma resta sempre lì. Ferma, immobile. Solo nell’epilogo e nelle telefonate a quel padre che fa accapponare la pelle, si può ipotizzare un presunto baluardo di speranza.
È un personaggio complesso, stratificato, grottesco, ironico, con un senso dell’umorismo tagliente, la nostra Mona, è una giovane donna con una prospettiva a trecentosessanta gradi tanto interna quanto esterna che però sopravvive e mai vive. Ha uno spiccato senso verso l’autodistruzione e verso l’autocommiserazione. La forza dell’autrice è proprio questa, riuscire a far entrare il lettore nella sua psiche, trascinandolo, sconvolgendolo con le vicende e le circostanze, lasciandolo perplesso innanzi a scelte e comportamenti e al contempo rivelando, in modo assolutamente casuale e non seguendo un filo logico-temporale preciso bensì in modo volontariamente impreciso e irruento, quegli avvenimenti della gioventù della donna. L’effetto è che il conoscitore torna indietro, rilegge, si assicura di aver letto bene, intuisce ma resta nel dubbio da questa totale assenza di certezza, si interroga, e va avanti e ancora avanti nel tentativo di far chiarezza, di capire, di scoprire cosa si cela in questo percorso cieco e oscuro.
In conclusione, un romanzo d’esordio che non lascia indifferenti, con una storia e con personaggi imperfetti che fanno della loro assenza di perfezione la loro forza e che ha quale grande obiettivo quello di invitare alla riflessione sul male di vivere, sulle sue difficoltà, sulle realtà che ci circondano, sulla solitudine, l’isolamento, la tristezza e la depressione di questa vita dai colori opachi, dal sapore amaro e dalla tonalità acuta e ingiusta.
Maria Darida - 2 anni fa
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Rien ne va plus - Antonio Manzini
Abbiamo lasciato Rocco Schiavone alle prese con un delitto irrisolto, o almeno parzialmente risolto, ovvero quello di Romano Favre, sessantacinquenne ragioniere in pensione e ex ispettore di gioco presso il casinò Saint-Vincent, ritrovato in “Fate il vostro gioco” privo di vita all’interno della sua abitazione a seguito di due coltellate letali (una prima al fegato e una seconda alla giugulare) e con in mano una fiche di un altro casinò. Il Vicequestore e la sua squadra, odorato che qualcosa nella ricostruzione dei fatti non tornava, si erano messi subito al lavoro riuscendo a scoprire una pista di denaro riciclato nonché individuando l’assassino. Eppure, nonostante questo buon risultato il caso non poteva (e non può) definirsi concluso e archiviato. Troppe ancora erano – e sono – le questioni irrisolte a cui gli agenti dovevano dare una risposta e individuare un colpevole. È da questi brevi assunti che ha inizio “Rien ne va plus” nuovo episodio di uno dei funzionari di polizia più eclettici e amati dal grande pubblico negli ultimi anni che si troverà a dover non solo risolvere l’indagine inconclusa ma anche ad indagare sulla misteriosa scomparsa di un furgone portavalori con un carico di due milioni e ottocentomila euro circa, “rubato”, probabilmente, da una delle due guardie giurate a bordo. Che le due indagini siano in realtà collegate? Rocco, quella puzza, la sente e pure forte. Ed ancora, chi è il mandante dell’omicidio del ragioniere Favre? Quale ruolo ha la sua morte in quello che è un disegno chiaramente più grande? Al contempo, il romano esiliato ad Aosta dovrà stare all’erta anche su quel che accade a Roma perché pare che Baiocchi abbia “cantato sul fratello indicando perfino alla polizia il luogo dove sta il cadavere”.
Tanti tasselli di un puzzle che Antonio Manzini compone e scompone con grande maestria e perfetta linearità. Una trama solida, quella presentata, dal buon intreccio narrativo, dall’ottima caratterizzazione dei personaggi, dalle molteplici tematiche trattate che coinvolgono tanto i colletti bianchi quanto truffe, omicidi, complotti in una serie di situazioni in cui niente è quel che appare, a cui si somma l’ormai abituale stile narrativo dello scrittore che è solito alternare la risoluzione di più delitti e vicissitudini atte a interrompere la narrazione al contempo a completarla.
In conclusione, un giallo perfettamente riuscito, che non delude le aspettative, che fa sentire il lettore “a casa”, che chiude le vicende del precedente volume lasciando ben sperare per la pubblicazione di un nuovo capitolo della serie e che, ancora, conferma le capacità dell'autore.
Maria Darida - 2 anni fa
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Storia di una balena bianca - Luis Sepùlveda
Il suo nome è Mocha Dick, è un capodoglio nato nelle acque fredde che circondano un’isola detta dagli uomini Mocha, il suo corpo splende dei colori della luna e si erge con tutta la sua forza maestosa nei ventisei metri che lo compongono. Egli è l’erede della forza e della resistenza di tutti i maschi del gruppo, è un capodoglio il cui mondo è fatto di silenzio perché "nessuna creatura si lamenta, grida, grugnisce o strilla sotto la superficie e solo noi giganti rompiamo a volte la quiete”. Abita nel mare delimitato dalla terra dove spunta il chiarore del giorno e dall’orizzonte in cui il sole si immerge per far posto alle stelle. Qui l’acqua è fredda, è attraversata dalle correnti gelide che arrivano da lontani confini dove tutto è bianco e dove il mare si trasforma in roccia color sale che cresce quando le notti sono molto lunghe e cala quando i giorni sembrano non avere fine; qui la sua missione ha luogo perché nell’implacabilità che è dell’uomo Mocha Dick ha conosciuto la popolazione dei lafkenche, della Gente del Mare, una popolazione che prende dalla riva soltanto il necessario per vivere e che ringrazia la generosità del mare celebrandolo con un rito antichissimo, una popolazione che prende dai boschi soltanto dopo aver ricevuto il permesso, una popolazione che con un rito particolarissimo celebra i defunti. Perché quando un lafkenche muore il suo corpo viene portato, alla sera, sulla riva del mare onde poter essere accompagnato da una delle quattro balene vecchie, una trempulkawe, sull’isola mgill chenmaywe, il luogo dove ci si riunisce prima del grande viaggio. Quaggiù il defunto si spoglia del suo corpo mortale fatto di carne e ossa per diventare leggero come l’aria per restare in attesa, insieme agli altri della sua stirpe che lo hanno preceduto nella morte, di questo. E in questa traversata Mocha dovrà dare prova di tutto il suo coraggio e di tutta la sua forza. Il suo compito, la sua missione è quella di proteggere dalla furia, dall’avidità e dalla cattiveria umana le quattro balene anziane anche se questo significherà non avere scrupoli, significherà essere considerato la maledizione dei balenieri, significherà essere l’implacabile giustizia del mare, significherà essere la forza di chi non ha più niente da perdere.
«Gli uomini vengono da molto lontano e nulla frena la loro cupidigia, nemmeno la morte. Vengono da regioni che non abbiamo mai visto né mai vedremo, perché attraversano un oceano grande come questo per raggiungere lo stretto chiamato da loro Capo Horn, che ha le rive piene di relitti, di silenziosi resti di naufragi, a testimonianza dell’audacia degli uomini, che non desistono mai»
Correva il 20 novembre 1820 quando nelle acque dell’Oceano Pacifico, lungo la costa del Cile, davanti all’isola di Mocha, un grande capodoglio bianco attaccò e affondò la baleniera Essex salpata dal porto di Nantucket, nell’Atlantico settentrionale, quindici mesi prima. Pare che l’attacco abbia trovato ragione nell’uccisione di una femmina di balena e il suo piccolo da parte dei ramponieri. E si narra ancora che molte navi furono necessarie per catturare il grande capodoglio del colore della luna soprannominato Mocha Dick con i suoi ventisei metri e oltre cento arpioni conficcati nel corpo. E si racconta ancora che nelle notti di luna piena dagli abissi, dalla costa occidentale della disabitata isola di Mocha, si veda emergere un grande capodoglio bianco il cui colore brilla nella notte più profonda.
È da questa leggenda che trae origine “Storia di una balena raccontata da lei stessa” di Luis Sepulveda, un racconto breve di appena novanta pagine che per contenuto e riflessione si rende adatto tanto alla lettura di un pubblico più adulto quanto più giovane. Con una penna fluente e leggera a cui si affiancano piacevolissime immagini a cura di Simona Mulazzani l’autore conduce in una intima analisi sulla natura in tutto il suo splendore e sul genere umano con tutte le sue contraddizioni.
Il risultato è un componimento di piacevolissima e facile lettura che si esaurisce in poche ore ma che non lascia insoddisfatto l’avventuriero conoscitore.
ps. nota bene, è da questa leggenda che trae origine il celebre Moby Dick. Buona lettura!
Maria Darida - 2 anni fa
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Fate il vostro gioco - Antonio Manzini
Dopo “L’anello mancante. Cinque indagini romane per Rocco Schiavone”, Antonio Manzini fa ritorno in libreria con “Fate il vostro gioco”, giallo che ci propone una nuova avventura del personaggio più famoso nato dalla sua penna e immaginazione; Rocco Schiavone.
Due coltellate, una all’altezza della giugulare e l’altro al fegato, hanno determinato la morte di Romano Favre, sessantenne pensionato ragioniere legato al casinò di Saint-Vincent per la sua attività di “ispettore di gioco”. Il ritrovamento ha avuto luogo per mano dei vicini di casa e più precisamente da parte di due vecchiette e da Arturo Michelini, croupier presso il casinò Saint-Vincent che, insospettiti dall’assenza di risposta da parte del contabile perfino di fronte alla fuga della sua amata gatta siamese chiamata Pallina, decidono di andare a verificarne lo stato di salute. Sangue, tanto sangue. Non vi sono dubbi sulle cause del decesso. Sul luogo intervengono Schiavone e la sua squadra che già dai primi rilievi si rendono conto che qualcosa nella ricostruzione dei fatti non torna. Basti pensare, in merito, a quel bic bianco rinvenuto sul comodino del defunto o ancora a quella fiche del casinò di Sanremo (perché di questo casinò e non del più vicino Saint-Vincent?) racchiusa nella sua mano. O ancora, basti pensare, a quella porta finestra lasciata misteriosamente aperta e a quella toppa della porta con al suo interno inserite le chiavi di casa. Tanti tasselli, questi, che non solo fanno capire a Schiavone di trovarsi di fronte ad “un morto che parla” ma che al contempo aprono la prospettiva su uno scenario ben più ampio, fatto di riciclaggio, di criminalità, di sotterfugi, di gioco d’azzardo, di ludopatia, di strozzinaggio, di usura e molto altro ancora. E seppur il vicequestore riesca ad arrivare alla conclusione e alla risoluzione del caso, le trame e le prospettive sono talmente intricate e ben articolate tra loro da rendere inevitabile il proseguo delle vicende proposte in un nuovo e separato capitolo. Da qui, il finale aperto sull’indagine e il sipario che definitivamente – e dolorosamente – scende su quel maledetto “7-7-2007”.
Quello che ci troviamo di fronte in questo nuovo capitolo delle avventure del romano esiliato vicequestore, è un testo con tutte le caratteristiche del giallo, è un testo con un ottimo intreccio narrativo, è un testo con un mistero che regge su tutta la linea e che è caratterizzato da un rapporto causa-effetto ben cadenzato e ritmato, ma è anche un testo in cui riscopriamo la figura di questo eclettico funzionario di polizia. Paradossalmente, infatti, si percepisce dalla sua voce la stanchezza di una vita fatta di dissoluzione e dolore, si percepisce la stanchezza di un lavoro usurante in prossimità dei cinquant’anni, si percepisce la nostalgia per quei tempi ormai andati che mai potranno fare ritorno. Il suo è un tono malinconico, molto più vicino ai romanzi noir che ai gialli veri e propri, se vogliamo. E forse questo è dovuto al fatto che Rocco, così come il suo vicino Italo Pierron, ancora non hanno superato il tradimento di Caterina, occorso in quel di “Pulvis et Umbra”. Tratti immancabili e che non mutano attengono invece all’indole rozza, schietta, smaliziata, cinica e ironica a cui siamo abituati sin dai primi episodi.
Un giallo che tiene bene nonostante questo non fosse semplice visto il grande successo e la meravigliosa riuscita proprio di “Pulvis et Umbra”, che ad oggi, insieme a “7-07-2007”, è sicuramente il capitolo meglio riuscito dell’intera saga. Non ci resta altro che aspettare il prossimo volume delle avventure di questo versatile personaggio.
«Pensavo che siamo come i serpenti. Ci lasciamo dietro la vecchia pelle perché abbiamo bisogno di quella nuova. Ma la vecchia pelle c’è stata. È un fatto, senza la vecchia pelle quella nuova non c’è» p. 378
«Che tu puoi essere qui e altrove, sei sempre tu e io sono sempre io. Tempo, spazio, non importa, Rocco. Quello che conta è che siamo qui. La differenza? A me certe cose non interessano più, a te sì. Ma il motiov lo conosci.» p. 380
«Lei sa come far credere che qualcosa sia vera? È semplice. Si dicono un sacco di verità comprovate e in mezzo, come un’insalata, si butta una cazzata che la gente prenderà per buona.» p. 388
Maria Darida - 2 anni fa
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