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R: Nel mare ci sono i coccodrilli - Fabio Geda
«E dalla cornetta è uscito solo un respiro, ma lieve, e umido, e salato. Allora ho capito che stava piangendo anche lei. Ci parlavamo per la prima volta dopo otto anni, otto anni, e quel sala e quei sospiri erano tutto quello che un figlio e una madre possono dirsi dopo tanto tempo. Siamo rimasti così, in silenzio, fino a quando la comunicazione si è interrotta. In quel momento ho saputo che era ancora viva e forse, lì, mi sono reso conto per la prima volta che lo ero anch’io. Non so bene come. Ma lo ero anch’io.»
Il viaggio di Enaiatollah Akbari ha inizio in Afghanistan. Suo padre, camionista, muore durante un trasporto di merci e sua madre, minacciata dai talebani, non ha altra alternativa se non quella di nascondere e poi allontanare il figlio. A seguito della perdita del carico, infatti, i malavitosi, iniziano a perseguitare i suoi cari, membri, tra l’altro, degli hazara, l’etnia di minoranza perseguitata dai pashtun. Ecco perché la donna, per proteggerlo, lo porta – e lascia – in Pakistan, a Quetta, dove prima di andarsene si fa promettere dal figlio tre cose: di non rubare, di non usare le armi e di non drogarsi. Lo invita a seguire gli insegnamenti che ha ricevuto e a non arrendersi, gli sussurra che non può far altro, le circostanze le impediscono di restare al suo fianco. Deve imparare a cavarsela da solo, ma senza dimenticare quella che sino ad allora è stata l’istruzione ricevuta. Passano i giorni, i mesi, gli anni. Enajatollah è costretto a muoversi ulteriormente, a spostarsi di stato in stato, ad abbracciare lavori improbabili, denigratori e comunemente reietti da chi sta meglio, ma deve pur in qualche modo sopravvivere. Nasce in lui il proposito di trasferirsi in Europa, ha saputo che questa terra è molto diversa da quella in cui attualmente vive. Vuole andare incontro alla sua possibilità, è forse, la sua ultima chance. E per raggiungerla, questa terra, affronterà la fame, il freddo, ripetuti soprusi, il mare, la morte, la solitudine. Arriverà a Venezia, a Roma ed infine a Torino dove, grazie ad un amico dei tempi dell’Afghanistan, verrà accolto da una famiglia piena d’amore. Ed è qui che potrà coronare un altro suo grande desiderio: studiare. Negli anni di “pellegrinaggio” da un impiego all’altro, quante volte ha visto bambini andare a scuola, quante volte ne ha visti altri giocare in cortile tra una lezione e l’altra, quante volte ha semplicemente sperato di poter un giorno avere la stessa occasione, la stessa opportunità.
Enajatollah non è un sogno, non è una creazione di fantasia nata dalla fervida immaginazione di Geda.
E’ vivo, studia, e cerca di costruirsi un futuro. Per quanto ambisca a tornare nella sua terra natia, sa che ad oggi questa non ha nulla da offrirle; destina così il suo impegno alla volontà di aiutare, nei giorni che verranno, tutti coloro che sono intrappolati in una società senza speranza, destino, occasioni, in una società dove ciascuno è lasciato a se stesso, in balia dell’ignoto, della criminalità, in una società dove “arrivare al giorno dopo” è già di per se un miracolo.
Quella raccontata dall’autore è una storia che volutamente assume i toni del fiabesco, e lo fa per raggiungere i cuori tanto dei più grandi quanto dei più piccoli. E’ una narrazione che non si propone soltanto di enunciare quella che ormai è divenuta sempre più quotidianità, ma anche di sensibilizzare le menti di chi crescendo nell’agio, non immagina minimamente che esistano anche queste differenti dimensioni. Basti pensare al momento in cui il ragazzo, approdato nella sua nuova famiglia, scopre di avere un letto – e per di più tutto suo – , un tetto sopra la testa e perfino dei vestiti nuovi. Questi sono concetti e oggetti che diamo per scontati, non considerando che invece, per altri, non lo sono affatto.
Maria Darida - 6 anni fa
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1984 - George Orwell
Scrittore, opinionista, giornalista, saggista nonché attivista politico britannico Orwell è uno degli autori più diffusi ed apprezzati del XX secolo sicuramente ricordato per il contributo dato al filone della “letteratura distopica” spesso utilizzata nella sua lotta contro il totalitarismo. Pertanto, nonostante sia artefice di saggi e romanzi variegati e di notevole spessore, viene soventemente ricordato per opere quali “1984” e “la fattoria degli animali”.
1984 o 2014? Sebbene il romanzo risalga al 1948 rappresenta una delle opere più attuali e concrete del panorama letterario odierno. Affilata e vigorosa l’analisi di Orwell abbraccia numerosi aspetti caratteristici delle società, senza nulla mai lasciare al caso e senza alcunché risparmiare al lettore. Dalla politica, alla teoria delle masse, alle emozioni, alla teoria dei gruppi, all’oppressione determinata dalla leadership estrema, lo scrittore dà vita ad un universo complesso, ricco, veritiero e tangibile con mano. Un universo dove « La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza », dove l’uomo non è altro che una pedina le cui sorti sono rimesse alle arbitrarie decisioni dell’apice. Il protagonista, Winston Smith, è un membro subalterno del Partito, incaricato di “correggere” i libri e gli articoli di giornale già pubblicati al fine di rendere riscontrabili e veritiere le previsioni addotte dal regime; non solo, egli deve modificare la storia scritta contribuendo all’alimentazione della fama dell’infallibilità del Partito stesso. Winston Smith è un bieco strumento in mano al sistema.
Apparentemente un uomo malleabile si rivelerà essere un individuo con forte personalità che mal sopporta le tirannie e le imposizioni del vertice. Affiancato da Julia (la donna di cui è innamorato) ed ingannato da O’Brien, Winston sarà cadrà in balia degli avvenimenti, verrà arrestato e poiché refrattario al condizionamento sociopolitico del Socing verrà reinstruito mediante tre fasi (apprendimento, comprensione ed accettazione) al termine delle quali non avrà altra possibilità che allinearsi al regime.
In conclusione l’opera dell’autore è uno specchio della realtà che merita di essere letto. Per chi fosse interessato Orwell, come molti altri autori, ha lasciato vari carteggi con cui comprendere l’essenza e il “perché” delle sue opere. Ne è un esempio la lettera del 1944 in risposta a Noel WIllmett, che aveva sottoposto allo scrittore la domanda sul se il totalitarismo fosse una prospettiva anche per Inghilterra e Stati Uniti, da cui si evince che George aveva già teorizzato le basi del grido di allarme che a distanza di 4/5 anni si sarebbe tradotto nel romanzo “1984”.
Maria Darida - 6 anni fa
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7-7-2007 - Antonio Manzini
Roma. Il ritrovamento del corpo in una cava di marmo di Giovanni Ferri, figlio ventenne di un noto giornalista di Nera, brutalmente picchiato e di poi ucciso con un colpo unico e diretto alla base del cranio, e del cadavere di Matteo Livolsi, coetaneo, ex compagno di scuola ed amico intimo del primo, assassinato a distanza di pochi giorni con le medesime modalità, portano il Vicequestore Rocco Schiavone ad indagare su un traffico di stupefacenti gestito da una spietata criminalità organizzata.
Al contempo, il protagonista, dovrà fare i conti con la moglie Marina, la quale, a seguito di un’attenta analisi dei conti e delle spese, ha capito in quali loschi traffici sia intricato il marito; circostanza questa che costituisce un vero e proprio colpo basso per la donna che inevitabilmente arriva a chiedersi chi sia davvero l’uomo che in quei sei anni ha avuto accanto. Una pausa è necessaria…
«Li ho pagati io, sa? Mio figlio mica lavorava. E poi mi sembrava giusto. Li ho rovinati io, e pago il mio errore. E’ così la vita, no? Bisogna pagare per i propri errori. Ora lei mi spiega quale errore ha fatto Giovanni? Dov’è che ha sbagliato?»
Due vicende parallele, quelle descritte, che finiranno però con il coadiuvarsi ed intrecciarsi sino ad arrivare a spiegare molti dei perché che si celano dietro alla figura di uno dei personaggi più amati degli ultimi tempi. Due, ancora, le peculiarità. Non solo
Marina è viva, ma gli avvenimenti fanno capo alla capitale d’Italia e, dunque, ad un luogo antecedente a quello della Valle D’Aosta dove le avventure sono ambientate sin da “Pista nera”. Un Flashback vero e proprio, quello ideato da Manzini, che ha inizio e fine nel presente, ma che si svolge interamente nel passato.
Badate bene però, non ci troviamo innanzi all’ennesimo episodio di una saga ben ideata, quello che aprirete con “7-7-2007” non è, infatti, soltanto un giallo, ma anche un connubio di emozioni. Il funzionario di polizia si offre al grande pubblico mostrandosi per sensibilità ed emotività, dimostrando al lettore il suo attaccamento alla compagna ma anche agli amici di sempre (Sebastiano, Furio e Brizio) i quali, forse, a loro volta, si fanno davvero conoscere. Non solo. Rocco, nonostante tutte le sue strategie, scorrettezze, brutalità, scale di “rotture di palle” etc etc, si riconferma un ottimo segugio, un uomo che cerca di svolgere al meglio il suo lavoro.
Sospetti, dubbi, incertezze, ipotesi, deduzioni, trovano in questo elaborato, conferma e risoluzione.
Maria Darida - 5 anni fa
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A ciascuno il suo - Leonardo Sciascia
Una lettera minatoria. Uno scherzo? Una burla di cattivo gusto? Questo il pensiero del signor Manno, farmacista del paese nonché destinatario della missiva incriminata. Trascorrono i giorni ed il suo corpo, insieme a quello del medico Roscio, vengono rinvenuti, alla data del 23 agosto 1964, privi di vita in quella che doveva essere una semplice e mera battuta di caccia.
Immediatamente, Roscio viene qualificato quale vittima innocente del farmacista perché se non fosse andato con lui, certamente sarebbe vivo. Le indagini proseguono seppur appaiano paralizzate, seppur giorno dopo giorno l’interesse verso il misfatto sembri venire meno ed il colpevole già individuato dalla massa.
Il professor Paolo Laurana, docente d’italiano, latino e storia nel liceo classico del capoluogo, è un uomo disciplinato, metodico, preciso, poco incline ai divertimenti, rigoroso e fortemente rispettoso delle volontà della madre. Gli stessi alunni lo hanno sempre considerato un tipo bravo ma curioso, curioso nel senso di quella stranezza che non arriva alla bizzarria, a quella bizzarria opaca, greve, quasi mortificata. E’ a lui che il dettaglio salta all’occhio, è a lui che sarà implicitamente attribuito il compito di sbrigliare la matassa, di giungere ad una risoluzione del caso.
Ma come addivenire alla verità, come mettersi contro il sistema quando si può essere stranieri, nella verità o nella colpa, ed anche, insieme nella verità e in quella colpa, che regola questo ordinamento di sistema stesso?
«Ma sa com’è? Una volta, in un libro di filosofia, a proposito del relativismo, ho letto che il fatto che noi, ad occhio nudo non vediamo le zampe dei vermi del formaggio non è ragione per credere che i vermi non le vedano… Io sono un verme dello stesso formaggio e vedo le zampe degli altri vermi» p. 69
Attraverso l’espediente dell’investigazione, Leonardo Scia Scia, dà vita ad un romanzo incalzante, scorrevole e ben calibrato che trasporta in lettore in un universo di denuncia.
La Sicilia che ci viene presentata è infatti un luogo di omertà, di ipocrisia, di corruzione, di pregiudizio, di assuefazione, di dicerie, di connivenza con la malavita. Al tutto si sommano atmosfere affascinanti, caratterizzate dal pettegolezzo e dalle chiacchere di piazza, dalla consuetudine, dalla mentalità prettamente familiare, dalla concezione della mafia che, come un’ombra, è onnipresente eppure formalmente intangibile.
L’autore non si risparmia nemmeno in merito alla caratterizzazione dei personaggi: ciascuno è delineato e reso concreto a prescindere dalla durata della sua apparizione. Il lettore, grazie a ciò, riesce a prefigurarsi chiaramente chi ha davanti, con le sue forze e le sue debolezze.
Non manca nemmeno quel gusto retroamaro che in un epilogo inevitabile trova la sua sostanza. Non vi è possibilità di cambiamento, in questo luogo fatto di menzogna, non vi è speranza. Chi cerca di mutare le cose, finisce con l’essere ed il diventare, inevitabile parentesi di un tempo che fu.
Questo e molto altro è “A ciascuno il suo”.
Maria Darida - 6 anni fa
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A sud del confine, a ovest del sole - Murakami Haruki
Hajiime è un figlio unico nato e cresciuto in un’epoca in cui tale condizione era un marchio a fuoco, un’eccezione da guardare con sospetto, con ritrosia. Sin dalla tenera età, infatti, il giovane si è sentito diverso, sapeva di esserlo. Soltanto con lei, Shimamoto, tale diversità veniva meno poiché anch’essa sola, poiché anch’essa priva di quei fratelli e sorelle atti a creare un legame di sangue insondabile. Quando gli anni, la scuola e le circostanze li separano, il protagonista né sente inevitabilmente la mancanza, mancanza questa che accuserà anche nei rapporti successivi. Sarà per lui impossibile non paragonare le emozioni provate con la ragazza con le future compagne. All’età di trentasette anni, ella riappare in modo costante nella sua vita. O almeno così, lui crede.
Ma chi è Hajiime? Hajiime è un uomo adulto che si ritrova quale bagaglio un passato che cerca in ogni modo di comprendere. Quest’ultimo è rappresentato da Shimamoto, nonché seppur in modo diverso, da Izumi (emblema del senso di colpa, del dolore). Detta condizione fa si che il protagonista verta in una sorta di bolla, di impasse, che non gli consente di integrarsi con il presente, e da qui, di incanalarsi nel divenire. Quel presente in cui vive è dunque privo di colore, ha caratteri mortiferi, di deprimente insoddisfazione.
«Il ricordo di quel contatto è ancora vivo nella mia mente. Era una sensazione mai provata prima, e mai più ritrovata. Era solo una mano piccola e calda di una ragazzina di dodici anni, ma sentivo che in quelle cinque dita e in quel palmo era racchiuso, come in una minuscola vetrinetta, tutto quello che c’era da sapere sulla vita. Prendendomi per mano mi aveva reso partecipe di quei segreti. Mi aveva fatto capire che nel mondo reale esisteva davvero un posto come quello» p. 16
Nello scorrere delle pagine il lettore viene catapultato nel simbolismo crescente della vita e della morte, del passato e del futuro. Si trova di fronte ad una femme fatale fortemente diversa dal personaggio presentato nelle prime pagine, pertanto, la percepisce quale sterile, priva di quel qualcosa che la renda affascinante, che ne giustifichi l’attrazione dell’uomo. Hajiime si riscopre a dover fare una scelta che è più grande di lui: quegli opposti che caratterizzano la sua vita provocano dolore e danno allo stesso la sensazione di essersi perso, disintegrato. Questo carattere è altresì accentuato dalla figura del padre della moglie, personificazione del capitalismo a cui da sempre il trentasettenne è rifuggito per poi risvegliarvisi immerso.
Non solo. L’età adulta è caratterizzata anche da un ribaltamento di quella difformità che precedentemente era causa di malessere: se infatti antecedentemente essere figli unici era una circostanza di isolamento, di discrimine, con il mutare della società diviene uno stato sociale apprezzabile, ben visto, condiviso, a discapito di chi al contrario può godere della presenza di fratelli e sorelle.
Ma quale sarà la scelta di Hajiime, si lascerà andare alla morte dell’io con Shimamoto o sceglierà comunque di vivere con la mano calda di Yukiko sinonimo di speranza, vita e possibilità per il domani?
Con uno stile sobrio, intenso, ammaliante, Murakami conquista il lettore con un testo che nonostante sia stato giudicato non tra i migliori, arriva e colpisce. A mio modesto giudizio, infatti, l’autore si fa apprezzare per la dimensione introspettiva dell’opera la quale è interamente e completamente in essa sostanziata. Sin dalle prima battute ove si rispecchia la solitudine dell’uomo attraverso la figura del figlio unico, il giapponese ricrea perfettamente quella dimensione essenziale e fondamentale al lettore per porre in essere una specifica analisi di sé e del suo vissuto.
Da non sottovalutare.
«Non prestai quasi ascolto alle sue parole. Prima di andarsene, mi diede una pacca sulla spalla e mi disse:”Certo che il tempo cambia le persone, in vari modi. Non so che cosa ci sia stato allora tra te e lei, ma, comunque sia andata, tu non hai nessuna colpa. A chi più. A chi meno, è capitato a tutti di avere un’esperienza del genere, perfino a me. Dico sul serio, è successo anche a me. Così vanno le cose a questo mondo! La vita di una persona appartiene a quella persona. Non ci si può sostituire a lei e assumersi la responsabilità della sua esistenza. E’ come essere in un deserto, non c’è altro da fare che abituarsi. Alle elementari hai mai visto il film della Disney, il Deserto che vive?” “Si”, risposi. “Questo mondo è come quel film. Se c’è la pioggia, i fiori sbocciano e se non ce n’è, appassiscono. Gli insetti vengono mangiati dalle lucertole e queste, a loro volta, vengono divorate dagli uccelli, ma, alla fine, tutti muoiono comunque. Tutto muore e inaridisce. Finita una generazione, ne viene un’altra. E’ così che vanno le cose. Tutti vivono e muoiono in tanti modi, ma non è questo che conta. Alla fine ciò che rimane è il deserto. E’ il deserto quelle che vive veramente!» p. 76-77
«Le illusioni di un tempo non mi avrebbero più aiutato, non avrebbero più creato sogni per me. Il vuoto restava tale, quel semplice vuoto che mi aveva accompagnato per anni e al quale avevo cercato di adattarmi. “Questo è il punto cui sono arrivato”, - pensai - , “e devo abituarmici. Adesso tocca a me creare sogni per gli altri, sarà questo il mio nuovo compito”. Non conoscevo il potere di quei sogni, ma, se la mia vita aveva un significato, era quello di perseverare con tutte le mie forze in quell’intento. Forse.» p. 199
Maria Darida - 6 anni fa
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Accabadora - Michela Murgia
Anni ’50, Soreni, Sardegna. Maria Listru, figlia di Anna Teresa Listru, è una fill’e anima. Quarta e ultima nata, viene adottata da Tzia Bonaria Urrai, nubile benestante e sarta di facciata. Sono i lustri in cui nell’entroterra sardo è diffusa la pratica del “fillus de anima” ovvero di quell’accordo ingenerato tra privati per cui si manifesta l’affidamento volontario e consensuale di un figlio da parte dei genitori a terze persone. La piccola si ritrova così in una nuova casa, con nuove regole perché quelle della madre adottiva sono legge di Dio e come tali vanno rispettate, e con uno spazio tutto per sé. L’anziana, resasi conto delle condizioni economiche e affettive in cui la giovane è vissuta, inizia un vero e proprio lavoro di ricostruzione, un lavoro atto a creare prima di tutto un rapporto di amore, di rispetto e di famiglia.
E quello che si instaura tra le due, è un legame fortissimo. Bonaria dona alla bambina istruzione, saggezza, intelligenza, severità, affetto e generosità, tanto che questa ha tutti gli strumenti per crescere sana e responsabile, ha tutti gli strumenti per crescere nella consapevolezza che alcune cose possono essere fatte, mentre altre, no. Questi concetti, purtroppo, non sempre e non necessariamente coincidono con l’idea filosofica del giusto e dello sbagliato.
Ma l’opera non si esaurisce con quanto sino ad ora esposto. Attorno alla figura di Bonaria si cela il mistero, il segreto. E’ oggetto e destinataria di domande, domande alle quali non può essere data risposta, domande, ancora, che semplicemente non possono essere poste. Maria si impegna a mantenere il silenzio, a domare la curiosità. Non sa spiegarsi il perché di quelle improvvise uscite notturne, ma sa anche che l’anziana è stata categorica in merito. Quando scoprirà quel che davvero si cela dietro la sua figura, quel che queste sortite notturne hanno ad oggetto, resterà destabilizzata e si staccherà da quel ventre materno che l’ha tirata sù per ritornarvi soltanto dopo aver maturato, soltanto quando alcuna parola è più necessaria perché ogni silenzio vale più di ogni verbo espresso.
Caratterizzato da un linguaggio curato, fluente, quasi magico, uno stile narrativo capace di far rivivere le tradizioni, le superstizioni e le credenze della cultura sarda, “Accabadora” è un romanzo che si auto conclude in appena una giornata ma che lascia il segno. L’intero suo scorrimento è caratterizzato da quell’alone del mito, della fiaba mixato alla trattazione di argomenti attuali ed infine, alla dimensione eterna. Quest’ultima è quella che parla dell’orgoglio, dei doveri di una figlia verso la madre e della madre verso la figlia, della vita, del significato che le attribuiamo, di quando questa perde quei connotati che siamo soliti riconoscere quali elementi giustificativi di dignità e di vivere.
«Perché Arrafiei era andato sulla neve del Piave con scarpe leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia»
«Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono solo conferma»
Maria Darida - 5 anni fa
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Amok - Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi
Dopo quindici anni dall’uscita di “Serial Killer” classe 2003 (a cui sono seguiti altri testi ma attinenti ad oggetti diversi o variegati quali “Scena del crimine”, 2005, o “Tracce criminali”, 2006, per citarne un paio), dove venivano raccontati di assassini e vittime, di omicidi e indagini, della follia e della scelta criminale, tornano in libreria Massimo Piccozzi e Carlo Lucarelli con un nuovo appassionante volume concentrato su un nuovo fenomeno sempre più diffuso e questo perché le cose sembrano cambiate e in tutto il mondo: i mostri del crimine non sono più gli assassini seriali quanto i cd. “rampage killers” ovvero individui capaci di compiere una strage in preda alla furia omicida. Ma partiamo con ordine. Primariamente è bene precisare che in criminologia e in psichiatria clinica criminale per “Amok”, termine derivante dal malese mengamok, si intende una carica furiosa e disperata che prende campo nel folle omicida che al momento di compiere l’assassinio non ha consapevolezza e responsabilità; “la colpa era cioè insita interamente nel demone tigre, nello spirito del male chiamato hantu belian che si era impadronito del corpo e della mente del killer costringendolo a colpire e correre, correre e colpire”. I primi episodi di Amok furono originariamente osservati da James Cook intorno al 1770 quando il medesimo descrisse il caso di giovani uomini che all’improvviso e senza ragione apparente alcuna, iniziavano a correre e a gridare “Amok! Amok! Amok!” tentando di uccidere chiunque capitasse a tiro.
Ovviamente gli studi del fenomeno sono seguiti e si sono evoluti con l’evolversi delle tecniche di psicanalisi e con le teorie criminologiche e hanno assunto forme sempre più precise e puntuali proprio per far fronte a quel fenomeno in continuo mutamento che è confluito nelle stragi. Ma cosa muove il rampage murder e il rampage killer? È l’odio. Oltre alla follia, oltre al terrore, oltre al malessere interiore spesso nemmeno percepito, vi è l’odio. L’odio è un sentimento che si radica all’interno dell’individuo, che non si esaurisce in una emozione come può essere la rabbia, è una condizione che richiedere e presume una forte avversione e una profonda antipatia nei confronti dell’oggetto detestato. Non solo. L’odio raggruppa e ricomprende al suo interno anche l’invidia, la gelosia e lo stesso sentimento di amore, ma vi si contraddistingue in quanto chi aggredisce non aggredisce un aspetto definito dell’esistenza dell’altro e nemmeno la sua immagine in quanto il suo obiettivo è “l’essere” l’altro, e in ciò rappresenta la sua speciale ragione e forma di invidia. E affinché l’operazione sia efficace deve sussistere un collegamento tra la frustrazione e la scelta del bersaglio, il quale, a sua volta, deve restare nascosto e inaccessibile alla coscienza dell’individuo agente.
Da ciò altro fenomeno altamente pericoloso è quello di concentrare e focalizzare l’odio delle masse verso il diverso, come ad esempio accade dall’alba dei tempi verso il migrante, a prescindere dalla veste, dall’abito, dalla nazionalità e dal colore della pelle che indossa. Il migrante per definizione rappresenta il diverso, rappresenta l’angoscia e trae energia da quel senso di insicurezza esistenziale che è conseguenza della globalizzazione. Riscoprendoci in balia di forze sconosciute che impediscono alle nostre paure di trovare le rispettive cause, ingaggiamo battaglie sostitutive verso nemici sostitutivi che costituiscono ottimi bersagli a cui indirizzare l’attenzione, una attenzione che mixata a quella paura di cui sopra, si tramuta in odio, in dita puntate a fronte di una presunta colpevolezza. O ancora verso il compagno di scuola, verso la figura femminile, verso il collega di lavoro. Che hanno quello che non abbiamo, che “stanno meglio di noi”, che ci privano di un qualcosa che – a nostro giudizio – ci spetta di diritto.
Il lavoro di Lucarelli e Piccozzi è scrupoloso e minuzioso tanto che da detti brevi assunti si snoda e si articola in una analisi a ampio spettro che passa in una prima parte dagli school shooter (ovvero coloro che varcano una struttura scolastica attaccandone gli occupanti con armi da fuoco, ordigni incendiari o esplosivi, coltelli), ai workplace violence (ovvero alla violenza sul posto di lavoro tanto verso il dirigente che verso i colleghi), alle female mass murderers (donne assassine), all’odio verso tutti, e in una seconda parte, all’odio verso le donne, all’odio omofobo, all’odio razzista, all’odio religioso, all’odio dei terroristi, al comunicare e diffondere l’odio e al perché di questa proliferazione del sentimento e al che cosa fare dell’odio.
Uno scritto completo sotto ogni punto di vista. Tanto crimonologico che fattuale. Ad ogni tematica segue e sussiste la spiegazione scientifica e l’esempio pratico con tanto di fatti di cronaca più o meno recenti, avvenuti tanto in Italia quanto all’estero. Ma non fatevi spaventare dal contenuto. È un saggio adatto a tutti, anche a chi non conosce delle discipline giuridiche o affini. Gli autori utilizzano un linguaggio scorrevole, chiaro, senza fronzoli e appetibile alla generalità del pubblico di lettori, favoriscono l’approfondimento per chi non è ignaro della materia ma al contempo non ostacolano la lettura per chi ne è acerbo, anzi, offrono chiarimenti esaustivi e appetibili per tutti – e soprattutto per questi ultimi – man mano che introducono una problematicità.
Assolutamente da leggere. Imperdibile.
Maria Darida - 4 anni fa
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Asfodeli e avvertimenti - Antonio Morelli
« Ho un piede
nella disperazione
e l’altro nella vaghezza
Sino ad oggi – queste mattine –
Non ho toccato, qui,
le tue corde,
o senza-speranza
Ho valicato il cielo
ed il silenzio
ed il torrente
Ed il mio cuore
indiviso tabernacolo
e diviso auscultatore
ha bruciato il suo passo [..]»
cit. “Quiete inodore”.
Aprendo questa quinta raccolta di Antonio Morelli veniamo subito accolti e accompagnati nella discoperta della più profonda intimità del poeta dai versi di “Quiete inodore”, una composizione che sin dalle prime battute ci riporta a tutto il modo di essere e di relazionarsi con il mondo di un uomo che ha plasmato la sua sofferenza in vita in versi e parole di grande entità da lasciare ai posteri.
E se proseguendo nella lettura riscopriamo e riabbracciamo i temi dell’incomprensione del mondo, della solitudine, della disperazione, del malessere, del vivere in una realtà ben diversa da quella della propria interiorità, al contempo restiamo sconquassati, scossi, stupefatti dal diverso approcciarsi del Morelli a queste stesse tematiche a cui ci ha avvezzi, a questi denominatori comuni che sempre ci scortano nella sua poetica avendo lo stesso fattoli propri, avendo lo stesso intrapreso con sé stesso, e intessuto con noi, un cammino, un sentiero che ci prende per mano e che ci conduce nella dimensione onirico-reale di un individuo con al suo interno un universo di maglie di colori e sfumature tutte da assaporare e scoprire. Viaggio questo, in cui Antonio è giunto dopo un lungo percorso di auto-analisi e di coraggio. Perché per pervenire a detto risultato egli ha primariamente dovuto scandagliare la sua anima, ha dovuto isolare i suoi demoni, ha dovuto affrontarli uno ad uno per di poi, solo successivamente, poterli condividere anche con “il fuori”. Un atto di coraggio di cui ci ha fatto ancora più dono con le parole custodite in questa composizione sincopata che è “Asfodeli e Avvertimenti”.
La sensazione del conoscitore innanzi alle poesie del Morelli è quella di trovarsi in una oscurità terrena ed eterea durante la quale si erge un cammino a mani protese innanzi finalizzato a ritrovare il sentiero, finalizzato ad abbracciare quella luce che condurrà alla pace, al concludersi delle sofferenze.
La poesia si erge a metafisica, ricrea dimensioni surreali, mistiche in cui l’occhio assiste a una prosa pittorica a stampo prettamente Dechirichiano in cui si smette di riprodurre la realtà nella sua pura apparenza per indagare in quelle che sono le complesse relazioni fra cose e individui. Ci si rifiuta al principio della razionalità per avvicinarsi a ambientazioni atemporali, cosmiche, a oggetti che sottratti alle loro naturali funzioni evidenziano la rottura con il principio di causalità permettendo al poeta di descrivere una realtà spoglia di spazio-temporalità e bensì circuita e plasmata ai propri intenti. Da qui il carattere misterioso, intrigante e doloroso che trasmette al lettore il senso di alienazione, solitudine e incomprensione del mondo che è proprio della penna del verseggiatore.
Ombre queste in cui le contraddizioni ci portano a conoscere una poesia che ad una prima impressione può sembrare autoreferenziale e che non cerca interlocutori essendo fortemente radicata e circoscritta a quelle che sono le volontà dell’ideatore tanto da potersi associare all’assenza di colore del nero, dall’altro, ci troviamo di fronte ad una serie di componimenti che al contrario vogliono “uscire” dalla dimensione individualista e rendersi noti al mondo esterno grazie a tutti quegli elementi di eccezionalità e significati di cui sono connaturate, tanto da potersi identificare con la purezza e la contenutività dell’essenza di totalità del colore propria del bianco. Un parallelismo che rende preziosa e unica nel suo genere la poetica di Morelli.
Maria Darida - 5 anni fa
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Beren e Lúthien - John Ronald Reuel Tolkien
Come molti sapranno, la storia originale di Beren e Lùthien è contenuta nel Silmarillion, opera mitopoietica composta da J.R.R. Tolkien e pubblicata postuma, nel 1977, dal figlio Christopher in collaborazione con Guy Gavriel Kay.
In questa edizione pubblicata dalla Bompiani, edizione arricchita ed avvalorata dalle precise e meticolose illustrazioni di Alan Lee, ci ritroviamo ad Arda, dove Beren, un cacciatore mortale che vive nei boschi, incontra per la prima volta, Lùthien, una bellissima elfa. Tra i due scoppia immediatamente l’amore, un sentimento però a cui si oppone il padre della ragazza che per disincentivarne il proseguo pone un vincolo a Beren: soltanto se questo sarà in grado di portargli uno dei Silmaril che si trovano incastonati nella corona di Morgoth, potrà avere in sposa la figlia. E’ chiaro sin dal principio che trattasi di un’impresa disperata, eppure, l’uomo, grazie all’aiuto della compagna stessa, riesce ad impossessarsi dell’oggetto imposto dal genitore quale dazio al loro amore.
Una storia, quella descritta, fortemente empatica e che certamente non mancherà di fare breccia nel cuore degli appassionati. Eh sì, perché Tolkien ha da sempre sentito detta vicenda quale fortemente vicina, rivivendo con essa quella era la sua personalissima storia d’amore con la moglie Edith (n.b. sulle lapidi delle rispettive tombe, sono stati, non a caso incisi, proprio i nomi di Beren e Lùthien), talché non si è risparmiato nel descriverne le avversità, i dilemmi, le difficoltà relative ai preconcetti, all’appartenenza a due diverse razze. E vi è riuscito semplicemente avvalendosi di un linguaggio poetico, ricco, elegante, che accarezza ed accompagna chi legge.
Nello specifico l’opera si presenta in una doppia chiave di lettura: da un lato è in prosa, dall’altro in versi. Christoper Tolkien, con meticolosità matematica, si prefigge l’obiettivo di mostrare quelli che sono gli sviluppi della leggenda inerente a questi personaggi e per farlo si avvale proprio di questa duplice impostazione. Suo scopo principale è quello di riuscire a riportare alla luce i passaggi più descrittivi e significativi della drammaticità del sentimento, elementi che purtroppo hanno finito col perdersi nello stile riassuntivo e condensato del Silmarillion, elementi ancora, che in alcuni casi vedono la luce per la prima volta.
Il fine di questo volume è dunque ben diverso da quello dei tomi della “History of Middle-Earth” da cui scaturisce, obiettivo infatti non è quello di fungere da appendice a quei libri bensì di provare ad estrarre da questi un elemento narrativo che era, nella complessità dei predetti, in continua metamorfosi, evoluzione. Conseguenza inevitabile di questa scelta è che il libro non può prestarsi alla lettura di tutti indiscriminatamente. Anzi.
Esso si presenta ottimo ed adatto alla lettura di chi ha conosciuto ed amato la storia di Beren e Lùthien né il Silmarillion perché consente di ricostruire ed approfondire tutte quelle varie tappe che hanno portato alla maturazione degli eventi, ma non anche a chi, al contrario ne è digiuno. Per questi ultimi, scoprire dei dettagli delle prime stesure del racconto, o ancora trovarsi innanzi ad una novella che alterna due modalità narrative può essere destabilizzane e rischiare di far perdere di attenzione. E’ vero che il linguaggio adottato è meno pedante rispetto che ad altre opere dell’autore, tanto che quindi la fruizione è più agevole, ma è anche altrettanto vero che per poter apprezzare gli approfondimenti che sono alla radice dell’ideazione del componimento, è necessaria una conoscenza almeno minima delle avventure. Non solo, la sensazione a più riprese è quella di trovarsi di fronte ad una antologia vera e propria.
In conclusione, una storia per anime romantiche arricchita da illustrazioni ineccepibili e per gli appassionati di storie fantastiche.
Maria Darida - 5 anni fa
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Bianco - Bret Easton Ellis
«Un atteggiamento tossico sembrava esondare da ogni post o commento o tweet, che ci fosse davvero oppure no. Si trattava di un fastidio del tutto nuovo, qualcosa che non avevo mai provato prima – e si accompagnava a un’ansia, a un senso di oppressione che provavo ogni volta che mi arrischiavo ad andare in rete, la sensazione che in un modo o nell’altro avrei commesso uno sbaglio per il semplice fatto di condividere ciò che pensavo a proposito di qualcosa. Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti. […] Come se nessuno sapesse più distinguere un essere umano da una serie di parole digitate su un touchscreen. Il clima culturale in generale pareva incoraggiare il dialogo ma i social media erano diventati una trappola e quello a cui in realtà miravano era silenziare l’individuo.»
L’idea di scrivere un nuovo romanzo, a distanza di ben trent’anni dall’uscita del primo, nasce in Ellis nel 2013 mentre si trovava in autostrada dopo aver trascorso una settimana a Palm Springs con un’amica con cui era stato al College negli anni ’80. Anni ben diversi da quelli attuali, anni in cui andare a scuola o non andarci, guardare un programma o un altro alla tv non aveva la stessa risonanza, protezione e ovattamento di oggi.
«Non fregava niente a nessuno i quello che guardavamo o no, di come ci sentivamo o di cosa desideravamo, e non eravamo ancora stati incantati dalla religione del vittimismo. Paragonata a ciò che oggi viene considerato accettabile ora che i bambini sono ipercoccolati fino all’inettitudine, era l’età dell’innocenza.»
Anni in cui comprese che non l’essere vincenti ma l’essere “frustrati, disillusi e feriti rendeva il piacere, la felicità, la consapevolezza e il successo sia più tangibili sia palesemente assai più intensi”. Ma adesso chi è Bret Easton Ellis oltre che “il cattivo” per eccellenza che divulga coscientemente sui vari canali social impressioni, considerazioni, provocazioni e pensieri? Come non far ciò, d’altra parte, in un’epoca in cui la libertà di parola si è evoluta al punto tale da diventare una cd. “responsabilità di parola” all’interno della quale viene abnegato ogni confine tra pubblico e privato tanto che ogni individuo si sente legittimato a proferir tutto ciò che passa per la mente? Il risultato pertanto del fenomeno è che i confini del che cosa è possibile o meno raccontare si sono talmente dilatati da raggiungere estremità vacue, non limiti.
E questo in un certo senso è quello che fa Ellis: analizzare il fenomeno radicato in una società fatta ormai di luci, neon, apparenze, oggetti scintillanti, droghe, alcol, sesso, estremizzazioni, feticismi e cercare di trovarne una spiegazione. Perché la prima impressione che emerge dalla lettura di “Bianco” è che, in questa lunga disamina che parte proprio dagli anni della sua giovinezza, passando a quelli che sono stati gli anni del successo, ci si stia trovando di fronte ad una spiegazione del perché Bret sia una persona così schietta e “stronza” o del come un uomo della sua età non riesca a far i conti con questo mondo così radicalmente cambiato a fronte del “quando si stava meglio” anche se in verità si stava peggio.
Per poter davvero apprezzare “Bianco” è necessario conoscere gli anni ’80 e considerarli quale il momento storico in cui un po’ tutto ha avuto inizio tra alienazioni e ossessioni ed eccessi, è necessario avere consapevolezza, ancora, di quelli che sono stati gli anni ’90 e duemila con tutte le relative conseguenze fino alla crisi economica del 2008 e il seguente decennio.
L’obiettivo di Ellis è senza dubbio quello, dopo aver dipinto un quadro che rappresenta una vera e propria panoramica del presente, di tirare le fila ma senza mai cadere nella rassegnazione o nella depressione. La narrazione è infatti intrisa di disincanto, di cinismo, di entusiasmo. “Bianco” può definirsi pertanto un saggio di critica cinematografica e di critica a quello che sin dal primo capitolo è definito come “Impero”, l’Impero americano.
Quello che avete davanti, se deciderete di leggerlo, è un testo stratificato, con molto da offrire, capace di suscitare riflessioni nel lettore ma che richiede un certo impegno nella sua discoperta. In parte per questa forte impronta autobiografica che lo caratterizza, in parte per la necessaria chiave di lettura che richiedere di applicare per essere apprezzato e compreso nelle sue varie sfaccettature, in parte per questa serie di tematiche scottanti che tratta.
Un saggio che consiglio a tutti coloro che cercano scritti di sostanza, attuali e volontariamente provocatori e a tutti coloro che vogliono interrogarsi sulle cause del tempo che viviamo.
«In passato, nell’ormai lontana epoca dell’Impero, gli attori potevano tutelare le loro identità scrupolosamente progettate ed enigmatiche in modo più facile e completo rispetto al giorno d’oggi, in cui tutti viviamo nel mondo digitale dei social media e dove i nostri telefoni catturano senza filtri istanti che una volta restavano privati e ciò che ci passa spontaneamente per la testa può venire tradotto in una frase o due su Twitter.»
Maria Darida - 3 anni fa
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