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Il tempo della tua vita - Giacomo Pini

«[…] Costruire e distruggere, costruire e distruggere, costruire e distruggere per un solo attimo felice. Attimo che a sua volta sarà costruito e distrutto dalle convinzioni di essere padroni del tempo e degli attimi di tutto quel che ci circonda.»

È giovane, bella e felicemente imperfetta, Federica. Lavora nella libreria cittadina del luogo in cui si è trasferita, la sua vita è fatta di un passato burrascoso di cui non ama parlare e di un presente abitato da poche e semplici certezze e consuetudini. Tra queste vi è Mattia, il collega di lavoro a cui è particolarmente legata e che ogni mattina la aspetta con la tazza di caffè da asporto fumante. Ed è proprio su quella tazza che ogni mattina egli le augura il buongiorno con una semplice frase: “sorridi… è il tempo della tua vita”. Un monito ad affrontare con il giusto spirito non solo le ore successive ma anche il futuro venturo, quel che verrà. Ad attendere il duo al lavoro vi è Paul, proprietario della libreria nonché romanziere che aiuta anche Mattia a coronare il suo sogno di diventare scrittore.
Due volti complementari sono Mattia e Federica. Se lui rappresenta la possibilità, l’attenzione al piccolo gesto, l’amare per quel che il sentimento è andando oltre a quelle che sono le apparenze dettate da usi e costumi, le imperfezioni, gli sbagli, le cadute, ella rappresenta il volto più complesso ed è capace di farsi amare quanto odiare suscitando empatia anche nelle situazioni più ostiche. Lo scorrere delle giornate non risparmierà i protagonisti, saranno tante le difficoltà che si troveranno ad affrontare e che li porteranno a conoscere davvero il tempo della loro vita. Da un passato che torna a bussare alla porta, alla rinascita passando dalla perdita.

«[…] I sentimenti che provi portali sempre con te. Ascoltali. Non rinnegarti niente, non privarti della tua felicità. Segui le emozioni e se sarà necessario sbaglia.»

“Il tempo della tua vita” è un libro che offre al suo lettore tanti spunti di riflessione e che insegna a non temere l’incompletezza, la mancanza, l’errare. È un libro che per mezzo della voce di una donna allo sbaraglio, che ha perso i punti fermi, che mente spudoratamente, che è egoista e immatura, ci ricorda che non si può scappare sempre. Da quel che verrà, da noi stessi, da quel che siamo, da tutto ciò che ci circonda.
Tuttavia, la più grande caratteristica di “Il tempo della tua vita” è quella di saper emozionare. Il lettore cammina passo passo con i due protagonisti, è trascinato dal loro vissuto, è coinvolto dall’evolversi del legame e dalla maturazione dei personaggi. Un eroe per eccellenza, un antieroe per eccellenza e tutta una serie di voci che nel loro intrecciarsi rendono tangibile e vivo il testo.
Per me si è trattata di una rilettura a distanza di un decennio dalla prima ma le riflessioni ed emozioni sono state egualmente vivide seppur con dieci anni di vita in più. Alle prime provate, se possibile, se sono aggiunte semplicemente di nuove e più accorte.
Un romanzo che chiama, arriva, trattiene e resta nella sua semplice complessità.

«[…] Un’emozione non si può scegliere, lui me la faceva vivere.»

I miei stupidi intenti - Bernardo Zannoni

«Ma come in quel momento mi sentii più perduto, e debole, e invisibile.»

Archy è una faina. Una faina figlia di una madre anaffettiva e priva di amore verso i propri figli e fratello di altre faine che da quella stessa madre sono odiate e ritenute inutili. Perché deboli, perché obblighi, perché nati quasi per rubare ossigeno ed energie. Il padre di questi fratelli è assente e la madre non esita a sbarazzarsi di chi nasce inutile o nel tempo lo diventa. Questa è la stessa sorte di Archy, Archy che tra queste pagine racconta la sua storia ma narra anche di quelle sorti che lo portano ad essere allontanato proprio da quella madre. Una madre che non esita a venderlo alla volpe, Solomon, per qualche provvista e per togliersi il peso di quel figlio ormai zoppo. Perché Archy cade nel tentativo di dare la caccia a un nido, cade proprio da quel nido posto ad alte altezze e da quel momento resta menomato. La sua zoppia lo accompagnerà a vita. Da questo momento ha inizio il suo percorso con Solomon e Gioele, il cane della volpe. Usuraia e furba è la volpe che introduce la faina alla parola di Dio.

«Il prima e il dopo non si erano mescolati, uno aveva soffocato l’altro annullando la differenza.»

Da questi brevi assunti ha inizio la crescita e lo sviluppo del libro ma anche la sua stessa evoluzione. La storia narrata dalla faina prenderà una sua forma e una sua connotazione, ma procederà passo passo tra perdite, riflessioni, analisi e tematiche forti ivi comprese quelle relative alla religione, alla famiglia.

«Il loro sonno, così tranquillo, mi impressionò. Non capivo se quella vita fosse orribile o meno, se essere confinati in un recinto confortasse o avvilisse. Da dove li stavo guardando io, ne avevo pietà, così come gli altri; eppure quei musi suggerivano che loro ne avessero di noi.»

È possibile accettare se stessi per come si è? È possibile far della propria esistenza una ragione essenziale del vivere e per vivere? È possibile che l’esistenza non sia soltanto qualcosa di fine a se stesso? Per Zannoni Archy non è altro che un pretesto, un artificio consolidato da sempre, un artificio narrativo per porsi e porre al prossimo domande sull’esistenza. Zannoni fonde instintualità e ragione, fonde il vivere con il sopravvivere, i legami affettivi, l’anaffettività, la responsabilità e la morte. Cosa allontana e/o avvicina l’uomo alla bestia?
Bernardo Zannoni, tra filosofia e riflessione, narra della tensione interiore che tiene perennemente Archy in bilico. Lo porta ad elevarsi alla dimensione umana tanto che giunge anche a domandarsi chi è Dio. Archy finisce con il sentirsi quasi più umano che bestia, sente perfino il senso di colpa per questo suo lato più bestiale e istintivo. Si tortura perfino per alcuni suoni comportamenti che altro non sono che insiti alla sua natura.

«Anche io mi sento così, disse.
Mi girai verso di lui.
Così come?
Desolato. Abbandonato»

Tante le strade che percorrerà Archy nel suo vivere. Strade che lo porteranno a perdere amori, la sua famiglia, che lo porteranno a imparare a leggere e scrivere, a scoprire dell’amicizia, a instaurare determinati rapporti, a cadere e a rialzarsi. Tra presente e passato. Tra altri animali del presente e del passato. Tra maestri di vita e perdite. Legami sfilacciati e cadute.

«Questo è il mio ultimo stupido intento: scappare, come tutti dall’inevitabile. Semmai Klaus tornerà che dia il mio corpo alla terra, o al fiume.»

Giochi proibiti - François Boyer

«“Dov’è tuo padre?”.
“È morto”.
“E tua madre?”.
“È morta”.
“Perché piangi?” chiese Michel. […] “Aiutami, e poi vieni a mangiare a casa nostra”.
“E poi a dormire?”
“E poi anche a dormire”.»

François Boyer pubblica il suo “Giochi proibiti” nel 1947. Il libro è inizialmente ignorato tanto dai lettori quanto dalla critica. È solo dopo la trasposizione cinematografica di René Clément che torna alla ribalta e inizia ad avere successo. Ma attenzione, non è un libro che risparmia, non è un ennesimo libro sulla guerra per nessun motivo scontato. Al contrario è un romanzo crudele e folgorante che si focalizza e concentra sugli orrori della Seconda guerra mondiale e vi riesce per mezzo degli occhi di due bambini, Michel e Paulette. Due bambini, questi, investiti dalla guerra che osservano, sono travolti e privati di tutto da una guerra che non gli appartiene.
È il 1940, la piccola Paulette in questa estate e in una strada di campagna, vede morire i suoi genitori colpiti da una mitragliata aerea tedesca. È tempo di guerra, una guerra che porta sfollati, bombardamenti aerei, corpi umani lacerati e animali morti. I genitori di Paulette non sono da meno. Ella, nove anni, rimane di punto in bianco sola. Vaga Paulette, vaga tra la disperazione e la confusione generale. Vaga e ci descrive con i suoi occhi di bambina una prospettiva ignota, sconosciuta. Dalla sua altezza vede i talloni degli uomini, gli isterismi delle donne, non comprende le motivazioni, trasfigura ciò che è reale e lo trasforma in funzione di quelle che sono le sue priorità e i suoi bisogni. Ed è sempre per caso, in questo suo vagare, che approda al casale di Saint-Faix che si trova a cinque chilometri di distanza dalla strada maestra. Tuttavia, considerando l’epoca, potrebbe invece trovarsi in un altro mondo. Perché tanto quanto Saint-Faix vive in una sua realtà, altrettanto la Storia sembra disinteressarsene.

«Saint-Faix ignorava la Storia. E in quel giorno di giugno del 1940 fu chiaro che la Storia contraccambiava Saint-Faix con un identico disprezzo.»

È qui che vive una contadina dai modi altrettanto contadini e agri, Michel Dollé di anni dieci. Una volta incontrata Paulette nel bosco se la porta a casa. La guerra spezza, distrugge, nulla risparmia, al contrario i rapporti tra bambini sono rapidi ed immediati, semplici e diretti.
Ed è qui che iniziano i loro “Giochi proibiti”. Paulette è caratterizzata da un costante senso di distacco da tutto ciò che la circonda ma è anche affascinata dalla morte. Il loro gioco diventa, paradossalmente, quello di dare sepoltura ad ogni animale morto ponendo sopra ogni tomba una croce. Alcune scene possono essere disturbanti come quella della bambina bionda che balla con il cane morto, ma è davvero il mondo dei bambini quello non sano? O è forse il mondo adulto quello ipocrita che se ne frega della perdita dei più piccoli e della separazione e dolore che dissemina e semina nei cuori e nelle anime?
I giochi di Michel e Paulette sono intrisi di sacralità. I due seppelliscono gli animali a differenza dei genitori di Paulette che restano senza sepoltura. Onorare i defunti, ci ricordano i bambini, ha un prezzo e spesso è alto ma ha anche una certa sacralità che va rispettata proprio apponendo una croce sul luogo di riposo eterno.

«Chi non ha Dio non ha morale, chi non ha un prete non ha morale, chi non ha un tempio non ha morale, un senza morale è un amorale, un amorale è un immorale, evviva la morale, e mamma Dollé aveva concluso: “Ci fa la morale”.»

È possibile delineare un confine tra bene e male, innocenza e corruzione? L’opera di Boyer è un’opera dissacrante, senza confini, senza tempo. È uno scritto che imbarazza, spiazza, inizia alla vita, tocca il lettore con personaggi che non conoscono altro che la guerra, che sembrano aver dimenticato tutto quello che c’è stato prima e che non sembrano poter credere in un dopo.
È proprio la guerra il più assurdo dei “Giochi proibiti” che Michel e Paulette vivono sulla loro pelle mentre la crudeltà umana porta l’uomo ad uccidere l’altro uomo e tutto quello che trova sulla sua strada.
“Giochi proibiti” è un romanzo duro, disincantato, disilluso, che sullo sfondo ha sempre una crudeltà che viene narrata senza possibilità d’appello e in particolare senza forma alcuna di mediazione.

Fame d'aria

«Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano.»

È una scelta coraggiosa quella di Daniele Mencarelli con “Fame d’aria”. Una scelta coraggiosa perché l’autore vede la storia e decide di trattarla, vede la sceneggiatura teatrale e decide di metterla in scena anche se questo significa addentrarsi nei meandri dello spettro autistico. Ed è proprio questo il tema che regge e conduce per quella che è la sua ultima fatica. Pietro Borzacchi e il figlio Jacopo sono in viaggio. Il loro obiettivo è la Puglia, luogo dove si rincontreranno con Bianca, attualmente nel milanese, la madre del ragazzo, per celebrare una data importante che segna “il dove tutto ha avuto inizio”. Tuttavia qualcosa va storto, la frizione della vecchia golf di Pietro non regge, è venerdì pomeriggio, loro devono essere a destinazione entro lunedì e sono spersi nel nulla tra paesini arroccati e luoghi incantevoli. Il paese più vicino dove vengono a ritrovarsi in attesa che Oliviero, il meccanico, sistemi il guasto è S. Anna del Sannio, un paesello di poche anime che non attende visitatori. Si trovano così ad alloggiare in un bar che un tempo era anche pensione di proprietà di Agata e qui conoscono anche Gaia, giovane e bella che va oltre la facciata. Perché Pietro e Jacopo non sono un padre e un figlio che vivono in quella che siamo abituati a considerare normalità. Jacopo è affetto da una forma di autismo a basso funzionamento che lo porta a vivere in un perenne stato neonatale. Sa pronunciare solo un “mhmm” che cambia di intensità a seconda delle richieste e nonostante i suoi diciotto anni deve essere cambiato, accudito, gestito. La cosa forse più semplice è farlo mangiare perché è un po’ come un orologio; si carica e parte in automatico. Pietro non sa più cosa sia essere. Vive in perenne accudimento del figlio, lo odia. Odia la situazione che stanno vivendo, odia dover fare, è pieno di rabbia ma nulla fa mancare a Jacopo. Vive una totale e completa forma di abnegazione ma comunque resta vigile e attento ai bisogni di quel figlio che è la sua condanna e che è così lontano dalle aspettative. Gaia, in questo senso, riuscirà a riportare alla luce il Pietro non PietroJacopo, il Pietro che vive, che sogna, che ha desideri come tutti. Si creeranno anche degli equivoci ma pian piano le crepe diventeranno crateri e ogni verità verrà alla luce.

«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui.»

Perché per Pietro la vita ha preso una piega inaspettata. La moglie laureata in scienze politiche ha dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura del figlio, su Pietro gravano le responsabilità e rappresenta al contempo l’unica fonte di entrata economica. Ma può bastare un solo stipendio a sopperire alle cure necessarie? Cosa succede quando la tua vita non è più tua e inizi a far debiti perché in qualche modo quelle cure proprio non puoi fargliele mancare ma non hai aiuti da nessuno, ancor meno dallo Stato, perché hai un contratto a tempo indeterminato con uno stipendio fisso, fidi su fidi e a differenza di altri figura che hai qualcosa mentre altri che lavorano in nero hanno aiuti su aiuti perché i soldi in casa li fanno entrare dalla porta sul retro? Come difendersi da un mondo che sembra chiuderti la porta in faccia? Come sopravvivere, come ricordarsi che esisti anche quando tu per primo non lo ricordi più?

«Dopo aver oltrepassato il boschetto, una radura affacciata sui monti.
Pietro, violentato dal destino, regredito a una vita senza bellezza, si porta una mano sulla bocca.
«Dio mio che meraviglia.»
Oltre al panorama, è l’aria, l’aria gonfia di tramonto, a rendere la visione un dono per gli occhi.
Un cielo azzurro che diventa arancio, sino al rosso infuocato del sole che cala.
Sembra di vivere un sogno.
Quelli dove Pietro si rifugia.
Ma questo non è un sogno.
E Gaia è fatta di carne, ed è qui accanto a lui.
«Grazie.»
Solo questo riesce a dirle.»

Daniele Mencarelli riesce in quello che spesso si vuole negare per comodità. È più facile immaginarsi questi genitori eroi in quel che è una non fortuna ma questi genitori, sono davvero eroi? Egli mostra il volto oscuro, un’altra faccia della medaglia, una medaglia in cui non si è altro che soli a convivere e combattere con un mostro più grande che non perdona e non cambia. Mencarelli ci solletica con una storia d’amore anche se in parvenza trasuda l’odio ma ci ricorda anche che non siamo che semplici esseri umani chiamati a convivere con una battaglia che non sempre più essere vinta. Vi riesce con un lungo racconto dai toni scanzonati, meno poetici ma ben cadenzati e studiati e dove nulla è lasciato al caso. Né come personaggi, né come parole. Parole che hanno tutte e indistintamente un peso, parole che ci fanno riflettere e ci fanno entrare per una porta sul retro che spesso resta chiusa. Anche la scelta di narrare la vicenda dal punto di vista del padre e non della madre non è causale. Non c’è vittimismo tra queste pagine, non c’è autocommiserazione, c’è emozione e sentimento, c’è una realtà che tocca e coinvolge.
Non è lo stesso Mencarelli del passato. L’autore conosce di questi luoghi e dello spettro autistico per contatti occorsi con la sua famiglia e i suoi figli, riesce a essere lo stesso, a firmare un’opera che lo rende riconoscibile ma dimostra anche una crescita e tanto coraggio. Per tema trattato ma anche per essere riuscito a staccarsi da una ideale trilogia (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) che ne ha consacrato il nome ma che stava iniziando a perdere della sua unicità. Una maturazione necessaria

La via del miele

«La libertà, amica mia, ha sempre un prezzo. Devi scegliere. Ricorda, Maddalena, qualunque cosa farai noi saremo sempre con te. Potrai sempre contare su di noi.»

Crescere non è semplice e non è semplice nemmeno la vita nelle grandi città. A volte siamo sconfortati, altre volte siamo travolti da una routine senza soste, eppure, è altrettanto vero che, man mano che andiamo avanti troviamo un equilibrio e questo è ciò che più ci sprona a vivere e a dedicarci ai nostri interessi. Questo è anche un po’ quello che succede ad Alice, protagonista de “La via del miele” di Cristina Caboni, in libreria dallo scorso ottobre 2022 per Garzanti.
Ci sono poi volte in cui sentiamo la necessità di chiudere con la nostra vita di prima anche se questo significa chiudere con i nostri genitori. Alice decide proprio questo. Per evitare ulteriori litigi chiude ogni rapporto con la madre ed anche la sorella la quale, l’ultima volta che l’aveva sentita, voleva convincerla a partire da un momento all’altro, cosa impossibile per una programmatrice nata come Alice. Una richiesta questa che al tempo l’ha sorpresa ma che poi ha scoperto avere un fondamento.

«Non permettere alle circostanze di governare la tua vita, ma cherie.»

Sarà molto tempo dopo, infatti, che Alice scoprirà la vera ragione di quella chiamata. Emma è morta e le lascerà in dono la figlia Amélie di cui nessuno era a conoscenza. L’arrivo di un figlio, desiderato o non, porta sempre scompiglio. Alice ha avuto una vita concentrata su se stessa, adesso la priorità diventa Amélie e con lei dovrà riorganizzare tutti i suoi spazi e la sua quotidianità (facendo attenzione a non perdere il lavoro). Sarà da qui che deciderà di partire e di andare in Sardegna, luogo mistico e magico in cui la sorella defunta voleva portarla in quella che al tempo era stata definita come una pazzia.

«Ci ragionò su come faceva con tutto il resto, analizzando i pro e i contro. Se avesse accettato quell’invito, e ancora non ne era certa, tutto si sarebbe svolto alle sue condizioni. Niente di romantico.»

È proprio quando si è obbligati a rimettersi in gioco, ad uscire dai propri schemi, dalle proprie certezze che è possibile crescere. Ed è questo ciò che accade ad Alice. Ella verrà a contatto con le sue più grandi paure ma, al contempo, riuscirà a leggersi davvero e a capire chi è e cosa desidera.
Cristina Caboni ci dona un romanzo scritto con una penna rapida e fluente e che soprattutto ci trasmette i grandi messaggi di cercare sempre chi siamo, non snaturarci mai e non smettere mai di cercare quel che ci fa stare bene.

L'isola delle anime - Johanna Holmström

«E poi la gran trovata di mettere il punto dopo “ho trovato”: “ho trovato che la vita non vale la pena di essere vissuta”, “ho trovato”, “ho trovato”: il tutto e il niente»

Una storia semplice, o forse una storia affatto semplice. Una storia semplice perché specchio di una realtà che ci appartiene e che è diventata fin troppo quotidianità comune, una storia semplice che semplice non è perché narra di un giallo intricato che, se vogliamo, non trova nemmeno davvero soluzione. Una storia semplice che viene narrata da un narratore mai semplice e sempre molto molto particolare e minuzioso nel suo scrivere. Uno scrittore che sa rendere apparentemente semplice un fatto affatto tale.
Sciascia scrive questo breve scritto nel 1989, ci trasporta in una realtà con molte criticità e nello specifico in un ambiente poliziesco, una caserma, che riceve una chiamata da parte di un diplomatico assente da molto tempo nella cittadina. Rientrato nella tenuta ha trovato qualcosa e chiede l’intervento della polizia. Il commissario declina e prende alla leggera la richiesta considerandola quale quella di un mitomane che quasi si sia dedicato a fare uno scherzo alle autorità e invita il brigadiere a farvi una capatina il giorno successivo. Sarà proprio in queste circostanze che il brigadiere scoprirà quello che è il corpo di un uomo senza vita e quella frase “ho trovato” seguita da un punto fermo. Da qui i sospetti. All’inizio ci sarà chi punterà sull’ipotesi di un suicidio mentre costui sin da subito su un omicidio. Tanti i dubbi e le nefandezze che si celano dietro “una trama semplice” che finisce con il concludersi con un “finale aperto”. In perfetto parallelismo e binomio in stile Sciascia.
Lo stile è asciutto, la trama non scontata, la vicenda appassionante. Al contempo vi è amarezza e malinconia, tra queste pagine. Sembra che la conditio sine qua non quella sia e quella resti in ogni caso voluto o fortuito del nostro vivere, quasi come se quel malessere fosse radicato nella nostra società senza possibilità d’appello. Emblematico l’incipit di partenza nonché la citazione che ne apre le pagine.

«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.» Durrematt, Giustizia

Ultimo suo scritto, forse, ma certamente da non dimenticare nonostante l’asciutezza del medesimo. Un gioco di specchi e intrecci che non delude le aspettative e invita alla riflessione il lettore.

«L’atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.»

Una storia semplice - Leonardo Sciascia

«E poi la gran trovata di mettere il punto dopo “ho trovato”: “ho trovato che la vita non vale la pena di essere vissuta”, “ho trovato”, “ho trovato”: il tutto e il niente»

Una storia semplice, o forse una storia affatto semplice. Una storia semplice perché specchio di una realtà che ci appartiene e che è diventata fin troppo quotidianità comune, una storia semplice che semplice non è perché narra di un giallo intricato che, se vogliamo, non trova nemmeno davvero soluzione. Una storia semplice che viene narrata da un narratore mai semplice e sempre molto molto particolare e minuzioso nel suo scrivere. Uno scrittore che sa rendere apparentemente semplice un fatto affatto tale.
Sciascia scrive questo breve scritto nel 1989, ci trasporta in una realtà con molte criticità e nello specifico in un ambiente poliziesco, una caserma, che riceve una chiamata da parte di un diplomatico assente da molto tempo nella cittadina. Rientrato nella tenuta ha trovato qualcosa e chiede l’intervento della polizia. Il commissario declina e prende alla leggera la richiesta considerandola quale quella di un mitomane che quasi si sia dedicato a fare uno scherzo alle autorità e invita il brigadiere a farvi una capatina il giorno successivo. Sarà proprio in queste circostanze che il brigadiere scoprirà quello che è il corpo di un uomo senza vita e quella frase “ho trovato” seguita da un punto fermo. Da qui i sospetti. All’inizio ci sarà chi punterà sull’ipotesi di un suicidio mentre costui sin da subito su un omicidio. Tanti i dubbi e le nefandezze che si celano dietro “una trama semplice” che finisce con il concludersi con un “finale aperto”. In perfetto parallelismo e binomio in stile Sciascia.
Lo stile è asciutto, la trama non scontata, la vicenda appassionante. Al contempo vi è amarezza e malinconia, tra queste pagine. Sembra che la conditio sine qua non quella sia e quella resti in ogni caso voluto o fortuito del nostro vivere, quasi come se quel malessere fosse radicato nella nostra società senza possibilità d’appello. Emblematico l’incipit di partenza nonché la citazione che ne apre le pagine.

«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.» Durrematt, Giustizia

Ultimo suo scritto, forse, ma certamente da non dimenticare nonostante l’asciutezza del medesimo. Un gioco di specchi e intrecci che non delude le aspettative e invita alla riflessione il lettore.

«L’atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.»

Schiava della libertà

KAWEKA E LITA
Sono passati già tre anni da quando Falcones deliziò il suo pubblico in libreria con un’opera corposa e stratificata quale “Il Pittore di anime”. Uno scritto, questo, capace di trascinare il lettore tra colpi di scena e fatti storici realmente accaduti che difficilmente deludono le aspettative e che anzi sono capaci di trattenere con il fiato sospeso. Ma Falcones non si ferma e in questo 2022 torna in libreria con un altro romanzo storico intrigante e interessante. Questa volta l’autore si sposta e ci riporta in un continente diverso e in un’epoca ancora più diversa e remota. È infatti Cuba il luogo di destinazione di quella nave carica di anime e volti in quel 1856. Quando la nave attracca presenta a bordo un carico non fatto di merci quanto di donne e bambini considerati tali. Il peggio sembra essere ormai finito dopo un viaggio estenuante e fatto di stenti, pensano, ma si sbagliano di grosso e ben presto lo scopriranno e a caro prezzo.

«Lei stessa capì che quel momento non si sarebbe affatto concluso con il dolore delle frustate: comportava anche il superamento di una tappa nella vita di una ragazzina innocente che come tutte loro era capace di sorridere di fronte alle disgrazie, di giocare nello stesso posto dove poco prima un nero era crollato esausto. Mamma Ambrosia si era presa cura di Kaweka cercando di fare per lei ciò che facevano le altre madri con le proprie figlie.»

Madri anno 2007. Maria Regla Blasco, Reglita da bambina e ora Lita, è una giovane donna finita a lavorare per la banca Santadoma per avere un’entrata stabile per sé ma anche per la madre sempre più prossima alla pensione. Tuttavia, ella ama l’arte, la cultura, le lettere, è specializzata in queste e mai avrebbe pensato di far altro. La madre, a sua volta, è domestica sempre i Santadoma ed è tramite la conoscenza diretta che anche la figlia può “usufruire” dei benefici lavorativi di cui diventa destinataria ma anche debitrice.
Tornando indietro nei secoli conosciamo anche Kaweka che con la sorellina poi morta fa parte di quel carico scaricato sulle spiagge cubane. Ad attendere Kaweka ci sono anni di privazioni, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche, soprusi. Ha difficoltà ad ambientarsi, sente il peso di questo mondo a lei sconosciuto di cui non conosce la lingua ma nemmeno gli usi e le consuetudini, subito si ferisce nelle piantagioni di canna da zucchero, subito viene comprata e sempre in tempi rapidi scopre e realizza di avere un legame con le divinità. Queste prendono possesso di lei che ha anche doti e capacità curative, sfidano l’uomo bianco per mezzo del loro possedere. Il corpo della donna è punito per l’impudenza, non mancano le frustate, non mancano le punizioni e le violenze da parte di chi pensa di poterla possedere. Ciò la rende una diversa agli occhi degli stessi schiavi con cui divide i luoghi e i tempi dello scandirsi della sua vita.
Torniamo al presente più prossimo e osserviamo come per Lita sia difficile accettare che la madre continui ad essere trattata come l’ultima ruota del carro ma anche come per lei sia difficile vivere in quel contesto sociale fatto di coordinate che non le appartengono. Tra Lita e Kaweka esiste, inoltre, un legame. Sarà un viaggio a Cuba a portare Lita a riscoprire della sua storia e dei segreti della sua famiglia. Segreti che la riporteranno indietro e le faranno riscoprire anche se stessa.

«Lita danzò, trascinata da una forza incontrollabile, alternando, come la giovane che l’aveva preceduta, un ritmo frenetico a movenze più delicate. Sentiva il mare vicino a sé e le onde lambivano il suo spirito, ma, a differenza dell’altra ballerina, Lita cantava… E lo faceva con una voce che non era la sua…»

Pagina dopo pagina Falcones ricostruisce un puzzle fatto di mille sfaccettature e mille volti. È un romanzo solido e stratificato “Schiava della libertà”, un romanzo ricco di temi e riflessioni sottese. Al contempo gli stessi personaggi sono vividi e ben caratterizzati, il lettore li percepisce quali realistici e non fatica a farne proprie le aspettative, le paure, le ingiustizie, i desideri. Ad avvalorare il tutto vi è uno stile narrativo curato, minuzioso, arricchito da ricerche e ricostruzioni storiche. Un libro che sa far riflettere sul concetto di libertà, un qualcosa che oggi tendiamo a dare troppo spesso per dovuto e/o per scontato quando in realtà non lo è ed è frutto di lotte, ribellioni, sacrifici, contestazioni e tanto altro ancora da parte di chi, in passato, è dovuto sottostare alle angherie dei più forti per essere nato nella condizione sociale “sbagliata” o nel paese “sbagliato”.

Chi si ferma è perduto - Marco Malvaldi, Samantha Bruzzone

«Se vi doveste trovare, una notte d’autunno mentre piove, completamente nudi ai comandi di un aereo di linea che sta sorvolando Ponte San Giacomo, e si dovessero spegnere d’improvviso entrambi i motori, il mio consiglio è di non lasciarvi prendere dal panico. In primo luogo perché Ponte San Giacomo, il posto dove vivo, è un paese per modo di dire: in realtà è una strada in mezzo a una pianura, e le uniche case sorgono accanto alla strada stessa, per cui se siete esperti non avrete nessun problema a trovare un campo o un altro spiazzo erboso abbastanza vasto per atterrare senza fare danni.
In secondo luogo., anche se non sapete pilotare un aereo non c’è problema, perché quello che vi ho descritto ovviamente è solo un sogno. Per essere precisi, è il sogno che ho fatto stanotte.»

Serena Martini, di anni quarantacinque, non è retribuita per il lavoro che costantemente svolge. Ha due figli, Pietro, tredicenne che studia violoncello e Martino, di anni dieci, che si allena con lo judo. Il marito con cui è coniugata da ben due decenni, insegna all’Università ed è ordinario di Intelligenza Artificiale e Informatica. Serena è laureata ed è esperta di chimica sopramolecolare dei metalli, ha un ottimo olfatto e si barcamena tra la scelta di un lavoro a tempo pieno o meno viste le varie incombenze. Ed è proprio in una domenica come tante che ella scopre per caso un cadavere. Scoperta, questa, che cambierà particolarmente le carte in tavola.
Come di consueto Serena si diletta nella camminata con Giulia e Debora. Sulla strada di casa si accorge di aver perso le chiavi e decide di tornare indietro per vedere se le rinviene sullo stradone. Come spesso accade in questi frangenti, la vescica fa i capricci e lo stimolo del fare la pipì non è controllabile. Si inoltra appena appena nel boschetto ed è qui che vede il corpo di un uomo senza vita. Due gli odori che percepisce: polvere da sparo e acidemia isovalerica. Ma chi potrebbe aver sparato al cinquantaquattrenne Luigi Caroselli, professore pro tempore della cattedra musicale della scuola privata Della Casa di Procura Missionaria? Un uomo solo, appartato, senza famiglia, amante della natura, colto, clavicembalista ma anche decisamente un discreto rompiscatole. È un personaggio, inoltre, noto per il contesto sociale in quanto la scuola in questione è l’unica del posto ed è frequentata anche dai figli di Serena stessa.
Del caso viene investita la gigantessa – un metro e novantuno centimetri dai capelli biondi e gli occhi grigi orlati di verde, non sposata, non madre, non fidanzata, Ana Corinna Stelea. Con il cipiglio e rigore giuridico che le appartiene arriverà ad intendersi alla perfezione con Serena. Sarà sufficiente superare quelle prime e piccole diffidenze che accompagnano l’incontro con una persona che ancora non siamo riusciti a inquadrare nei suoi connotati.

«Sapete come si allena l’olfatto? È una cosa curiosa, lo si fa sfruttando il vero superpotere del cervello umano: la capacità di astrazione. Di immaginarti cose che non ci sono.»

Samantha Bruzzone, chimica, e Marco Malvaldi, chimico, sposati da due decenni, appassionati di gialli e delle parole, scrivono e firmano a quattro mani “Chi si ferma è perduto”, opera che conduce i lettori tra le maglie di una nuova ed eclettica protagonista. È il primo loro romanzo a quattro mani ma certamente non sarà l’ultimo. Giocano tra fiction e non fiction, tra letteratura e cinema, tra chimica e giallo. Anche la voce narrante prevalentemente è nella prima persona di Serena ma con intervalli alla terza nei capitoli su Corinna.
Non mancano acrobazie, digressioni, lati comici e paradossali ma anche riflessioni sottese. Perché la vita toglie e la vita offre, la vita fa cadere ma ti invita anche a rialzare. Non mancano le riflessioni sulla famiglia, il legame con i figli ed anche le pillole scientifiche che sanno anche fondersi con la cucina.
Il risultato è quello di un romanzo gradevole, non particolarmente impegnativo ma al tempo stesso curioso. Il lettore è trattenuto dalla verve ironica e pungente, dal giallo ma anche dalla conoscenza di questo nuovo volto delle opere del neo duo.

«Ecco, in quel momento avevo esattamente lo stesso problema. Avevo sentito quell’odore, forte e persistente, in un punto dove non doveva esserci? Sì. Significava quello che mi ero messa in testa? Boh. A quel punto lì, non lo sapevo più. Anzi, man mano che camminavo, me ne convincevo sempre meno.»

L'isola delle anime - Piergiorgio Pulixi

«Non appena aveva messo piede in quella terra ancestrale, circondata dal mare, il canto del male si era però attenuato, come se la natura stessa se ne fosse fatta carico per lei soffocando la propria melodia.»

Purtroppo non tutti i crimini riescono a trovare una loro soluzione. Al contrario. Ci sono casi, e non sono pochi, che per una ragione o per un’altra, restano privi di colpevole e finiscono con il diventare dei veri e propri cold case. Inchieste che non trovano soluzione, che lasciano le persone care senza un perché, che mettono a dura prova i migliori detective del settore che per quante indagini facciano, non trovano minimamente soluzione a quell’enigma che li ha accompagnati. Tuttavia, alcuni casi, possono anche diventare un’ossessione e questo lo scopriranno molto bene, e anche troppo presto, le ispettrici Mara Rais ed Eva Croce. Quasi per caso indagano su misteriosi omicidi di giovani donne e rimasti irrisolti. Ma se quei casi non fossero poi così relegati al passato? Se in realtà quei casi fossero presente? Se fossero tornati a essere vivi? Se il killer fosse tornato a mietere vittime? Se non avesse mai smesso?
L’una milanese, l’altra cagliaritana, arrivano per strade diverse alla sezione “delitti insoluti” della questura di Cagliari. Entrambe si portano dietro un dolore da elaborare e da espiare, entrambe devono maturarlo e farlo proprio. Ma Eva e Mara sono chiamate, in quella Sardegna evocativa e profonda, a investigare sulla morte di Dolores Murgia, donna brutalmente e barbaramente uccisa che viene ritrovata in un sito nuragico. Il crimine è legato al culto della Dea Madre e questo introduce per il lettore un binario parallelo che rimanda a leggenda, tradizione, mito. Accanto alle figure femminili vi è l’ispettore capo Moreno Barrali, in pensione. Due gli omicidi irrisolti che si porta dietro come una spada di Damocle e che ne rappresentano la più grande ossessione.

«Il male non sanato genera altro male, in una spirale infinita.»

A una trama studiata e cadenzata si somma uno stile narrativo caratterizzato da un alternarsi di voci narranti che si snodano tra miti e leggende che ben si coniugano con quello che è il noir e il crimine da risolvere. Un binario parallelo interessante anche se alle volte tende ad essere eccessivo per il lettore tanto da far perdere, in parte, di interesse e pathos.
Il risultato è quello di un thriller elegante, abbastanza solido che sa omaggiare la terra d’origine dello scrittore stesso. I personaggi sono a loro volta ben delineati e credibili per chi legge che non fatica a lasciarsi trasportare. L’attenzione è rivolta in particolare anche a quel che riguarda la scelta stilistica del gergo dialettale, mai volgare ma sempre molto ricercato. Ampio spazio è lasciato alla sociologia e all’antropologia di questa terra che spesso oscilla tra presente e passato. Forse non originalissima la trama e presenti i dovuti cliché, ma nel complesso è uno scritto godibile per gli amanti del genere.

Un colpo al cuore - Piergiorgio Pulixi

In un “Colpo al cuore” Piergiorgio Pulixi dona ai suoi lettori uno scritto composto da tre voci narranti: il vicequestore Vito Strega e le due ispettrici, già conosciute ne “L’isola delle anime”, Mara Rais, dura, dai modi bruschi e impulsiva, ed Eva Croce, dall’acutezza ben mixata al riserbo. Le due donne, in particolare, di origini diverse, l’una milanese e l’altra sarda, hanno tra queste pagine un ruolo ancora più coinvolgente e fatto di emozioni che diventano ancora più tangibili nello scorrimento di vicende che le mettono a dura prova.
Vito Strega, dal suo canto, è un uomo affascinante e dalla corporatura possente e da sempre attratto anche dal male. Caratteristiche, queste, che non lo rendono inosservato al passaggio e che lo portano anche al non riuscire a mimetizzare la sua brillantezza nell’investigazione. Dal passato tormentato, criminologo, da vicende personali che non sembrano volerlo lasciare in pace, da un lavoro che lo spreme fino al midollo per quanto sia acuto e perspicace, è una figura emotiva, dal suo canto fragile, preda e vittima di se stessa.
Lo stesso relazionarsi con il mondo di “fuori” è per lui difficoltoso. Il suo loft è il luogo in cui ritirarsi e star bene, lui, i suoi spazi, la gatta nera decisamente gelosa ma anche rispettosa degli spazi, non invadente e a sua volta acuta. Le confidenze sono invece riservate a una ragazzina, adolescente, che altro non è che una vicina.
“Occhio per occhio, dente per dente”. È questa la filosofia che muove il serial killer ideato da Piergiorgio Pulixi, un serial killer molto particolare che ha deciso di riparare ai torti della giustizia. Se non ci pensa la legge a risolvere e condannare il colpevole individuato, sopraggiunge lui. Lui e la sua maschera dai tratti demoniaci, lui e quel video con cui rende il destinatario egli stesso complice. Perché con votazioni anonime il destinatario esprimere il suo giudizio, nessuno lo saprà ma alla fine il risultato finale sarà una punizione e una tortura senza possibilità d’appello per il colpevole. Ma è concepibile individuare una vendetta alla Dantès?
Il tutto tra la Sardegna e Milano, in un perfetto mixarsi di colpi di scena e situazioni al limite. Al tutto si somma uno stile narrativo fluido, ben ritmato, una trama ben costruita e solida che coinvolge e trattiene.
Nella creazione del pathos, nel coinvolgimento emotivo, nella denuncia verso retroscena di un vivere fatto di apparenze e di una giustizia terrena che spesso è disattesa e lascia posto ed adito a una giustizia individuale e crudele dell’uomo detentore del presunto vero e giusto.
Un libro che gioca anche con la musica, basti pensare al titolo omonimo di Mina, che ben trattiene e incuriosisce, con qualche cliché ma nel complesso piacevole.

La mia bottiglia per l'oceano - Michel Bussi

«Qual è secondo voi il miglior inizio possibile per un romanzo?” “ Un morto!” risponde senza esitare la comandante Faréyene. “Ci sei andata vicina” esclama contento il professore di scrittura (…) Meglio di un cadavere è nessun cadavere! Solo una sparizione.»

Michel Bussi, scrittore francese eclettico e dal gran talento narrativo, torna in libreria ancora una volta con un romanzo molto originale edito per Edizioni E/O e che riprende in mano niente meno che un famoso giallo di Agatha Christie. Il tutto tra cibi esotici, veleni, luoghi, cimiteri abbandonati, inseguimenti nella giungla, testamenti e chi più ne ha, più ne metta.
Caratteristica pregnante del giallista francese è la capacità di ambientare romanzi gialli particolarissimi in luoghi altrettanto variegati, il tutto mixando una trama avvincente con una buona dose di suspense.
Siamo nelle isole Marchesi, Hiva Oa, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. È qui, luogo ove è venuto a mancare Paul Gauguin, che si svolge una strana e insolita gara di scrittura. Pierre Yves François (PYF) indice qui un concorso ove cinque aspiranti scrittrici si dedicheranno alla scrittura al fine di redigere il loro romanzo e vedere decretare un vincitore. La vincitrice verrà pubblicata e otterrà la fama e la celebrità auspicata. Sarà nella pensione Au Soleil Redouté che egli organizzerà il laboratorio di scrittura a cui partecipano le cinque donne: Clémence, trentenne e sportiva, sognatrice, immaginifica ma anche espansiva, Eloise, coetanea, malinconica, diametralmente opposta e introversa, Faréyne, quarantenne, comandante di commissariato a Parigi e fissata con lo scrivere, accompagnata dal marito Yann, capitano di gendarmeria, Marie Ambre, quarantenne, benestante, tendente al bere, accompagnata dalla figlia sedicenne Maima e Martine, settantenne, blogger di grande successo, amante della scrittura e oltre quarantamila follower.
Tuttavia la vita è imprevedibile e molto spesso non va come vorremmo. Lo stesso sarà per Marie-Ambre, Clémence, Eloise, Martine, Farèyne, le cinque prescelte, che si ritroveranno davanti a indagini che le condurranno sino a un epilogo che porterà alla rivelazione di una inaspettata realtà. Eh sì, perché a distanza di poche ore dal loro arrivo PYF sparirà nel nulla, non lasciando nessuna traccia se non i suoi vestiti piegati su uno scoglio e un sasso con degli strani simboli tatuati. Ed ancora, quale sarà il vero significato delle 5 statue scolpite che verranno rinvenute nei pressi dell’hotel dove soggiornano le cinque aspiranti scrittrici? La sparizione dell’uomo sarà solo l’inizio di una serie di misteri che si susseguiranno tra scomparse ma anche misteriose morti.

«Le Marchesi si odiano o si amano, disgustano o incantano. Alcuni le considerano uno degli ultimi paradisi terrestri, altri le vedono come il giardino maledetto del Tiaporo, il diavolo della Polinesia.»

Tra tatuaggi e tatuatori, statue votive e tiki che rimandano a riti misteriosi, ciottoli abbandonati e testamenti, il tutto per una perfetta e ben riuscita parodia de “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. A far da filo conduttore il desiderio di amare, essere amati e il successo letterario, un successo talmente ambito da andare oltre ogni prezzo e scrupolo.
Tra le pecche dell’opera vi è quella di una trama che nel suo voler essere più complessa e misteriosa rischia di finire con l’essere un poco più farraginosa da seguire tanto da far perdere di intensità e ritmo alla narrazione. A ciò si aggiunga anche l’uso di termini della cultura locale che non sempre rendono agevole la lettura.
Tra i pregi il chiaro ed inequivocabile omaggio a una delle scrittrici regine del giallo più affascinanti di sempre. Una di quelle scrittrici che non ci si stanca mai di leggere e che ogni volta che vengono lette riservano sorprese, colpi di scena e riflessioni.
Un libro godibile, all’altezza delle aspettative anche se non tra i migliori dell’autore a causa del suo tendere a perdersi in una densità talvolta controproducente.

Un cuore nero inchiostro - Robert Galbraith [i.e. J. K. Rowling]

14 settembre 2011. Josh Blay ed Edie Ledwell non sono ancora consapevoli del successo della loro idea. Tutto è nato in un cimitero, dalla passione per il disegno e l’arte, dal legame amoroso e sentimentale. “Un cuore nero inchiostro” è approdato su YouTube e nessuno si sarebbe mai aspettato cotanto riscontro mediatico, nemmeno, appunto, i creatori. I fan si moltiplicano, nasce anche un gioco ispirato alla saga chiamato “Il gioco di Drek”. Il fandom è entusiasta ma al tempo stesso non perdona. Non perdona l’approdo a YouTube, non perdona Edie. Se Josh è visto come un idolo nonostante la vera mente e motore tra i due sia la donna, è Edie ad essere dipinta come un mostro ingordo di fama e denaro. Da qui partono i soprannomi quali IngordEdie, Edie Contaballe, Edie Mangiatutto e chi più ne ha, più ne metta. Anomia, uno dei moderatori nonché co-fondatore insieme a Morehouse del gioco, non ammette errori. Non le concede possibilità di perdono. È mosso da un astio incontrollabile, sa tutto, ogni mossa e segreto del passato e presente della donna. Anomia che non rimanda tanto ad anonimo quanto a mancanza di normali standard sociali ed etici. Ogni occasione è buona per darle contro e scagliarsi contro di lei. Quattro anni. Quattro lunghi anni di continui attacchi a Edie.
Anno 2015. Cormoran Strike e Robin sono al Ritz. La serata ha preso una piega completamente inaspettata, una piega che potrebbe incidere sul futuro del duo. I casi però sono tanti e questo permette ad entrambi di “far finta di niente” e rimandare il discorso a data da destinarsi. Quando Edie Ledwell bussa alla porta dell’agenzia è una donna esausta, provata dagli anni di oppressione di Anomia, desiderosa di fermarlo e di conoscere la verità. Ha tentato il suicidio, è vero, ma adesso vuole provare a riprendersi la sua vita e a toglierla dalle mani del fandom. L’agenzia non può però aiutarla, non sono esperti di crimini informatici e scoprire chi è Anomia è quasi impossibile per chi non è del settore. Questa, almeno, la risposta di Robin che vede sul collo della donna dei lividi. Tuttavia, qualcosa cambia nel corso della vicenda perché poco dopo l’incontro con Robin la coppia viene ferita. Un grave doppio accoltellamento avvenuto nel cimitero di Highgate che ferisce a morte Edie Ledwell, di anni 30, e Josh Blay, di anni 25, sopravvissuto ma con gravi lesioni e paralisi conseguenti. Ma chi potrebbe essersi macchiato di questo reato? Sembra che le vittime siano state colpite da un taser e poi accoltellate alle spalle. Adesso non si tratta più di un crimine informatico e nonostante le indagini siano svolte dalle autorità vengono investiti del caso anche Cormoran, Robin e tutta la loro squadra al fine di scoprire chi sia Anomia e, se possibile, far anche giustizia. I sospetti di Scotland Yard, ad ogni modo, vertono tutti su un’organizzazione di estrema destra con finalità terroristiche e ideologie razziali.

«Era in momenti come quello che a Robin riusciva difficile rimanere arrabbiata con Cormoran Strike, per quanto irritante lui potesse essere in genere.»

Robert Galbtraith, alias J.K. Rowling, dona ai suoi lettori un romanzo stratificato, complesso, arguto. Un libro caratterizzato da molteplici tasselli che prendono forma e campo. Nulla è dato per scontato e nulla è come appare. Pagina dopo pagina il lettore viene travolto in un caso sempre più arzigogolato che porta, nel vero senso della parola, ad aprire un vaso di Pandora.
Al tutto si somma una prosa pulita, limpida, accattivante, mai prolissa. E non deve spaventare nemmeno la mole, il romanzo è godibilissimo e rappresenta un perfetto giallo all’inglese, con i giusti tempi e il ritmo mai troppo lento, mai troppo veloce. Qualche novità sul fronte sentimentale ma non quelle che molti lettori auspicherebbero, anzi. Vi è una maggiore presa di consapevolezza ma a far la differenza è il giallo. Un giallo che muove nell’attualità facendo riflettere sulla forza dei social e il loro impatto nel mondo circostante, sulla forza della parola del singolo se comunicata con i giusti mezzi sulla massa, l’effetto boomerang di quel che diventa virale, l’ossessione, la persecuzione anche mediatica, la vendetta e poi vi è il crimine, il crimine che esce dallo schermo e diventa concreto e reale. Il sangue che macchia il gioco che non è più solo questo. Ed ancora vi è la riflessione dettata da tutto quel che consegue anche il celarsi dietro uno schermo, l’accettarsi, il vivere con le proprie ossessioni, paure, deficienze. Il crearsi uno specchio, una maschera, in cui essere quel che non si è. Indossare i panni di quel che vorremmo essere, di un mito che non siamo ma che è esente da tutte le nostre paure e i nostri limiti fisici e psichici. Queste e molte altre sono le riflessioni che vengono suscitate da queste pagine.
Infine, ma non per importanza, la struttura del testo: dal prologo sino alla conclusione, anche l’impaginazione è espressione di attualità e riporta anche circostanze e dati che molti di noi hanno vissuto nella dimensione del web con maggiori o minori interazioni social e non. Questo rende ancora più corposo e veritiero il componimento.
L’attenzione non cala, la curiosità è tanta, il desiderio di conoscere chi è Anomia e chi ha ucciso Edie, ferito Josh, attuato il meccanismo complesso che si cela dietro i delitti, è insaziabile e il lettore, come in un perfetto rompicapo, si cala nei panni di Cormoran e Strike e prova a individuare egli stesso il colpevole. Perché i reati che si delineano sono su più piani ma sono veramente tante le dimensioni e i multilivelli di analisi che vengono descritti.
In conclusione, un altro godibilissimo capitolo delle avventure di due personaggi che si fanno sempre più apprezzare e che leggere è sempre un’attesa che poi viene ripagata. Uno di quei libri che il conoscitore si gode battuta dopo battuta e che desidererebbe non finissero mai. A quando il prossimo J. K. Rowling/Galbtraith?

«Robin ebbe l’impressione che fosse così assorto nei suoi pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stavano facendo.»

Giura - Stefano Benni

«Giura che non mi dimenticherai. Giura su ogni scrigno di noce, e su ogni chicco di uva e grillo nascosto e stella del firmamento. Giura per il fiato che manca quando ci tuffiamo nella paglia, giù per dieci metri dal granaio, e dopo tanti voli siamo un po’ pesti ma felici.»

Protagonista di questo nuovo romanzo a firma Stefano Benni è Febo, adolescente di appena tredici anni che vive in un borgo sull’Appennino insieme ai nonni. All’ombra dei Castagni Gemelli tante leggende si susseguono, alcune paurosissime, altre di grande umanità e intensità. Tanti sono i personaggi che si susseguono che vanno da Slim e i sette fratelli di Carta a Zanza passando per Bue e il padre Chicco, ma tra tutti è lei ad essere la vera co-protagonista: Luna. Luna che vive con ‘Ca Strega, Luna che è selvaggia, Luna che è muta o forse muta non è ma dalla sua bocca non proferiscono mai parole, Luna che in uno di quei tanti lanci sulla paglia cade male e si ferisce alla schiena restando costretta su una sedia a rotelle. E anche se a poco a poco sente nuovamente i suoi piedi e anche se a poco a poco quella sensibilità arriva, non ne fa parola con l’amico di sempre. Poi, il mutamento, il rinnovamento, poi una profezia in un pomeriggio dei tanti su una mano di ferro. I destini che si separano, le strade che si allontanano per incroci e sentieri diversamente percorsi.

Luna si risveglia in un istituto di suore in cui potrà recuperare la voce grazie al dottor Mangiafuoco, Febo si ritrova in città dove porta avanti i suoi studi.
Passano gli anni, si susseguono gli avvenimenti. I due eroi sono separati eppure legati da un filo invisibile che li riporterà a ritrovarsi e riperdersi in un continuo di incontri preceduti da una separazione obbligata che mai risparmia, nemmeno quando, quell’unica volta, pensano di poter invece davvero restare insieme.

«Anche perché mi piaceva andare al fiume a pescare. E non è vero che è una cosa diversa, perché un amo in bocca fa male, e non è vero che i pesci non soffrono perché sono muti, come mi facevi capire tu Luna, quando ti mostravo le mie prede.»

Si ritrovano adulti, si rincontrano. Lei in quel del gelo nordico, lui in quel del caldo tropicale. Ancora una volta agli antipodi. Lui che ha fatto della passione per l’ecologia il suo lavoro e che adesso è padre, lei che ha fatto della sua assenza di voce la voce di altri dedicando la sua esistenza all’aiuto del prossimo, all’insegnare la lingua dei segni a chi non ha altri strumenti. Si ritroveranno per quell’ultima separazione che incombe e che non risparmia.

«Ma non scriverò più. Sognerò, piuttosto. Sogno e ti vedo mentre con aria di sfida mi dici “vedi, vado a testa alta, più in alto di tutti”. E il ramo cede e caschi dal fico. E io ragazza muta vengo a chiederti con i segni: ti sei fatto male? Poi ti aiuto a rialzarti, e ce ne andiamo. Dove? In quale pianeta? In nessun altro pianeta. Qui. È qui che siamo stati un po’ felici.»

Con “Giura” il lettore è partecipe di un romanzo in cui tutte le caratteristiche e tematiche tipiche dell’autore non vengono a mancare. Se già conoscete e amate la sua penna vi sentirete a casa. Non mancheranno luoghi e situazioni surreali avvalorati da quel giusto tocco di ironia e malinconicità, di brio e di nostalgia, di profezia e di fato, di destino e di vita. Il tutto in un caleidoscopio di personaggi che colorano le pagine con le loro variopinte sfumature e peculiarità. Il tutto in un mix di circostanze che, tra un tono leggero e l’altro, affrontano anche problematiche attuali e vicine a ogni uomo. Se al contrario non amate lo stile narrativo dello scrittore e non siete avvezzi a scritti caratterizzati da irreale e oniricità sarà un po’ più faticoso entrare nelle pagine, diventarne davvero partecipi, farle proprie.
Immaginario, visionario, fondato su quel filamento invisibile che unisce anime talvolta parallele.

«I due giganti erano felici di essere morti insieme. Ma anche se noi eravamo insieme e abbracciati, lo sapevamo. Ci avevano diviso, ancora una volta.»

L'osso del cuore - Valentina Santini

«Perché sei entrata nell’osso del cuore e non mi riesce levarti più.
Il cuore non ce l’ha l’osso.
Il mio sì.»

Il suo nome è Asma e cerca la sua mamma. Sa che da un giorno all’altro arriverà anche lei, che la riconoscerà subito perché forse è così che si riconoscono le persone. Dalle menomazioni, dalle mancanze. E lei con la sua mano vizza e menomata lo sa molto bene. Crede anche di riconoscerla quando quel giorno la vede arrivare. È lei, non può che essere lei. Non deve che essere lei. È come lei. Uguale in tutto, anche nelle ferite fisiche oltre che nell’anima. È condotta da lui, Esodo. Colui che per molti altri non è che un galoppino, un servo della dittatura. Eppure Esodo, quando vede la bambina che Asma è, sa che deve salvarla. La scuote, le scatena dentro quel tornare a voler vivere che ancora esiste in lui, a differenza e disappunto di tutto quel che poteva pensare o sperare.
È il 1976 e siamo dentro Casa Libertà, una comune, dove tutto è ammesso e dove si svolgono e celebrano atti di dubbia moralità e ancor meno legalità. Perché tutto è ammesso dal bene superiore, anche la punizione per il misfatto compiuto. Non ci sono limiti a quelle che sono le punizioni, i peccati da estirpare per le proprie colpe. Asma non è mai uscita da Casa Libertà, è una bambina all’inizio del romanzo. Quando incontra Laura crede davvero di aver trovato una madre per lei, mai però avrebbe pensato di incontrare anche lui. La realtà dei fatti è così diversa da quel che pensiamo, in questa Italia del 1976 in cui tutto è schiavo di una dittatura, un regime militare che si è imposto sul paese. E ancora, c’è l’arte. Una arte che emerge nella seconda parte dello scritto quando tra passato e presente la storia si ricompone, i tasselli del puzzle iniziano a combaciare, i volti a esistere in modo più concreto e uniforme.

«Ero capovolto. Il fare di Asma mi rifletteva come il pelo dell’acqua, mentre a me non era mai riuscito vedermi per bene nemmeno allo specchio. Questa consapevolezza divenne lampante: Asma era una cosa mia. Una bimba, il fine di tutto. Da diventarci matti.»

Romanzo d’esordio di Valentina Santini è “L’osso del cuore”, scritto edito dalla casa editrice E/O che fa il suo ingresso in libreria in questo trascorso mese di giugno. E quello di Valentina è un esordio davvero degno di nota. Uno scritto forte, emotivo, empatico e che non poteva che essere narrato così. Nulla risparmia Valentina ai suoi personaggi, né nella prima parte, né nella seconda. Solo e soltanto con questo stile e con questa vividezza l’opera avrebbe potuto rendere la sua componente emotiva, solo così essa sarebbe potuta davvero arrivare a quel lettore che, battuta dopo battuta, è trattenuto e rapito dalla storia ma anche colpito e segnato da questa. Uno scritto veramente bello, uno di quei libri che leggi per curiosità, perché intrigato dalla trama e che invece rappresentano un gioiello da non perdere. Che resta, che segna, che marchia il cuore, che coinvolge e fa riflettere. Una grande e potente storia d’amore e non solo.

«Pagine piene di scrittura per capire che la versione alternativa non esiste. I fatti sono conseguenze di azioni, di scelte. Avevo deciso. Stabilito eventi dall’inizio, senza saperlo»

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