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Il leopardo - Jo Nesbo
Dopo “L’uomo di Neve” Harry Hole cercava un rifugio dove affondare nei propri dispiaceri, tra alcol, oppio e scommesse ai cavalli. E quale miglior luogo, se non Honk Kong, poteva rispondere a questa esigenza?
Ha chiuso con la sezione anticrimine norvegese, non ha più niente a che fare con questa, con omicidi efferati, e quant’altro. Il connubio di siffatti elementi lo ha portato a perdere gli unici veri affetti che aveva, quindi perché continuare a lottare se qualsiasi suo tentativo di fermare i peggiori serial killer non arreca altro che dolore e perdizione al suo, già precario, “non equilibrio”?
Eppure la sezione non la pensa come lui; Kaja Solness è stata incaricata di recuperarlo e di riportarlo ad Oslo. Un omicida senza scrupoli sta mietendo vittime su vittime, apparentemente senza che tra queste sussista un collegamento. L’unico che può venire a capo della matassa è Harry. Ma la soluzione del caso non è essenziale soltanto per impedire al killer di continuare ad uccidere, lo è anche per mantenere in vita la sezione anticrimine stessa: la Kripos, capitanata da Bellman, ha infatti deciso di accaparrarsi tutti i casi di omicidio norvegesi e per farlo necessaria è la dissoluzione della sezione anticrimine mediante l’espediente dell’unificazione dei due gruppi investigativi. Riuscirà Harry a risolvere il caso? Riuscirà a salvare la sua quadra dall’eliminazione? Quali misteri si celano dietro le pagine de “Il leopardo”?
Con questo elaborato Nesbo offre al lettore un testo ricco di colpi di scena, uno scritto caratterizzato dal giusto grado di mistero, con un assassino che funziona ed un protagonista che nel suo essere un animo in perdizione colpisce e conquista. Pagina dopo pagina chi legge è infatti invogliato ad andare avanti, a scoprire chi si nasconde dietro le molteplici morti che hanno colpito Oslo e vi riesce senza difficoltà grazie, oltretutto, alla presenza di un linguaggio fluido e diretto che senza troppi giri di parole arriva al punto.
Pertanto, attraverso una serie di personaggi concreti, un omicida da scoprire ed uno stile ottimale, il romanzo funziona, prende. Non nascondo però che verso i suoi ¾, circa cioè intorno a pagina 450, esso si appesantisce, rischia di sfiancare. Questo perché tende a diventare troppo surreale, eccessivo, facendo porre in essere ad Hole azioni che vanno oltre l’umano, l’immaginabile e facendo altresì compiere delle azioni al reo che sono ai limiti dello splatter e del tollerabile (soprattutto una volta che il movente di tali atti viene rivelato). Se poi vi si aggiunge che questo assassino sembra essere libero di agire indisturbato perché le carte sono, ogni volta che si presume aver individuato la sua identità e proceduto all’arresto, costantemente rimescolate, inevitabile è sdubbiarsi. Se da un lato, infatti, questo incrementa la curiosità e la suspense, dall’altro rende farraginoso il proseguo. Porta l’avventuriero conoscitore a sospirare, a dire “Nesbo e daccelo questo serial killer!”.
In conclusione; l’autore si conferma come uno dei giallisti più apprezzati e forti del nostro secolo grazie ad una storia dalla trama solida, per la gran parte avvincente, e ad un protagonista eccentrico ma acuto; una vicenda, quindi, che nel complesso merita di essere letta, nonostante la nota finale del “voler fare troppo”, dell’eccedere.
«[..] Nessuno è come sembra, e quasi tutto, a parte il tradimento vero e proprio, è menzogna e inganno. E il giorno in cui scopriamo che neanche noi siamo diversi, è il giorno in cui ci viene meno la voglia di vivere.»
«Siamo tanto banali. Crediamo perché vogliamo credere. Agli dei perché placano la paura della morte. All’amore perché fa sembrare la vita più bella. A quello che dicono gli uomini sposati perché è quello che dicono gli uomini sposati.»
«Non puoi svilire i tuoi sentimenti così, Harry. Cerchi di scantonare il fatto che tu, come chiunque altro, sei guidato da concetti di giusto e sbagliato. Forse il tuo intelletto non possiede tutte le argomentazioni per spiegare questi concetti, ma sono comunque radicati in te molto, ma molto profondamente. Giusto e sbagliato. Forse sono cose che i tuoi genitori ti hanno raccontato quando eri piccolo, una fiaba con la morale che ti ha letto la nonna, un episodio che è successo a scuola e ti è sembrato ingiusto e su cui hai riflettuto molto. La somma di tutte queste cose semidimenticate. [..] Perché dice che forse non riesci a vedere la radice, giù in fondo, e malgrado ciò non ti schiodi di lì, continui a vagare in tondo, è quello il posto cui appartieni. Cerca di accettarlo, Harry. Accetta la radice. [..]
– La cosa peggiore da sopportare non è il dolore fisico, credimi, lo vedo tutti i giorni. E nemmeno la morte. Addirittura nemmeno la paura di morire. –
– E allora qual è la cosa peggiore? –
– L’umiliazione. Essere privati dell’onore e della dignità. Essere spogliati, emarginati dal branco. Questa è la punizione peggiore, essere sepolti vivi. E l’unica consolazione è che si colerà a picco relativamente in fretta – »
Maria Darida - 7 anni fa
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La testa perduta di Damasceno Monteiro - Antonio Tabucchi
Un bisogno fisiologico incontrovertibile di urinare è quello che spinge Manolo il Gitano, detto El Rey, a destarsi dal sonno e a recarsi al di fuori della sua baracca; una necessità che mai avrebbe però pensato che potesse portarlo a rinvenire quel corpo decapitato tra i rovi. Ed è a seguito di detto ritrovamento che Firmino, giovane giornalista di Lisbona, viene inviato nella città di Oporto al fine di seguire l’inchiesta onde scoprirne i misteri, le incomprensioni, le contraddizioni. Alloggiato presso la pensione di Dona Rosa, il ragazzo percepisce sin dalle prime battute che molteplici sono le incoerenze che si celano dietro al rinvenimento tanto che, scoperta l’identità del proprietario della testa nella persona di Damasceno Monteiro, ventotto anni, garzone presso la Stones of Portugal e residente presso Rua Dos Canastreiros nella Ribeira, inevitabile è recarsi da un legale, a sua volta riscontrabile nella figura di Mello Sequeira, detto Don Fernando; atipico nel suo genere, perché oltre che ad essere uomo di grande cultura letteraria che porterà il protagonista a riflettere sul quello che doveva essere il suo saggio sull’influenza di Vittorini sul romanzo portoghese nel dopoguerra, è dedito alla difesa gratuita dei poveri, dei derelitti e dei disperati .
Ed è a questo punto che il romanzo prende il volo trascinando il lettore per le vie di una cittadina con mille segreti, in quella che è una realtà costituita da corruzioni, violenza e traffico di stupefacenti da parte di una frangia della Polizia dello Stato.
Di fatto, tra un piatto di trippa, una disputa filosofica, una discussione letteraria, gite fuori porta presso l’unico fratello di latte ancora in vita dell’uomo di legge, assisteremo da un lato, ad un mutamento del rapporto tra i due personaggi che, da un mero legame lavorativo diventerà una effettiva relazione di stima, rispetto, amicizia e dall’altro al corso inesorabile di una giustizia ipocrita, autoritaria, inquisitoria. Le vicende si svolgeranno in quello che è un Tribunale Militare, luogo in cui vane saranno le recriminatorie di Don Fernando, inani saranno le sue riflessioni sulla tortura, sulla effettiva dinamica dei fatti; il caso sarà obliato, sarà risolto attraverso la maschera di una finta legalità che non lascia spazio ai più deboli consacrandosi nel volto del più forte.
Un testo duro è “La testa perduta di Damasceno Monteiro”, un elaborato in cui Tabucchi si riafferma quale un autore eccellente per forma e per stile, ma anche per contenuto, retaggio storico e contesto sociale.
Come noto, infatti, Damasceno Monteiro è il nome di una via di un quartiere popolare di Lisbona ed il fatto a cui è ispirata la vicenda risale ad un episodio realmente accaduto nella notte del 7 maggio 1996, quando Carlos Rosa, cittadino portoghese di 25 anni, venne brutalmente ucciso in un commissariato della Guarda Nacional Republicana di Sacavém alla periferia di Lisbona, e rinvenuto – appunto – decapitato e con numerosi segni di sevizie sul corpo. Partendo da questo assunto, Tabucchi, con il suo stile inconfondibile, è riuscito a dar vita ad uno scritto che è nel suo emblema il perfetto ritratto storico e politico di un Portogallo voglioso, negli intenti, di lasciarsi alle spalle gli anni bui del regime di Salazar, ed incapace, nel concreto, di staccarsi da quella che è la mentalità dittatoriale; impostazione che continua a respirarsi nella quotidianità, che influenza i cittadini e consacra i governi autoritari e le forze di polizia.
Impossibile è nella lettura non immedesimarsi con Firmino, non apprezzare quelle perle di rara bellezza e riflessione che sono i dialoghi con Don Fernando, non immaginarsi in passeggio per le viuzze che caratterizzano Oporto e/o Lisbona, non immaginarsi seduto ad un tavolo di un ristorante a gustare un piatto tipico tra una dissertazione filosofico letteraria e l’altra, o ancora non riflettere su quella che è la tortura, tematica che viene argomentata, trattata e sviluppata con uno stile prima semplice, poi sempre più incisivo.
«- Lei continua a deludermi, giovanotto, rispose l’avvocato, cerca a tutti i costi di essere inferiore a se stesso, non dobbiamo mai essere inferiori a noi stessi, cos’è che ha detto di me?
- Che ha una reputazione da difendere, rispose Firmino
- Senta, mormorò l’avvocato, credo che non ci siamo capiti, le dirò una cosa una volta per tutte, ma spalanchi bene le orecchie. Io difendo gli sciagurati perché sono come loro, questa è la pura e semplice verità. Della mia nobile casata utilizzo solo il patrimonio materiale che mi è rimasto, ma come i disgraziati che difendo credo di aver conosciuto le miserie della vita, di averle capite e anche assunte, perché per capire le miserie della vita bisogna mettere le mani nella merda, scusi la parola, e soprattutto esserne consapevoli. E non mi costringa alla retorica, perché questa è retorica a buon mercato. » p. 126
«[..] Ho la mania di fissare i nomi dei torturatori, chissà perché ho l’impressione che fissare i nomi dei torturatori abbia un senso, e sa perché? Perché la tortura è una responsabilità individuale, l’obbedienza a un ordine superiore non è tollerabile, troppa gente si è nascosta dietro questa miserabile giustificazione facendosene uno schermo legale, capisce? Si nascondono dietro la Grundnorm.» p. 176
«E’ una persona, disse, si ricordi questo, giovanotto, prima di tutto è una persona» p. 238
Maria Darida - 7 anni fa
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Novecento - di Alessandro Baricco
Danny Boodmann T.D. Lemon Novecento suona il suo pianoforte con quella maestria e libertà proprie di chi quei tasti li sente sulla pelle, di chi quella melodia l’ha scolpita nel cuore e nell’anima, di chi, già dalla prima battuta, si ritrova ad abitare un’altra dimensione, un altro mondo. Ed è sul Virginian, nave tanto amata quanto dimora provvisoria che da un momento all’altro può venire meno, che l’incanto della musica nonché della storia narrata dalla sublime penna di Baricco, ha inizio.
Nave che è sinonimo di “casa” in un mondo in movimento composto da uomini e donne dai mille colori, con vite che si incontrano e scontrano fondendosi in un’unica sinfonia. Mai è sceso a terra Novecento, egli il mondo di fuori lo osserva dal ponte, lo ascolta dai racconti e dalle chiacchere dei passeggeri, lo respira tra un profumo e l’altro della giornata. Quello scenario che si apre in lontananza ai suoi occhi è tanto estraneo quanto sconosciuto è, per chi non ha mai viaggiato in mare, l’Oceano. Non vi è scelta per Novecento, non vi è alternativa, prendere una decisione non sarebbe altro che una sofferenza, perché come si può scegliere quale nota suonare a discapito di un’altra? Come si può rinunciare a quella sinfonia che ci scuote dall’interno e che fa di tutto per uscire? Novecento è l’accordo vivente di una melodia infinita; egli riesce infatti ad accordare quello strumento che tutti abbiamo dentro ma che spesso, per circostanze e/o disarmonia, non riesce a produrre alcun suono, alcuna melodia.
Novecento è passione, è voglia di vivere, è poesia. Una delle prime opere di detto autore che ho avuto modo di leggere, e che è sempre un piacere rileggere, ogni volta con un nuovo spirito, ogni volta con una nuova e mutata consapevolezza.
«Io, che non ero stato capace di scendere da questa nave, per salvarmi sono sceso dalla mia vita. Gradino dopo gradino. E ogni gradino era un desiderio. Per ogni passo, un desiderio a cui dicevo addio.
Non sono pazzo, fratello. Non siamo pazzi quando troviamo il sistema per salvarci. Siamo astuti come animali affamati. Non c'entra la pazzia. È genio, quello. E’ geometria. Perfezione. I desideri stavano strappandomi l'anima. Potevo viverli, ma non ci son riuscito. Allora li ho incantati. E a uno a uno li ho lasciati dietro di me. Geometria. Un lavoro perfetto.»
Maria Darida - 7 anni fa
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Emmaus - Alessandro Baricco
Quattro i protagonisti: Luca, Bobby, il Santo e l’io narrante della vicenda. Quattro ragazzi che appartengono alla borghesia, quattro anime che sono cresciute con l’asservimento a regole ferree e precetti religiosi che, vuoi a causa dell’età, vuoi per i tempi, non comprendono fino in fondo. E per quanto ne discutano, ne parlino, ragionino, quei dubbi restano, quelle perplessità che li hanno portati ad analizzare e ad interrogarsi, persistono.
Crescono e con loro prosperano questi dilemmi, assumendo volta volta differenti pieghe poiché ciascuno è contraddistinto da realtà familiari e di vita mutevoli. Ognuno vive infatti in un contesto diverso; taluno in una famiglia apparentemente dedita al dialogo, talaltro in una in cui questo è inesistente o dove i segreti imperano incessanti dietro silenzi e mura di divisione non solo fisica ma anche mentale e con quella cecità propria di quei genitori che si rifiutano di vedere oltre quegli insegnamenti elargiti e a cui è impensabile sottrarsi. Da qui subentra il tema del peccato che non è concepito come un qualcosa che non va fatto perché atto a ferire il prossimo, bensì come dogma a cui è dovere attenersi perché così è stato insegnato, così è e così deve essere. E fa male, arreca sofferenza, in quanto porta conflitto tra il pensiero interiore e l’insegnamento “sacro” ricevuto.
Una storia dura è quella che ci offre Baricco con Emmaus, una storia in cui si parte dall’amicizia, sentimento che è causa di mille incomprensioni, che è forza e debolezza, e che finisce con l’essere condizionato dalla mentalità bigotta, chiusa in schemi programmati; elemento che di fatto non può che portare al dolore, alla disperazione.
Peculiarità di questo scritto non è solo e soltanto la trama costituita da una tematica di non facile apprezzamento, ma anche lo stile narrativo adottato che risulta essere ad una prima battuta meno poetico rispetto al Baricco a cui siamo abituati tanto da poter essere percepito quale ostico alla lettura.
Eppure è proprio questa scelta stilistica che avvalora e concretizza le argomentazioni proposte perché grazie alla ruvidità del linguaggio la storia, che si sviluppa attraverso le angosce di un gruppo di ragazzi, risulta tangibile, tocca nel profondo chi legge, risveglia corde che altrimenti non sarebbero state pizzicate. Un elaborato particolare ma capace di far riflettere.
Maria Darida - 7 anni fa
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Qualcuno con cui correre - David Grossman
Gerusalemme, un cane senza padrone ed un ragazzino che si ritrova a cercare quest’ultimo in compagnia di quel canide in perenne corsa. Assaf, ha sedici anni quando incontra l’ìperattiva Dinka, è poco più di un adolescente quando inizia la ricerca di Tamar, di fatto, la proprietaria dell’animale. Un legame di fortuna, che nasce per caso ma che ben presto, tra i vicoli, i ghetti dimenticati, le piazze della città e le organizzazioni criminali che tramite lo sfruttamento dei più deboli si arricchiscono a dismisura, finirà col consolidarsi in modo indissolubile.
Un reciproco inseguirsi è quello di Tamar e Assaf, una ricerca intima, mentale, quella della prima, che si sviluppa tramite le pagine di un diario segreto, dialoghi interiori, confidenze; tutti elementi che sono di per sé pericolosi per la sua missione, per quel proposito incessante di salvare una persona cara, arrivando a tutto, sacrificando l’impossibile, rinunciando anche alla propria femminilità (per citarne uno basti pensare al drastico taglio di capelli), pur di se non altro provarvi, una ricerca concreta, tangibile, fisica, quella del secondo, che lo porterà a conoscere luoghi impensabili dalle pizzerie, ai conventi, al carcere, sino al peso delle minacce e percosse. Personaggi principali a cui si affiancano quegli amici propri del panorama adolescenziale che nel loro essere sono capaci di ascoltare i pensieri e le problematiche dei ragazzi offrendo rifugio e sostegno, anche solo a distanza; a cui si accosta la cara Teodora, monaca greca di clausura investita in gioventù della missione di accogliere in Terra Santa i pellegrini provenienti dalla sua isola d’origine distrutta negli anni da uno spaventoso terremoto, e che vinte le prime diffidenze si dimostra essere un personaggio chiave per conoscere ed entrare nella psiche dei fanciulli, a cui si aggiunge infine, ma non per questo meno importante, la stessa Dinka, che nel suo essere fedele rammenta e consolida il messaggio di amicizia che caratterizza tutta l’opera.
Non mancano logicamente i nemici, non mancano i carnefici, non mancano coloro che credono di aver trovato nella droga la salvezza, l’espediente per ottenere la protezione del loro talento, la certezza del loro futuro, non manca la volontà di ritrovarsi, di salvare e di salvarsi dopo l’essersi persi.
Tante le tematiche trattate dall’autore, questioni che vanno dall’amicizia, alla voglia di avventura, al timore di rimanere soli, al senso di incomprensione, al contrasto tra il mondo degli adulti e quello degli adolescenti, al desiderio di amare trovando la tanto bramata anima gemella, ed arrivando alla delusione di quella è la realtà della vita.
Una trama ricca di spunti di riflessione a cui si somma uno stile particolare, a tratti logorroico, a tratti eccessivamente prolisso che può convincere come sfiancare. Francamente la scrittura di Grossman non mi è particolarmente congeniale ma questo non osta ad affermare che la storia sia, per contenuto, temi affrontati e rappresentazioni scenografiche, valevole e quindi capace di conquistare chi legge. Un elaborato dunque ottimo per avvicinare alla lettura i più giovani.
Maria Darida - 7 anni fa
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Il quartiere - Vasco Pratolini
Firenze, anni ’30. “Il Quartiere” non è certo un luogo dove sfarzo e lusso regnano sovrani, eppure, per i protagonisti di questa storia è “la casa”, la località dove risiedono gli affetti, la consuetudine, i dogmi della vita di strada, i principi di onestà e rettitudine di tempi dettati e scanditi da una diversa concezione della quotidianità.
Valerio, Giorgio, Carlo, Arrigo, Gino, Berto, Maria, Marisa, Olga, Argia e Luciana, sono le voci corali che abitano le pagine dell’opera di un Pratolini ancora lontano dai cenni biografici che abbiamo conosciuto in successivi elaborati quali “Cronaca Familiare”. E così, tra Via Laura, Santa Croce, San Frediano e tutte le altre aree principali della città, prende campo uno scritto che può simbolicamente dividersi in due fasi; una prima all’interno della quale il lettore viene a conoscenza delle realtà di ogni personaggio, ancora poco più che adolescente ed il cui giungere all’età adulta è segnato del passare dal pantalone sopra le ginocchia a quello fino alle caviglie, sino all’avvicendarsi dei primi amori e delle prime delusioni, intervallandosi per quel bisogno incessante di non perdersi nonostante gli avvenimenti a cui fattori esterni – quali l’avvento del Fascimo – e perdizioni interne – quali il farsi corrodere dall’invidia – sottopongono il gruppo, ed una seconda ove la Guerra, con il suo arrivo, muta nuovamente le carte, portando scompiglio, cambiamento.
Due fasi dunque, che nel loro essere segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta. E’ una società fondata sul lavoro e sull’onestà morale quella che è descritta dall’autore, una realtà in cui con una scazzottata tutto poteva essere risolto purché si parlasse, ci si confrontasse, si desiderasse il chiarimento. Si parla di amicizia vera, nata tra la povertà, coltivata nella solidarietà di un Quartiere che può forse offrire poco economicamente, ma molto dal punto di vista della solidarietà. Ed anche quando giunge il momento del risanamento dei luoghi della crescita, esso non si sgretola, in pochissimi decidono di trasferirsi nelle periferie, la maggior parte si ammassa nelle case non colpite dal procedimento amministrativo pur di non abbandonare quei luoghi.
E’ uno scritto altresì caratterizzato da malinconia, sensazione suscitata dalla consapevolezza di una ruota, spesso immutabile, che gira tornando sempre al suo punto d’origine, ma anche per il ricordo, per noi nuove generazioni, di un tempo in cui i valori erano diversi, dove la società era più semplice, dove ci si accontentava di poco ma quel poco era il tutto.
Stilisticamente parlando Pratolini non delude, anzi, è capace con la sua penna erudita di toccare l’anima di chi legge, di accompagnarlo nello scorrere delle pagine con grazia e dovizia rievocando altresì immagini di una Firenze in piena evoluzione. Semplicemente, da leggere.
«E veramente siamo diversi. Coi ginocchi coperti o gli alti tacchi di donna, pensiamo di affrontare il mondo via via che il cuore si gonfia dentro il petto, e negargli lo sfogo ci sembra un dovere. Diventare grandi crediamo sia questo soffrire in silenzio, parlare per allusioni o fare gesti che abbiamo visto fare, mischiare veleno e miele dentro al cuore. [..] Eppure possiamo leggerci dentro il cuore l’uno con l’altro, seguirci in ogni strada o piazza e fra le mura delle nostre case di Quartiere. I nostri sogni sono stati così uguali che per formare diverse le nostre storie abbiamo dovuto dividerci le occasioni, come da fanciulli si prendeva ciascuno una qualità diversa di gelato per assaggiarle tutte. Ma ora abbiamo i tacchi alti e le ginocchia coperte; e una finzione negli occhi se ci guardiamo. Ma basta che uno di noi volti un angolo di strada o salga una rampa di scale, perché gli altri possano seguirlo in ogni gesto, come in uno specchio. Ce ne siamo dette le ragioni di un giorno lontano con pugni e abbracci, muco sotto il naso: non c’è nulla che possa sfuggirci nell’affetto che ci lega. Lasciate che la finzione ci squassi, o la vita, col cuore che si fa grosso e noi lo comprimiamo. Un giorno saremo ancora tutti assieme, seppure coi corpi consumati da contatti estranei. Ma i nostri corpi sono abituati a dormire su un materasso di foglie, a soffrire di geloni, si sono nutriti di cavolo e di lampredotto, come volete che ci faccia paura ritrovarci un po’ diversi in viso? Credete che non ci riconosceremmo?»
Maria Darida - 7 anni fa
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Tess dei d'Uberville - Thomas Hardy
Tess è una ragazza tenace, figlia della povertà e dei campi, vittima dell’uomo e dell’età industriale. La tranquilla contea inglese del Wessex, antica denominazione anglosassone del Dorset, è lo scenario dove le vicende prendono campo. Caratterizzata da quella ingenuità e purezza che sono proprie del suo status sociale e della fascia temporale in cui fatti si dipanano, ella viene a conoscenza di essere la presunta ultima rappresentante di una nobile famiglia decaduta, viene sedotta nonché abbandonata da un uomo che si approfitta della sua semplicità per poi ritrovarsi a dover seppellire il figlio di quest’ultimo – deceduto perché nato malato – con un battesimo “fai da te”, ed ancora con l’essere additata e condannata come “donna perduta” dall’opinione comune. Ma non si arrende Tess e cerca la sua opportunità di riscatto nel lavoro e nella dedizione a questo. E’ lasciando la sua terra natia che ella vi riesce conoscendo altresì Angel Care, figlio di un pastore evangelista, che si innamora della donna, coniugandosi con lei. Eppure per Tess non c’è pace, le circostanze avverse non hanno intenzione di lasciarla, di mutare la loro preda.
Personalmente ritengo che due siano le chiavi di lettura conciliabili con l’opera de qua. Una prima si incentra sull’azione del destino; questo è la causa ultima delle sorti della donna e a questo si somma il non meno rilevante ruolo della natura, di quella natura ciclica che si ripete, si manifesta per quella che è. Una seconda che al contrario si concretizza negli uomini. Le sventure della protagonista non sono altro che il risultato di incontri con uomini sbagliati nonché delle convenzioni sociali dell’Inghilterra Vittoriana. Certo, anche secondo questa interpretazione risulta evidente un ruolo del destino a cui ricollegare i fatti; ma chiaramente questo non è da accomunare esclusivamente ed unicamente alla natura che suscita con i suoi paesaggi desolati e bradi, il sentimento, ma anche e proprio a quella componente di umanità che si inserisce nello scorrere delle pagine.
E così la ragazza si ritrova prima fra le “braccia” di Alec, rampollo cinico e frivolo a cui la famiglia ha comprato per prestigio sociale il cognome dei D’Uberville e di poi in quelle di Angel, retto ed innamorato della fanciulla – e dunque l’esatto opposto del primo – che si rivelerà essere assolutamente incapace di comprenderla talché il suo riapparire dopo averla abbandonata crudelmente ne segnerà le sorti nonché l’epilogo. Due figure dunque che sono le vere artefici della sorte della donna; Alec che per ben due volte si insinuerà nella quotidianità dell’inglese configurandosi come strumento di rovina, ed Angel che seppur munito della possibilità di cambiare questo infausto destino; ne è incapace. Seppur infatti apparentemente anticonformista egli è in realtà prostrato alle regole della società; ne è semplicemente incatenato. Ciò gli impedisce di rendersi conto della bellezza interiore – e non solo esteriore – della moglie.
A questo quadro si somma la famiglia che, a sua volta spinta dalla volontà dell’apparire, della possibilità di riscatto sociale e dalla brama di ricchezza, incautamente destina la figlia ai falsi ricchi di cui Alec è esponente.
Un romanzo forte, intriso di sentimento, di riflessioni su quello che è il binomio apparire-grandezza d’animo in correlazione con il costume, con l’ordine sociale dettato da consuetudini e dogmi di una società imperniata e consacrata alle sue regole sociali.
Maria Darida - 7 anni fa
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Lo stupore di una notte di luce - Clara Sánchez
E’ già trascorso un anno e mezzo dagli avvenimenti di Dianium; un anno e mezzo che per Sandra è una vita intera. Il piccolo Julian, detto Janìn, figlio della protagonista e di Santi, è nato ed è un bambino allegro e spensierato che si gode la sua infanzia tra sorrisi, giovialità e dentini che spuntano. La giovane donna ha altresì rinunciato ai piercing e alla florida chioma rossa che la caratterizzava, e tornata al moro naturale, ha trovato impiego nel negozio della sorella, uno store di abiti e bigiotteria dove è socia seppur il capitale sia stato interamente versato dalla consanguinea, ed ha acquistato un appartamento in cui crescere l’infante. Julian, l’ottantenne zelante che abbiamo conosciuto né “Il profumo delle foglie di limone” non ha lasciato la Spagna, non ha fatto ritorno dalla figlia Esther, si è stabilito in pianta stabile ai “Tre ulivi” luogo ove ha avuto modo di constatare che nonostante il colpo inflitto con la sua denuncia, la Confraternita, ha ancora degli adepti, e la venerazione nei confronti de “Il macellaio di Mauthausen”, da tutti conosciuto come Bert, ne è una prova. Ma l’anziano non ha piena consapevolezza di quanto gli ingranaggi dell’organizzazione siano ancora attivi; dovrà attendere l’arrivo di Sandra, a cui nel mentre viene depositato un bigliettino nel passeggino di Janin, scritto chiaramente riferito ai fatti di Dianium, per averne contezza.
Ma non è finita qua. Tanti sono i misteri che si celano dietro le pagine di questo nuovo e tanto atteso seguito di una delle opere più discusse degli ultimi anni. Un sospetto muove infatti l’ottantenne: e se Salva, l’amico e compagno di campo di concentramento che lo aveva indotto a recarsi in Spagna per rivelare al mondo l’esistenza della colonia nazista, non fosse morto per un collasso cardiocircolatorio bensì fosse stato ucciso per quello che aveva scoperto? E perché la Confraternita ha un così forte interesse nei confronti del figlio di Sandra? Cosa stanno pianificando le nuove leve?
Con “Lo stupore di una notte di Luce” Clara Sanchez dà vita ad un degno sequel del best seller che l’ha resa nota e consacrata al pubblico letterario; un romanzo dove la trama di per sé è abbastanza semplice e lineare ma caratterizzata da quel giusto mix di mistero e curiosità che induce chi legge ad andare sempre avanti sino a scoprire di questo. Ribadisco, la narrazione non presenta particolari caratteri di novità e/o originalità, va letta con la consapevolezza di trovarsi di fronte ad un elaborato che ha nei suoi intenti quello di far rivivere la magia de “Il profumo delle foglie di limone” e al tempo stesso di approfondire le vicende senza esagerare, evitando di risultare eccessivo.
Lo stile adottato è il medesimo che già chi ha letto il precedente conosce, ovvero quello dell’alternarsi della voce narrante tra Julian e Sandra. Altra peculiarità è data dal fatto che l’autrice ripercorre passo passo e sinteticamente gli avvenimenti che hanno delineato le scorse vicende talché la lettura è agevole anche per chi si avvicina per la prima volta alla saga nonché alla Sanchez.
Infine, il linguaggio è sufficientemente elaborato, non troppo prolisso e fluente. I personaggi non sono particolarmente delineati ma arrivano, risultano concreti; in particolare Julian e la sua coscienza di non avere più vent’anni. Nel complesso una piacevole lettura, non eccelsa ma adatta a chi vuole trascorrere qualche ora in compagnia di una storia che sa farsi apprezzare.
«Di fronte alla morte, [..], i desideri smettono di avere anche solo la minima importanza» p. 11
«Si sorride perché si è felici o perché qualcuno si sbaglia del tutto e ci vorrebbe un secolo per farglielo capire» p. 228
«E il fatto è che esiste un male che è peggiore del male, lo sorpassa e si addentra in una profondità senza legge. Qualcosa che assomiglia al colore nero assoluto, che non può essere attraversato da nessun tipo di raggio. Il male assoluto camuffato da bene, che continua a regnare tra di noi quando ormai crediamo che il male in sé sia sotto controllo. Sarà possibile un giorno mettervi fine una volta per tutte? Troppo complicato per questo povero vecchio, che adesso non vuole fare altro che riposare» p. 393
Maria Darida - 7 anni fa
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Sostiene Pereira
In una nota in fondo al libro (p. 211 un.ec.Feltrinelli) Tabucchi spiega che il Dottor Pereira lo visitò per la prima volta in una sera di settembre del 1992. Seppur fosse ancora un qualcosa di vago e di indefinito era già un personaggio in cerca di autore.
Perché la scelta ricadde proprio su di lui questo Tabucchi non lo sapeva, come unica spiegazione seppe darsi il fatto che il mese prima, in una torrida giornata d’agosto di Lisbona lesse su un quotidiano cittadino che un vecchio giornalista era deceduto, un uomo che sfuggevolmente aveva conosciuto a Parigi, che sapeva essere di origini portoghesi e che era stato costretto all’esilio poiché negli anni della dittatura salazarista era riuscito a pubblicare su un significativo articolo contro il regime, una persona che in quegli anni di rinascita era caduta nel dimenticatoio nonostante il suo coraggio.
E se di poi metaforicamente quel letterato tornò a fargli visita sotto le mentite spoglie di una allegoria un'altra ragione si annette alla scelta del nome. In portoghese Pereira significa infatti «albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città ». Un gesto con il quale volle rendere omaggio dunque « ad un popolo che ha lasciato grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia ».
Un mese torrido, quello dell’agosto del 1938, fu il mese cruciale scelto per Pereira. Il clima in Europa era critico e questa si avviava inesorabile a giorni di indimenticabile disastro.
La scrisse a Vecchiano questa storia Antonio Tabucchi e per una fortunata coincidenza ne concluse la trascrizione il 25 agosto 1993, data registrata nello scritto stesso poiché ricorrenza della nascita della figlia e dunque un giorno di felice avvento e la storia di vita di un uomo.
Ma chi è Pereira? Il Dott. Pereira era un giornalista portoghese, vedovo, cardiopatico ed infelice. Era un uomo che viveva nel passato, con la compagnia del ricordo della moglie con la quale dialogava ancora grazie ad una sua foto ritratto, e con la passione per gli scrittori francesi dell’ottocento e la tematica della morte. Viveva in un periodo di forti conflitti il nostro protagonista, un intervallo di cambiamento dove la democrazia lasciava attecchire la dittatura, dove la censura e la polizia politica erano legge, dove il concetto di razza era divenuto principio cardine della quotidianità.
Eppure, nonostante questo mutevole scenario, egli non si interrogava, non osservava. Continuava la sua vita con tranquillità preoccupandosi di mantenere le sue abitudini, curando per quanto possibile la sua salute, fingendo che tutto andasse bene.
Fino a quando un bel giorno si imbatteva in una tesi di laurea sulla morte, un elaborato redatto da Monteiro Rossi, e del quale restava affascinato tanto da chiedere al giovane di collaborare alla sua pagina culturale al “Lisboa” occupandosi di necrologi anticipati di scrittori e artisti.
Ed è in questo giovane uomo, nella sua innamorata dai capelli ramati Marta, nel Dott. Cardoso che la sua coscienza veniva risvegliata. Tabucchi non ci spiega la ragione per la quale Pereira aiuta Monteiro Rossi, lascia al lettore la facoltà di scegliere il proprio perché e sul finale lo sorprende con l’atto rivoluzionario per eccellenza, poiché a tutto vi è un confine innanzi al quale non può più celare la verità agli occhi, non può fingere che non sia successo niente, non può tollerare: il suo io egemone ha preso la testa della confederazione delle sue anime e non può far altro che assecondarlo.
Il sintagma “Sostiene Pereira” ci accompagna per tutto il componimento, nel principio, nel durante e nella conclusione della narrazione, ed è un’impostazione forte, convincente, concreta. Fa si che il lettore nutra la sensazione di trovarsi davanti a Pereira il quale, è vigile e meticoloso, nel rilasciare la propria confessione, versione o deposizione che si voglia. Un romanzo di alto livello è quello dello scrittore, sia da un punto di vista contenutivo che stilistico che narrativo.
«Ma lei, dottor Pereira, lo sa cosa gridano i nazionalisti spagnoli?, gridano viva la muerte, e io di morte non so scrivere, a me piace la vita, dottor Pereira, e da solo non sarei mai stato in grado di fare necrologi, di parlare di morte, davvero non sono in grado di parlarne. In fondo la capisco, sostiene di aver detto Pereira, non ne posso più neanch’io».
«[…] la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità».
«La smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro».
Maria Darida - 7 anni fa
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Cronaca familiare - Vasco Pratolini
Nato a Firenze nel quartiere de’ Magazzini il 19 ottobre 1913 e figlio di Ugo, cameriere, e di Nella Casati, sarta del laboratorio del corso morta nel 1918 mentre il marito era al fronte e ad appena 25 giorni di distanza dalla nascita del secondogenito Dante, ribattezzato dai suoi protettori, Ferruccio, Vasco Pratolini è un uomo malinconico, che affronta la vita con concretezza, senza illusioni, è un individuo che è mosso dalla curiosità, dalla smania di conoscenza tanto che, persino dopo essere stato cacciato dagli Scolopi per indisciplina, fa della lettura e dello studio da autodidatta una costante.
Da sempre il rapporto col fratello è complesso. Nella giovane età si può parlare di un legame paragonabile a quello di due sconosciuti: prima l’autore non vede di buon occhio Ferruccio perché implicitamente lo ritiene responsabile della morte della madre, successivamente lo percepisce come un estraneo, essendo quest’ultimo cresciuto sotto l’ala di una famiglia agiata ed essendosi i rapporti tra questi limitati a rapidi incontri del giovedì, brevi lassi di tempo in cui era impossibile instaurare un affetto per tempo e pensiero. Due anime parallele destinate a non incontrarsi mai, potrebbe osarsi.
Intorno ai venti anni del minore e dei venticinque dello scrittore, il riavvicinamento. Un rincontrarsi ma anche un imparare a conoscersi, per la prima volta, davvero. Da questo momento, i due costruiscono quel “ponte di contatto” che le circostanze della vita avevano impedito. Per entrambi essenziale è la nonna, con cui Vasco cresce e a cui Ferruccio chiede, domanda della madre. Ambedue soffrono dell’assenza di questa figura, il maggiore perché nel suo ricordo non poteva vedere una donna viva poiché questa altro non era che un’immagine confusa, avvolta nel velo della commedia, e percepita per la prima volta nel letto di morte, per il minore è quel punto fermo che non ha mai avuto, una persona intorno alla quale ruota la menzogna, il sentito dire, il riportato, si vociferava infatti che ella fosse “matta”, “strana”. Quale la verità? Quale la falsità?
Poi la malattia. Il dolore di un corpo che si consuma senza pietà, divorato da un male incompreso ed inspiegato dai medici che dopo tentativi su tentativi altro non hanno potuto fare che alzare le mani per arrendersi al destino. Alcuna la possibilità di salvezza. Il dolore per l’impossibilità e l’incapacità di fare qualcosa, di alleviare quella pena, quel dolore atroce a cui Vasco assisteva impotente.
Un romanzo che nella sua semplicità e brevità fa breccia nel cuore del lettore, lasciandolo riflessivo, turbato, scosso.
«Ci si può assuefare alle persecuzioni, alle fucilazioni, alle stragi; l’uomo è come un albero e in ogni suo inverno levita la primavera che reca nuove foglie e nuovo vigore. Il cuore dell’uomo è un meccanismo di precisione, completo di poche leve essenziali, che resistono al freddo, alla fame, all’ingiustizia, alle sevizie, al tradimento, ma che il destino può vulnerare come il fanciullo l’ala della farfalla. Il cuore ne esce con il battito stanco; da quel momento l’uomo diventerà forse più buono, forse più forte, e forse anche più deciso ma non troverà più ne suo spirito quella pienezza di vita e di umori in cui ogni volta egli sfiora la felicità.» p. 97
«La tua sensibilità ti portava a prospettare ogni conflitto, anche il più banale e fortuito, come una colpa di cui soffrivi esasperandone i toni, l’umiliazione e lo sconforto. Ora io so che tu eri un inerme, votato ad uno sterile sacrificio, in un mondo ove anche l’agnello è costretto a difendere ferocemente la propria innocenza» p. 102
Maria Darida - 7 anni fa
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