Marco Ciampolini

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Il matrimonio di mio fratello - Enrico Brizzi

Un romanzo bellissimo. Una “storia sbilenca, che un po' fa ridere e un po' mette paura” per dirla con le parole dell’autore. E che un po' commuove, aggiungo io. Primo tra i recenti romanzi dedicati all’infanzia, all’adolescenza, ai rapporti tra fratelli, a quelli tra genitori e figli e ai matrimoni che si spezzano, questo si distingue per le robuste dosi di ironia disseminate lungo le sue quasi cinquecento pagine. Pagine che scorrono veloci e non annoiano mai, anzi coinvolgono. Fanno riflettere e arrabbiare, anche. Fanno pensare a quanto la generazione dell’autore, che è anche quella di molti lettori, sia caduta in basso. Leggetelo, non ve ne pentirete. Una curiosità: tra gli ultimi romanzi di Brizzi, alcuni hanno come co-protagonista uno sport. Qui è l’alpinismo, in “Tu che sei di me la miglior parte” è il calcio, in “La primavera perfetta” è il ciclismo. Anche nel raccontare le imprese sportive, o le mancate imprese, Brizzi è un vero maestro. Chapeau.

Tre - Valėrie Perrin

Tre amici, inseparabili durante gli anni della tarda infanzia e dell’adolescenza, progettano di andare a vivere a Parigi, dopo la maturità, per inseguire il loro sogno. Si perderanno, invece. Si ritroveranno solo trent’anni dopo, per scoprirsi cambiati, ammaccati dal tempo che è passato. Un libro sull’amicizia? Forse. Di certo il romanzo è un lungo viaggio - più di seicento pagine – attraverso l’infelicità umana. Leggiamo di malati di cancro che non vogliono curarsi perché stufi della vita; di madri e padri che abbandonano i figli lasciandoli crescere in famiglie sghembe; di adolescenti che si suicidano per amore; di aborti; di bambini imprigionati in un corpo che rifiutano e che, una volta diventati adulti, non hanno la forza di cambiare; di matrimoni falliti; di amori tossici; di incidenti stradali fatali; di maestri sadici che torturano gli allievi restando sostanzialmente impuniti e via dicendo. La prosa della Perrin è scarna, intrisa di realismo, raramente poetica, priva di lampi di speranza (a parte quella contenuta nelle ultime pagine in cui alcune cose, come per miracolo, o magari per la forza di una rinata amicizia, paiono aggiustarsi) e senza ironia. Verrebbe voglia di interrompere la lettura molto presto e sarebbe uno sbaglio perché, dopo quattrocento pagine, quando viene rivelato chi sia in realtà la misteriosa narratrice della storia, il testo diventa più coinvolgente. La sottotrama gialla, legata alla sparizione di Clotilde, trova la sua soluzione (prevedibile) proprio in quelle pagine. Due osservazioni, per concludere. La prima: se l’autrice avesse intitolato il romanzo “Quattro”, anziché “Tre”, avrebbe fatto una scelta più appropriata. Leggendo il libro, e non prima di pagina quattrocento, capirete perché. La seconda: il romanzo contiene in sé un altro romanzo, intitolato “Bianco di Spagna”, di cui si leggono degli estratti. Questo libro, scritto da Adrien, è forse più originale di quello che lo contiene. Di nuovo: leggendo il libro capirete perché. La lettura dei 92 brevi capitoli che costituiscono il romanzo è, nel complesso, piuttosto faticosa anche perché, nell’alternanza tra un capitolo e l’altro, l’autrice si diverte a viaggiare nel tempo tra il 2017 e il 1987, e poi ancora tra il 2018 e il 1994 e così via, rendendo il testo difficile da seguire. Una lettura molto impegnativa, quindi, sotto tutti i punti di vista.

Tu che sei di me la miglior parte - Enrico Brizzi

Titolo shakespeariano per questo lungo romanzo di Enrico Brizzi. L’autore sceglie di giocare in casa, torna nell’amata Bologna e racconta l’infanzia e l’adolescenza di Tommaso. La storia inizia nel 1982, quando Tommy ha otto anni, e termina nel 1992. Lungo il percorso il ragazzo (che è anche il narratore) si legherà soprattutto a Ester (la ragazza amata) e a Raul (il suo peggior amico), iniziando un triangolo amoroso che si risolverà in un finale imprevedibile. L’elemento interessante del loro legame è che a tutti e tre manca, per diversi motivi, la figura paterna. Per loro, la strada per diventare uomini (e donne) si rivelerà lastricata di errori sanguinosi e cosparsa di lacrime. Come al solito, Brizzi scrive benissimo, ma il romanzo non è omogeneo. La prima parte è stupenda, almeno fino al terribile scherzo giocato a Pinzoglio che ho trovato eccessivo (anche perché sembra scritto dal Brizzi pulp di Bastogne, libro che non ho mai amato). La parte dedicata agli anni del liceo Caimani, poi, soffre il confronto col capolavoro Jack Frusciante. Alcuni dei protagonisti del libro d’esordio (Hoge, Alex, Martino, Adelaide) recitano in piccoli camei o vengono nominati solo di sfuggita, provocando comunque una certa emozione. Predominano qui, largamente, le pagine dedicate all’assunzione e allo spaccio di droga e ai riti della curva (iniziazione, agguati, torti subiti, vendette e discutibili codici d’onore). Il finale è invece bellissimo e, come detto, imprevedibile. In chiusura, non posso non lodare la bravura con cui Brizzi descrive tanti luoghi, più o meno noti, di Bologna, ma soprattutto il suo encomiabile lavoro di ricostruzione degli usi e costumi prevalenti negli anni in cui le vicende si svolgono. Abiti, calzature, pettinature, cibi, bevande, droghe assortite e soprattutto cinema, libri, canzoni e strumenti musicali diventano anch’essi protagonisti, rendendo ancor più autentiche e credibili le storie narrate. Un gradino sotto l’ultimo La primavera perfetta, ma comunque un romanzo da leggere

La primavera perfetta - Enrico Brizzi

Enrico Brizzi non ammetterà mai, nemmeno sotto tortura, che il Luca Fanti protagonista del suo ultimo romanzo altri non sia che l’Alex del suo "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", invecchiato di 27 anni e ammaccato dalla vita. Troppe cose coincidono: l’origine bolognese, la famiglia di appartenenza (composta, in "Jack Frusciante", dal Cancelliere, dalla Mutter e dal Frère de lait; dal Capotreno, da Sandra e da Olli ne "La primavera perfetta"). Ci sarebbero anche il rock, il suicidio di un amico e tante altre storie, ma voglio fermarmi qui. Ciò che conta è che Brizzi scrive di nuovo un bellissimo romanzo, maturo, molto più classico nelle forme rispetto all’opera di esordio (non troverete, qui, quel fraseggio gergale e ricercato che caratterizzava l’opera prima, ma questo è diretta conseguenza del fatto che Brizzi è ormai autore affermato e sicuro dei propri mezzi, che non ha più bisogno di mostrare le sue funamboliche capacità letterarie e di stupire). Un romanzo peraltro lungo, ma assai scorrevole, triste a tratti ma mai deprimente. Un romanzo che parla principalmente del complicato rapporto che si instaura tra due fratelli maschi, ma anche di quelli non meno conflittuali tra padri e figli (Luca è contemporaneamente figlio, ma anche padre di un ragazzo e di una ragazza), tra mogli e mariti e tra vecchi amici. E non è finita qui: un posto di rilievo nella storia lo occupano sia il ciclismo, grande passione di Brizzi, sia la vita in una grande città come Milano, assai complicata per chi viene da una realtà più a misura d’uomo come quella di Bologna. Io l’ho trovato davvero appassionante, a tratti avvincente, spesso commovente. E poi c’è Luca, un grande personaggio: un antieroe che sbaglia tutto quello che un uomo può sbagliare ma che, alla fine, riesce a redimersi, grazie all’aiuto dei suoi amici, di un uomo d’altri tempi (Brenno) e di un fratello campione con cui ha un rapporto di amore-odio. Consiglio fortemente la lettura di questo romanzo, in particolar modo a chi ama le storie in cui i sentimenti giocano un ruolo fondamentale.

Chiedi alla polvere - John Fante

Cattura fino dall’incipit, questo straordinario romanzo di John Fante del 1939, il terzo del ciclo di Arturo Bandini, ma il secondo a essere pubblicato (La strada per Los Angeles fu rifiutato da tutti gli editori e fu pubblicato solo nel 1985). L’ironia amara delle prime righe e l’eccezionale descrizione emotiva della passeggiata lungo la Olive Street (in cui “le orrende casupole di legno trasudavano storie di omicidio”) fino al tuttora esistente Biltmore Hotel (con le file dei taxi in attesa dei ricchi clienti e le donne, bellissime ed eleganti, che escono dalla porta d’ingresso) mettono subito in chiaro al lettore che quello che sta per leggere è un romanzo che non dimenticherà. È vero, il testo è crudo (comunque molto meno di Aspetta primavera, Bandini e di La strada per Los Angeles, incredibilmente audaci per i tempi in cui furono scritti). È politicamente scorretto. È dedicato a quelle zone di Los Angeles povere, piene di insetti e polverose che erano Bunker Hill e i suoi dintorni, non certo a quelle ricche di Hollywood e Bel Air. Ed è altresì vero che il suo protagonista, Arturo Bandini (ma anche Camilla, Vera, Sammy, Hellfrick e molti altri personaggi) si comportano in un modo spesso detestabile. Tuttavia, proprio in questo risiede la forza del romanzo, nel riuscire a far appassionare il lettore alle vicende di uomini e donne traboccanti umanità. Arturo, in particolare, è carne e sangue: è pieno di difetti (è maleducato, razzista e spendaccione; è un cattolico imbottito di condizionamenti religiosi e, a tratti, si comporta come un misogino) ma anche di pregi (è generoso, romantico e, a modo suo, è capace di amare con gentilezza). Ma, soprattutto, l’incarnazione di Arturo proposta da questo romanzo (diversa da quelle precedenti) crede nella sua arte e spende la sua intera esistenza nell’inseguimento di un sogno: diventare uno scrittore di successo. Per raggiungere questo obiettivo si trasferisce dal Colorado, dove vive con la famiglia di origine italiana, a Los Angeles. Lo fa perché va cercando l’ispirazione o meglio, perché vuole vivere una vita che sia talmente ricca di esperienze e fatti e personaggi interessanti da poterla trasferire su carta e trasformarla in un grande romanzo. Per questo Arturo non è un uomo d’azione e appare spesso passivo: perché osserva, direi registra, ogni vicenda, con l’occhio di chi sa che poi elaborerà quella vicenda, fino a trasformarla in materia narrativa. Ogni pagina di questo libro (ancora oggi attualissimo, sia per i temi trattati sia per lo stile narrativo) è stupenda, e il romanzo è pieno zeppo di momenti memorabili: il bagno nelle acque dell’oceano (le cui onde sembrano in grado di bagnare persino il lettore, tanto le descrizioni di Fante sono potenti); l’immagine vivida di Camilla che esce dall’acqua; la scena dell’amore con Vera o, sempre con Vera, il momento in cui lei mostra ad Arturo le sue cicatrici; il terremoto vissuto a Long Beach (in cui il cattolico Arturo arriva a giudicare l’evento sismico una punizione di Dio per il suo peccato); le scene del fumo della marijuana con Camilla. Ma ci sono tantissimi altri momenti da ricordare, oltre a questi. La storia di amore e odio con Camilla è una delle più originali che mi sia mai capitato di leggere, così come originali sono i dialoghi di Arturo con la stessa Camilla. Fante sa dosare crudezza e poesia con una abilità che è solo dei grandi e in questo romanzo, per la prima volta, la trama è davvero coerente e potente (Aspetta la primavera, Bandini scritto in terza persona, è più una raccolta di straordinari racconti sull’adolescenza di Arturo, vissuta nella miseria più nera, oltre che un grande omaggio alla professione del padre, mentre La strada per Los Angeles è un formidabile esercizio narrazione a briglia sciolta). Non voglio aggiungere altri commenti che non siano un invito esplicito a leggere e rileggere questo romanzo (e anche gli altri del ciclo). Una doverosa avvertenza: leggete il prologo, scritto da John Fante, solo dopo aver letto il libro. Si tratta, infatti, di un racconto autonomo, che ha il pregio di spiegare l’origine del titolo, ma che ha il notevole difetto di riassumere il contenuto del romanzo e di anticiparne il finale. Concludendo: chiedete alla polvere della strada se questo romanzo è un capolavoro e lei vi risponderà che sì, lo è, senza ombra di dubbio.

La strada per Los Angeles - John Fante

È destinato a dividere i lettori in due schiere contrapposte, questo romanzo di John Fante, il primo del ciclo di Arturo Bandini ad essere scritto e l’ultimo a vedere la luce (fu pubblicato, postumo, nel 1985). Chi lo detesterà avrà molti argomenti a sostegno della sua tesi. L’Arturo qui ritratto, nel secondo capitolo della saga, è un perdigiorno incallito; è uno che passa da un lavoro all’altro senza sosta; è un ladruncolo; è un fanfarone che parla di Nietzsche e Schopenhauer con gente incolta e che si arrabbia quando i suoi interlocutori – semianalfabeti - non lo comprendono; è un onanista; è un ateo che non perde occasione di farsi beffe di tutto ciò che è cattolicesimo (da cui lo scontro costante con la madre e la sorella, che alla fine deruba); è una sorta di rivoluzionario che si dichiara comunista pur senza esserlo; è un violento; è un maschilista; è un autolesionista ai limiti del masochismo; è un razzista e chi più ne ha più ne metta. Ha tutti i difetti del mondo, Arturo Bandini. E questo già basterebbe per respingere tutti quei lettori che, nei libri che leggono, cercano – legittimamente - un protagonista in cui identificarsi. In più, il romanzo è scritto sotto forma di incessante flusso di coscienza e i pensieri al limite della follia di Arturo viaggiano in direzioni spesso imprevedibili, qualche volta davvero scioccanti. Chi invece lo amerà (e tra questi ci sono io), apprezzerà la straordinaria capacità di Fante di creare letteratura dal nulla. Basta il frego di un fiammifero su un muro, l’aria salmastra del porto, la vetrina di un negozio, la nebbia, qualsiasi cosa è fonte di ispirazione e consente a Fante di scrivere versi di una bellezza unica. Qualsiasi cosa prende vita, si anima, quando è trattata dalla sua penna. E poi non è vero che il romanzo non ha una trama. È, invece, la storia lucida e coerente di un giovane “ribelle con una causa”, colto esattamente nel momento in cui comprende il motivo per cui tutto quello che lo circonda gli provoca rabbia, frustrazione, senso di impotenza: il momento in cui capisce di essere uno scrittore. E, una volta compresa la sua reale aspirazione – e il suo talento - non si accontenterà di diventare uno scrittore qualunque, vorrà diventare il migliore. È un romanzo modernissimo, questo, perfino un metaromanzo in certi passaggi (come quello in cui Fante descrive - magnificamente - il processo di creazione del primo manoscritto di Arturo, con protagonista Arthur Banning. Romanzo fittizio, le cui prime esilaranti pagine sono trascritte fedelmente) che non raggiunge i livelli poetici di Chiedi alla polvere ma che è narrativamente superiore a un’infinità di libri di una banalità stordente che vengono pubblicati oggigiorno. Non sorprende il fatto che per quasi quaranta anni nessun editore abbia avuto il coraggio di pubblicarlo.

Aspetta primavera, Bandini - John Fante

Primo romanzo del ciclo di Arturo Bandini a essere pubblicato, nel 1938. Chi ha già letto gli altri tre noterà subito una differenza: è narrato in terza persona. Questo deriva senz’altro dall’indecisione dell’autore riguardo alla scelta del vero protagonista della vicenda: Arturo Bandini o il padre Svevo? Non a caso l’incipit si apre con il muratore Svevo Bandini che, con le scarpe sfondate, rattoppate con la carta di scatole di pasta non pagate, avanza “scalciando la neve profonda”. L’inverno freddissimo del Colorado è un altro protagonista della storia. Un inverno che non dà tregua e costringe il muratore Svevo a mesi di inattività non retribuita, durante i quali la sua famiglia fa la fame. Nella miseria e nella disperazione cresce Arturo, maturando un odio totale verso la madre (donna debole e succube delle proprie convinzioni religiose) e verso la sua condizione di immigrato di origine italiana (“di nome faceva Arturo, ma avrebbe preferito chiamarsi John. Di cognome faceva Bandini, ma lui avrebbe preferito chiamarsi Jones. Suo padre e sua madre erano italiani, ma lui avrebbe preferito essere americano”). È un romanzo duro, crudo (nella seconda pagina ci sono ben tre bestemmie), spesso violento e a tratti audace, la cui pubblicazione credo abbia richiesto un certo coraggio da parte dell’editore, ma è il primo capolavoro di John Fante e vale davvero la pena leggerlo. Ogni sua pagina è intrisa di passione e tanti passaggi raggiungono alte vette poetiche. Bellissime sono le scene ambientate nella scuola (che gran personaggio suor Mary Celia, col suo occhio di vetro; che grandi personaggi sono i compagni di scuola di Arturo). Stupendo è il capitolo otto, quello dedicato alla storia di sesso tra Svevo e la ricca, e affascinante, Effie Hildegarde. Commovente è la narrazione dell’amore (non corrisposto) di Arturo per Rosa. Spietato il racconto dell’umiliazione di Mary, costretta ad acquistare merci a credito senza avere mai soldi per saldare il conto. Crudele il ritratto della madre di Mary, donna davvero detestabile. Un romanzo da leggere assolutamente, quindi, anche se leggermente inferiore a Chiedi alla polvere. Perché inferiore? Perché, innanzitutto, mentre Aspetta primavera sembra più una raccolta (anche se perfettamente organica) di racconti, Chiedi alla polvere è un romanzo fatto e finito. Inoltre, l’indecisione di Aspetta primavera (il romanzo è la celebrazione del mestiere di Svevo o la narrazione dell’adolescenza di Arturo?) in Chiedi alla polvere scompare, e il lettore è catapultato nella mente di un Arturo ormai deciso a diventare un grande scrittore, con effetti di coinvolgimento maggiori. Fante, nella prefazione, dice che “tutta la gente della mia vita di scrittore, tutti i miei personaggi si ritrovano in questa mia prima opera” e, se lo dice lui, perché non credergli?

Acquanera - di Valentina D'Urbano

"Acquanera" è il secondo romanzo di Valentina d’Urbano. Viene dato alle stampe dopo l’ottimo esordio de "Il rumore dei tuoi passi" (che può vantare uno degli incipit più belli che mi sia capitato di leggere) e conferma i tanti pregi (e i pochi difetti) della scrittrice e illustratrice romana. Il romanzo è certo una storia di fantasmi, cimiteri e obitori, e ognuna delle sue 360 pagine trasuda inquietudine, cupezza e presenza della morte, ma è anche e soprattutto la storia di quattro generazioni di donne. Clara, Elsa, Onda e Fortuna sono tutte dotate di poteri paranormali, che vanno dalla capacità di vedere i morti e di parlare con loro (posseduta dalla medium Onda), all’abilità di Clara ed Elsa nel preparare unguenti e bevande miracolose, fino alle doti del tutto particolari di Fortuna, di cui non parlo per non spoilerare la trama. Il libro racconta la storia di ognuna di queste donne e si sofferma, in particolare, su quella di Fortuna, facendosi in questo senso romanzo di formazione. Fortuna cresce sperimentando l’odio e l’emarginazione pur non avendo, in apparenza, alcun potere sovrannaturale. Sconta la sua appartenenza a quella famiglia così inconsueta e la sua vita è un inferno, almeno fino a quando non incontra Luce, la figlia del guardiano del cimitero, anche lei odiata da tutti i bravi ragazzi, e le brave ragazze, del paese, per il suo aspetto sgradevole e per il suo odore fastidioso. L’amicizia con Luce (ragazza il cui passato è come un’ombra che grava da sempre su di lei) diventerà sempre più profonda e si trasformerà in qualcosa che nessuna delle due potrà più controllare (evito ogni spoiler). Altro protagonista del romanzo è il lago. Un lago che è pieno di cadaveri (non solo di suicidi). Un lago le cui acque assumono colori che, quando appaiono limpidi e puri come nei sogni di Elsa, simboleggiano la morte, mentre quando appaiono scuri e fangosi, come nell’ambiente che circonda la capanna in cui vive Onda, significano ricerca di un luogo appartato, lontano dal mondo dei vivi. Un romanzo psicologico, quindi; caratterizzato da immagini potenti e da una trama che ha un gran ritmo (tanto che se ne potrebbe facilmente ricavare un film). Peccato per il finale, che è piuttosto discutibile e non all’altezza di ciò che è venuto prima. Un romanzo che sarebbe da leggere assolutamente, quindi, se non risentisse pesantemente di una tendenza della scrittrice che già si era intravista nel brillante esordio letterario: quella di far muovere i protagonisti come se fossero pesci in un acquario, prigionieri di un tempo che passa eppure sembra non passare mai, ingabbiati in un luogo in cui nulla di ciò che esiste al di fuori di esso può entrare (non c’è politica, non c’è cronaca se non quella che riguarda la trama, non c’è musica, non c’è neanche geografia, non c’è nient’altro che il mondo disperato di queste donne) né influenzare minimamente le loro vite. A pensarci bene, anche certe illustrazioni della d’Urbano sembrano avere questa caratteristica, ma con una differenza: sono meno monocromatiche rispetto alla sua scrittura, hanno più sfumature, e dimostrano un’attitudine all’ironia e al sarcasmo che in questi primi due libri non si è vista. Chi vuole leggere questo romanzo deve prepararsi: nessuna delle sue pagine concede tregua. Dolore, disperazione, morte, emarginazione dominano il testo dall’inizio alla fine, senza mai un’apertura o il minimo spiraglio.

Rumore bianco - Don DeLillo

Don Delillo è un grande scrittore. Lo è per la qualità eccelsa dei suoi testi, per la sua capacità di scrivere dialoghi sempre originali, per l'abilità di creare personaggi interessanti. Non a caso è citato quale fonte di ispirazione da molte scrittrici e scrittori assai quotati. I suoi romanzi, tuttavia, hanno spesso trame poco potenti, che non inchiodano il lettore alle pagine e che, in termini di importanza, soccombono di fronte al peso preponderante di situazioni sempre al limite della follia e di dialoghi lunghi e molto ben articolati. “Rumore bianco” non fa eccezione. Parte piuttosto in sordina, con una sezione intitolata “Onde e radiazioni”, un centinaio di pagine in cui ci vengono presentati i principali protagonisti. Sono pagine davvero lente e occorre un atto di fiducia nei confronti dello scrittore per proseguire oltre con la lettura. La scarsa empatia che Delillo, come suo solito, sembra provare nei confronti dei suoi personaggi, che tratta anzi con spietatezza, evidenziandone gli aspetti più sordidi e gretti, non aiuta a entrare in simbiosi con i protagonisti della storia narrata. Con l’inizio della seconda parte, intitolata “L’evento tossico aereo”, arriva un primo cambio di ritmo e si cominciano a delineare gli intenti, che l’ultima parte del romanzo, “Dylarama”, sviluppa ampiamente. Di cosa parla questo libro? Contrariamente a ciò che lascia intendere il titolo, il tema centrale non è l’invadenza della tecnologia nel mondo moderno, che pure esiste. Il tema centrale sono le vite di tutti noi. Vite minacciate dall’inquinamento (nube tossica), dalle onde elettromagnetiche che agiscono sulle cellule del corpo umano, dalla delinquenza (che rende necessario il possesso di armi per autodifesa). In un ambiente sempre più ostile, gli uomini conducono le loro giornate secondo il ciclo produzione (lavoro) - consumo (il culto del supermercato) - famiglia. Ma le famiglie sono sempre più frammentate (Jack, il protagonista, è al quarto matrimonio e vive con la moglie Babette e molti figli nati dalle precedenti relazioni). In questo contesto minaccioso, la paura dilaga. Paura della morte, soprattutto. Una paura che neppure la fede in una delle tante religioni possibili può alleviare. Quando una nuova medicina sperimentale (il Dylar appunto), una droga capace di annullare la paura della morte, irrompe sulla scena, niente sarà più lo stesso, fino all’imprevedibile, e poco credibile, finale, in cui tutto si ricompone. Un piccolo messaggio di speranza? Un romanzo da leggere quindi, ma con attenzione, perché neanche i dialoghi accelerano il ritmo (quello tra Jack e Murray sulla morte e sull’aldilà occupa più di dieci pagine). Meno folle di “Cosmopolis”, meno rarefatto di “Body art”, meno creativo di “Great Jones Street” ma più a fuoco di questi e dell’ultimo, brevissimo, “Il silenzio”, il romanzo piacerà a tutti i lettori che amano la ricerca estrema della parola giusta e l’originalità dei testi.

Works - Vitaliano Trevisan

Che cos’è esattamente Works di Vitaliano Trevisan? Un memoir, certo, ma anche un ritratto a tinte fosche del tanto celebrato nord-est del miracolo economico, un punto di vista critico su quel che resta della società industriale vista dal suo interno.
Mai come in questo caso è opportuno scomodare la celebre frase di Whitman: “Chi tocca questo libro tocca un uomo”. Ed è infatti l’uomo Vitaliano Trevisan che si mette a nudo in questo lavoro lungo seicentocinquanta pagine, scritto in cinque anni e infarcito di note che, di fatto, sono ulteriori estensioni del testo (cosa che fa venire in mente Infinite Jest di Foster Wallace, ma le similitudini tra i due romanzi si fermano qui). Il racconto inizia nel 1976 – quando l’autore aveva sedici anni – e termina nel 2002.
La motivazione che spinge Trevisan a compiere il percorso narrato - fatto di colloqui di lavoro, assunzioni, dimissioni, crisi aziendali, cassa integrazione e mobilità - sarà sempre la stessa: “non ci sono i soldi”. Solo col tempo l’autore comincia a selezionare, tra le opzioni lavorative che gli si presentano di volta in volta, quelle che gli consentono di mantenere la testa sgombra a sufficienza da permettergli di scrivere. Salvo poi scoprire, di fatto, che il mestiere dello scrittore mal si concilia sia con il contemporaneo svolgimento di attività manuali – che liberano la testa ma torturano il corpo – sia con le professioni dell’intelletto – che hanno l’effetto esattamente opposto.
Operaio in una fabbrica di gabbie per uccelli, magazziniere in una ditta trasporti, muratore, cameriere, geometra in vari studi professionali, venditore di arredi, impiegato in aziende che producono arredi per negozi o mobili per cucine, gelataio in Germania, lattoniere e altro ancora: ognuno di questi lavori è un’esperienza dolorosa, di cui l’autore nulla ci risparmia. Trevisan traccia ritratti impietosi degli imprenditori veneti, si sofferma a lungo sulle tristi meccaniche che determinano invidie, rivalità e ripicche tra colleghi d’ufficio e affronta senza pregiudizi ideologici le dinamiche del lavoro in produzione, premurandosi di descriverne anche gli aspetti più tecnici. Ogni nuovo mestiere è vissuto dallo scrittore come un passaggio necessario da compiere, non solo per garantirsi il pane, ma soprattutto per raggiungere il suo obiettivo ultimo: la scrittura.
Neppure i dettagli più oscuri del percorso dell’autore ci vengono taciuti: lo spaccio della droga per integrare paghe da fame, i tradimenti degli amici, i rapporti difficili con la madre e la sorella, i giudizi trancianti degli altri, il senso costante del fallimento, il matrimonio che va a rotoli. Non mancano brevi passaggi su certi temi caldi degli anni Settanta (terrorismo, rivoluzione mancata, riflusso), e sull’evoluzione delle politiche neo-liberiste italiane ed europee di fine anni Novanta, che aprirono la porta all’istituzionalizzazione del precariato. Trevisan si ostina a chiamare “padroni” gli imprenditori, ma litiga con Toni Servillo che – occupandosi della messa in scena di un suo testo – vorrebbe che gli operai indossassero la tuta blu “alla Cipputi per così dire (…) dimostrando di avere la classica immagine dell’operaio che sembra essersi fossilizzata in tutte le teste borghesi e piccolo-borghesi”.
Un libro da leggere dunque, nonostante la stanchezza che alla fine prende il lettore, alle prese con un’opera lunghissima e stilisticamente imperniata su una prosa che ingloba il dialogo nel flusso della scrittura. La difficoltà di provare empatia per quest’uomo emotivamente denudato, quest’uomo portato per carattere a essere contro - contro i padroni, contro i colleghi, contro i familiari, contro la burocrazia, contro i partiti e, spesso, contro se stesso e le proprie scelte - penalizza il romanzo. Conquistano invece la grande capacità tecnica di Trevisan - che scrive davvero bene ed è capace di assicurare alla narrazione un ritmo costante, certo con pochi sussulti ma scorrevole - e la profondità dell’analisi che, per ampiezza e dettaglio, ha pochi paragoni in Italia, almeno nel campo letteratura industriale.
Queste le parole con cui lo scrittore conclude il romanzo: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”.

La valle oscura - Anna Wiener

“La valle oscura” di Anna Wiener è – come il sottotitolo lascia intendere – un memoir: un romanzo autobiografico che racconta circa cinque anni di vita della scrittrice, ripercorrendo le scelte professionali e umane che ne hanno determinato il trasferimento da New York a San Francisco, e il passaggio dal mondo dell’editoria più tradizionale a quello high-tech delle startup e dei venture capitalist ( e della crescita apparentemente inarrestabile del profitto, dei principi della massima produttività e della dilatazione infinita dell’orario di lavoro, del nomadismo tecnologico pre-pandemia e delle insulse chat aziendali). Una riflessione, insomma, sul capitalismo tecnologico post-industriale, che non a caso si apre con la quotazione in Borsa del “social che tutti dicevano di odiare ma a cui nessuno riusciva a smettere di loggarsi” (Facebook) avvenuta nel 2012, e termina poco dopo le elezioni presidenziali vinte da Trump nel 2016; due momenti fondamentali della storia economica recente degli USA. Dall’apoteosi dell’era di Internet, e soprattutto dei social, alla temuta – dalle startup - rivincita del capitalismo tradizionale che, a conti fatti, non c’è stata.
La protagonista ama il settore dell’editoria, è disposta ad accettare gavetta e stage non pagati pur di farne parte, sia pure in ruoli non di primo piano come correttrice di bozze o lettrice di manoscritti. Tuttavia, deve arrendersi all’evidenza: “le difficoltà di conciliare uno stipendio netto da millesettecento dollari al mese con lo stile di vita mondano, festaiolo, agiato a cui l’industria editoriale spingeva” non sono più sostenibili per lei. Era certamente “bello ricevere gratis le ultime uscite”, ma sarebbe stato “più bello permettersi di comprarle”. Così, spinta dal desiderio di essere indipendente, di guadagnare, di trovare il suo posto nel mondo, si avvicina all’universo delle startup. Il suo primo contatto (fallimentare), con questa realtà, avviene a New York con una azienda del settore dell’editoria digitale. Seguirà il trasferimento a San Francisco, città in cui lavorerà prima in una startup di analisi dati (e qui il testo contiene preziose riflessioni sui big data e sul loro uso/abuso) e successivamente in un’altra startup che fornisce un cloud per l’archiviazione di dati (azienda identificabile nella GitHub, quella del gattopolpo). Il romanzo diventa a questo punto una vera miniera di informazioni sull’organizzazione del lavoro in queste società e sulla falsità del mito che le vuole veri e propri eden per i dipendenti, luoghi quasi ludici. La Wiener descrive un mondo fatto di tanti tecnici e di pochi umanisti, tutti ugualmente devoti alla causa dell’azienda, una moltitudine di individui non sindacalizzati che si identificano con l’azienda stessa, che indossano magliette e felpe col logo della startup anche nel tempo libero, che vogliono ottimizzare il proprio corpo - anche ricorrendo a discutibili pratiche di biohacking - per aumentare la loro produttività, convinti che questa sia l’unica via possibile per partecipare ai profitti del settore. La Wiener è bravissima nel descrivere tutto questo, come pure nei passaggi riguardanti un privato fatto di una serie infinita di cene in ristoranti più o meno a alla moda, di cibi poco appetibili e di poche digressioni (alcune alcoliche e lisergiche) a una vita fatta di lavoro “accaventiquattro”. Belle anche le riflessioni su San Francisco, sul suo essere città legata al mito hippy dei Sessanta e, allo stesso tempo, culla del sogno (incubo?) tecnologico. Un romanzo da leggere, quindi, i cui meriti saggistici superano quelli narrativi. Sì perché la Wiener, pur brava nella ricerca della parola giusta, lascia che la propria scrittura sia infettata dallo scarso trasporto che lei stessa nutre verso il mondo ipertecnologico, usando una prosa che predilige il monologo interiore al dialogo. Una prosa spesso infarcita di dettagli ambientali che la rendono prolissa. Data l’esilità della trama – che è tutta nel trasferimento da NYC a San Francisco e nei pochi cambi di azienda, che non comunicano mai il senso della grande avventura ma, piuttosto, delle transizioni da un business all’altro – affiora qua e là un po’ di noia, di stanchezza, di ripetitività. A me è piaciuto e, ripeto, ne consiglio la lettura, soprattutto a chi voglia approfondire l’argomento: “luci e ombre del moderno capitalismo post-industriale visto da una prospettiva non militante”. Chi invece nelle letture cerca la passione, il trasporto, l’intreccio dei sentimenti, il ritmo serrato (o magari l’adesione politica), non gradirà questo memoir. Tuttavia, farebbe ugualmente bene a leggerlo. Un po’ deludente il finale, scontato e tirato via. Una piccola nota: dopo l’epilogo ci sono due pagine di credits dell’autrice, a testimonianza di quanto lavoro d’équipe ci sia stato dietro a questo libro.

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