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L'isola delle anime - Johanna Holmström

«E poi la gran trovata di mettere il punto dopo “ho trovato”: “ho trovato che la vita non vale la pena di essere vissuta”, “ho trovato”, “ho trovato”: il tutto e il niente»

Una storia semplice, o forse una storia affatto semplice. Una storia semplice perché specchio di una realtà che ci appartiene e che è diventata fin troppo quotidianità comune, una storia semplice che semplice non è perché narra di un giallo intricato che, se vogliamo, non trova nemmeno davvero soluzione. Una storia semplice che viene narrata da un narratore mai semplice e sempre molto molto particolare e minuzioso nel suo scrivere. Uno scrittore che sa rendere apparentemente semplice un fatto affatto tale.
Sciascia scrive questo breve scritto nel 1989, ci trasporta in una realtà con molte criticità e nello specifico in un ambiente poliziesco, una caserma, che riceve una chiamata da parte di un diplomatico assente da molto tempo nella cittadina. Rientrato nella tenuta ha trovato qualcosa e chiede l’intervento della polizia. Il commissario declina e prende alla leggera la richiesta considerandola quale quella di un mitomane che quasi si sia dedicato a fare uno scherzo alle autorità e invita il brigadiere a farvi una capatina il giorno successivo. Sarà proprio in queste circostanze che il brigadiere scoprirà quello che è il corpo di un uomo senza vita e quella frase “ho trovato” seguita da un punto fermo. Da qui i sospetti. All’inizio ci sarà chi punterà sull’ipotesi di un suicidio mentre costui sin da subito su un omicidio. Tanti i dubbi e le nefandezze che si celano dietro “una trama semplice” che finisce con il concludersi con un “finale aperto”. In perfetto parallelismo e binomio in stile Sciascia.
Lo stile è asciutto, la trama non scontata, la vicenda appassionante. Al contempo vi è amarezza e malinconia, tra queste pagine. Sembra che la conditio sine qua non quella sia e quella resti in ogni caso voluto o fortuito del nostro vivere, quasi come se quel malessere fosse radicato nella nostra società senza possibilità d’appello. Emblematico l’incipit di partenza nonché la citazione che ne apre le pagine.

«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.» Durrematt, Giustizia

Ultimo suo scritto, forse, ma certamente da non dimenticare nonostante l’asciutezza del medesimo. Un gioco di specchi e intrecci che non delude le aspettative e invita alla riflessione il lettore.

«L’atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.»

Una storia semplice - Leonardo Sciascia

«E poi la gran trovata di mettere il punto dopo “ho trovato”: “ho trovato che la vita non vale la pena di essere vissuta”, “ho trovato”, “ho trovato”: il tutto e il niente»

Una storia semplice, o forse una storia affatto semplice. Una storia semplice perché specchio di una realtà che ci appartiene e che è diventata fin troppo quotidianità comune, una storia semplice che semplice non è perché narra di un giallo intricato che, se vogliamo, non trova nemmeno davvero soluzione. Una storia semplice che viene narrata da un narratore mai semplice e sempre molto molto particolare e minuzioso nel suo scrivere. Uno scrittore che sa rendere apparentemente semplice un fatto affatto tale.
Sciascia scrive questo breve scritto nel 1989, ci trasporta in una realtà con molte criticità e nello specifico in un ambiente poliziesco, una caserma, che riceve una chiamata da parte di un diplomatico assente da molto tempo nella cittadina. Rientrato nella tenuta ha trovato qualcosa e chiede l’intervento della polizia. Il commissario declina e prende alla leggera la richiesta considerandola quale quella di un mitomane che quasi si sia dedicato a fare uno scherzo alle autorità e invita il brigadiere a farvi una capatina il giorno successivo. Sarà proprio in queste circostanze che il brigadiere scoprirà quello che è il corpo di un uomo senza vita e quella frase “ho trovato” seguita da un punto fermo. Da qui i sospetti. All’inizio ci sarà chi punterà sull’ipotesi di un suicidio mentre costui sin da subito su un omicidio. Tanti i dubbi e le nefandezze che si celano dietro “una trama semplice” che finisce con il concludersi con un “finale aperto”. In perfetto parallelismo e binomio in stile Sciascia.
Lo stile è asciutto, la trama non scontata, la vicenda appassionante. Al contempo vi è amarezza e malinconia, tra queste pagine. Sembra che la conditio sine qua non quella sia e quella resti in ogni caso voluto o fortuito del nostro vivere, quasi come se quel malessere fosse radicato nella nostra società senza possibilità d’appello. Emblematico l’incipit di partenza nonché la citazione che ne apre le pagine.

«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.» Durrematt, Giustizia

Ultimo suo scritto, forse, ma certamente da non dimenticare nonostante l’asciutezza del medesimo. Un gioco di specchi e intrecci che non delude le aspettative e invita alla riflessione il lettore.

«L’atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.»

Schiava della libertà

KAWEKA E LITA
Sono passati già tre anni da quando Falcones deliziò il suo pubblico in libreria con un’opera corposa e stratificata quale “Il Pittore di anime”. Uno scritto, questo, capace di trascinare il lettore tra colpi di scena e fatti storici realmente accaduti che difficilmente deludono le aspettative e che anzi sono capaci di trattenere con il fiato sospeso. Ma Falcones non si ferma e in questo 2022 torna in libreria con un altro romanzo storico intrigante e interessante. Questa volta l’autore si sposta e ci riporta in un continente diverso e in un’epoca ancora più diversa e remota. È infatti Cuba il luogo di destinazione di quella nave carica di anime e volti in quel 1856. Quando la nave attracca presenta a bordo un carico non fatto di merci quanto di donne e bambini considerati tali. Il peggio sembra essere ormai finito dopo un viaggio estenuante e fatto di stenti, pensano, ma si sbagliano di grosso e ben presto lo scopriranno e a caro prezzo.

«Lei stessa capì che quel momento non si sarebbe affatto concluso con il dolore delle frustate: comportava anche il superamento di una tappa nella vita di una ragazzina innocente che come tutte loro era capace di sorridere di fronte alle disgrazie, di giocare nello stesso posto dove poco prima un nero era crollato esausto. Mamma Ambrosia si era presa cura di Kaweka cercando di fare per lei ciò che facevano le altre madri con le proprie figlie.»

Madri anno 2007. Maria Regla Blasco, Reglita da bambina e ora Lita, è una giovane donna finita a lavorare per la banca Santadoma per avere un’entrata stabile per sé ma anche per la madre sempre più prossima alla pensione. Tuttavia, ella ama l’arte, la cultura, le lettere, è specializzata in queste e mai avrebbe pensato di far altro. La madre, a sua volta, è domestica sempre i Santadoma ed è tramite la conoscenza diretta che anche la figlia può “usufruire” dei benefici lavorativi di cui diventa destinataria ma anche debitrice.
Tornando indietro nei secoli conosciamo anche Kaweka che con la sorellina poi morta fa parte di quel carico scaricato sulle spiagge cubane. Ad attendere Kaweka ci sono anni di privazioni, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche, soprusi. Ha difficoltà ad ambientarsi, sente il peso di questo mondo a lei sconosciuto di cui non conosce la lingua ma nemmeno gli usi e le consuetudini, subito si ferisce nelle piantagioni di canna da zucchero, subito viene comprata e sempre in tempi rapidi scopre e realizza di avere un legame con le divinità. Queste prendono possesso di lei che ha anche doti e capacità curative, sfidano l’uomo bianco per mezzo del loro possedere. Il corpo della donna è punito per l’impudenza, non mancano le frustate, non mancano le punizioni e le violenze da parte di chi pensa di poterla possedere. Ciò la rende una diversa agli occhi degli stessi schiavi con cui divide i luoghi e i tempi dello scandirsi della sua vita.
Torniamo al presente più prossimo e osserviamo come per Lita sia difficile accettare che la madre continui ad essere trattata come l’ultima ruota del carro ma anche come per lei sia difficile vivere in quel contesto sociale fatto di coordinate che non le appartengono. Tra Lita e Kaweka esiste, inoltre, un legame. Sarà un viaggio a Cuba a portare Lita a riscoprire della sua storia e dei segreti della sua famiglia. Segreti che la riporteranno indietro e le faranno riscoprire anche se stessa.

«Lita danzò, trascinata da una forza incontrollabile, alternando, come la giovane che l’aveva preceduta, un ritmo frenetico a movenze più delicate. Sentiva il mare vicino a sé e le onde lambivano il suo spirito, ma, a differenza dell’altra ballerina, Lita cantava… E lo faceva con una voce che non era la sua…»

Pagina dopo pagina Falcones ricostruisce un puzzle fatto di mille sfaccettature e mille volti. È un romanzo solido e stratificato “Schiava della libertà”, un romanzo ricco di temi e riflessioni sottese. Al contempo gli stessi personaggi sono vividi e ben caratterizzati, il lettore li percepisce quali realistici e non fatica a farne proprie le aspettative, le paure, le ingiustizie, i desideri. Ad avvalorare il tutto vi è uno stile narrativo curato, minuzioso, arricchito da ricerche e ricostruzioni storiche. Un libro che sa far riflettere sul concetto di libertà, un qualcosa che oggi tendiamo a dare troppo spesso per dovuto e/o per scontato quando in realtà non lo è ed è frutto di lotte, ribellioni, sacrifici, contestazioni e tanto altro ancora da parte di chi, in passato, è dovuto sottostare alle angherie dei più forti per essere nato nella condizione sociale “sbagliata” o nel paese “sbagliato”.

Chi si ferma è perduto - Marco Malvaldi, Samantha Bruzzone

«Se vi doveste trovare, una notte d’autunno mentre piove, completamente nudi ai comandi di un aereo di linea che sta sorvolando Ponte San Giacomo, e si dovessero spegnere d’improvviso entrambi i motori, il mio consiglio è di non lasciarvi prendere dal panico. In primo luogo perché Ponte San Giacomo, il posto dove vivo, è un paese per modo di dire: in realtà è una strada in mezzo a una pianura, e le uniche case sorgono accanto alla strada stessa, per cui se siete esperti non avrete nessun problema a trovare un campo o un altro spiazzo erboso abbastanza vasto per atterrare senza fare danni.
In secondo luogo., anche se non sapete pilotare un aereo non c’è problema, perché quello che vi ho descritto ovviamente è solo un sogno. Per essere precisi, è il sogno che ho fatto stanotte.»

Serena Martini, di anni quarantacinque, non è retribuita per il lavoro che costantemente svolge. Ha due figli, Pietro, tredicenne che studia violoncello e Martino, di anni dieci, che si allena con lo judo. Il marito con cui è coniugata da ben due decenni, insegna all’Università ed è ordinario di Intelligenza Artificiale e Informatica. Serena è laureata ed è esperta di chimica sopramolecolare dei metalli, ha un ottimo olfatto e si barcamena tra la scelta di un lavoro a tempo pieno o meno viste le varie incombenze. Ed è proprio in una domenica come tante che ella scopre per caso un cadavere. Scoperta, questa, che cambierà particolarmente le carte in tavola.
Come di consueto Serena si diletta nella camminata con Giulia e Debora. Sulla strada di casa si accorge di aver perso le chiavi e decide di tornare indietro per vedere se le rinviene sullo stradone. Come spesso accade in questi frangenti, la vescica fa i capricci e lo stimolo del fare la pipì non è controllabile. Si inoltra appena appena nel boschetto ed è qui che vede il corpo di un uomo senza vita. Due gli odori che percepisce: polvere da sparo e acidemia isovalerica. Ma chi potrebbe aver sparato al cinquantaquattrenne Luigi Caroselli, professore pro tempore della cattedra musicale della scuola privata Della Casa di Procura Missionaria? Un uomo solo, appartato, senza famiglia, amante della natura, colto, clavicembalista ma anche decisamente un discreto rompiscatole. È un personaggio, inoltre, noto per il contesto sociale in quanto la scuola in questione è l’unica del posto ed è frequentata anche dai figli di Serena stessa.
Del caso viene investita la gigantessa – un metro e novantuno centimetri dai capelli biondi e gli occhi grigi orlati di verde, non sposata, non madre, non fidanzata, Ana Corinna Stelea. Con il cipiglio e rigore giuridico che le appartiene arriverà ad intendersi alla perfezione con Serena. Sarà sufficiente superare quelle prime e piccole diffidenze che accompagnano l’incontro con una persona che ancora non siamo riusciti a inquadrare nei suoi connotati.

«Sapete come si allena l’olfatto? È una cosa curiosa, lo si fa sfruttando il vero superpotere del cervello umano: la capacità di astrazione. Di immaginarti cose che non ci sono.»

Samantha Bruzzone, chimica, e Marco Malvaldi, chimico, sposati da due decenni, appassionati di gialli e delle parole, scrivono e firmano a quattro mani “Chi si ferma è perduto”, opera che conduce i lettori tra le maglie di una nuova ed eclettica protagonista. È il primo loro romanzo a quattro mani ma certamente non sarà l’ultimo. Giocano tra fiction e non fiction, tra letteratura e cinema, tra chimica e giallo. Anche la voce narrante prevalentemente è nella prima persona di Serena ma con intervalli alla terza nei capitoli su Corinna.
Non mancano acrobazie, digressioni, lati comici e paradossali ma anche riflessioni sottese. Perché la vita toglie e la vita offre, la vita fa cadere ma ti invita anche a rialzare. Non mancano le riflessioni sulla famiglia, il legame con i figli ed anche le pillole scientifiche che sanno anche fondersi con la cucina.
Il risultato è quello di un romanzo gradevole, non particolarmente impegnativo ma al tempo stesso curioso. Il lettore è trattenuto dalla verve ironica e pungente, dal giallo ma anche dalla conoscenza di questo nuovo volto delle opere del neo duo.

«Ecco, in quel momento avevo esattamente lo stesso problema. Avevo sentito quell’odore, forte e persistente, in un punto dove non doveva esserci? Sì. Significava quello che mi ero messa in testa? Boh. A quel punto lì, non lo sapevo più. Anzi, man mano che camminavo, me ne convincevo sempre meno.»

L'isola delle anime - Piergiorgio Pulixi

«Non appena aveva messo piede in quella terra ancestrale, circondata dal mare, il canto del male si era però attenuato, come se la natura stessa se ne fosse fatta carico per lei soffocando la propria melodia.»

Purtroppo non tutti i crimini riescono a trovare una loro soluzione. Al contrario. Ci sono casi, e non sono pochi, che per una ragione o per un’altra, restano privi di colpevole e finiscono con il diventare dei veri e propri cold case. Inchieste che non trovano soluzione, che lasciano le persone care senza un perché, che mettono a dura prova i migliori detective del settore che per quante indagini facciano, non trovano minimamente soluzione a quell’enigma che li ha accompagnati. Tuttavia, alcuni casi, possono anche diventare un’ossessione e questo lo scopriranno molto bene, e anche troppo presto, le ispettrici Mara Rais ed Eva Croce. Quasi per caso indagano su misteriosi omicidi di giovani donne e rimasti irrisolti. Ma se quei casi non fossero poi così relegati al passato? Se in realtà quei casi fossero presente? Se fossero tornati a essere vivi? Se il killer fosse tornato a mietere vittime? Se non avesse mai smesso?
L’una milanese, l’altra cagliaritana, arrivano per strade diverse alla sezione “delitti insoluti” della questura di Cagliari. Entrambe si portano dietro un dolore da elaborare e da espiare, entrambe devono maturarlo e farlo proprio. Ma Eva e Mara sono chiamate, in quella Sardegna evocativa e profonda, a investigare sulla morte di Dolores Murgia, donna brutalmente e barbaramente uccisa che viene ritrovata in un sito nuragico. Il crimine è legato al culto della Dea Madre e questo introduce per il lettore un binario parallelo che rimanda a leggenda, tradizione, mito. Accanto alle figure femminili vi è l’ispettore capo Moreno Barrali, in pensione. Due gli omicidi irrisolti che si porta dietro come una spada di Damocle e che ne rappresentano la più grande ossessione.

«Il male non sanato genera altro male, in una spirale infinita.»

A una trama studiata e cadenzata si somma uno stile narrativo caratterizzato da un alternarsi di voci narranti che si snodano tra miti e leggende che ben si coniugano con quello che è il noir e il crimine da risolvere. Un binario parallelo interessante anche se alle volte tende ad essere eccessivo per il lettore tanto da far perdere, in parte, di interesse e pathos.
Il risultato è quello di un thriller elegante, abbastanza solido che sa omaggiare la terra d’origine dello scrittore stesso. I personaggi sono a loro volta ben delineati e credibili per chi legge che non fatica a lasciarsi trasportare. L’attenzione è rivolta in particolare anche a quel che riguarda la scelta stilistica del gergo dialettale, mai volgare ma sempre molto ricercato. Ampio spazio è lasciato alla sociologia e all’antropologia di questa terra che spesso oscilla tra presente e passato. Forse non originalissima la trama e presenti i dovuti cliché, ma nel complesso è uno scritto godibile per gli amanti del genere.

Un colpo al cuore - Piergiorgio Pulixi

In un “Colpo al cuore” Piergiorgio Pulixi dona ai suoi lettori uno scritto composto da tre voci narranti: il vicequestore Vito Strega e le due ispettrici, già conosciute ne “L’isola delle anime”, Mara Rais, dura, dai modi bruschi e impulsiva, ed Eva Croce, dall’acutezza ben mixata al riserbo. Le due donne, in particolare, di origini diverse, l’una milanese e l’altra sarda, hanno tra queste pagine un ruolo ancora più coinvolgente e fatto di emozioni che diventano ancora più tangibili nello scorrimento di vicende che le mettono a dura prova.
Vito Strega, dal suo canto, è un uomo affascinante e dalla corporatura possente e da sempre attratto anche dal male. Caratteristiche, queste, che non lo rendono inosservato al passaggio e che lo portano anche al non riuscire a mimetizzare la sua brillantezza nell’investigazione. Dal passato tormentato, criminologo, da vicende personali che non sembrano volerlo lasciare in pace, da un lavoro che lo spreme fino al midollo per quanto sia acuto e perspicace, è una figura emotiva, dal suo canto fragile, preda e vittima di se stessa.
Lo stesso relazionarsi con il mondo di “fuori” è per lui difficoltoso. Il suo loft è il luogo in cui ritirarsi e star bene, lui, i suoi spazi, la gatta nera decisamente gelosa ma anche rispettosa degli spazi, non invadente e a sua volta acuta. Le confidenze sono invece riservate a una ragazzina, adolescente, che altro non è che una vicina.
“Occhio per occhio, dente per dente”. È questa la filosofia che muove il serial killer ideato da Piergiorgio Pulixi, un serial killer molto particolare che ha deciso di riparare ai torti della giustizia. Se non ci pensa la legge a risolvere e condannare il colpevole individuato, sopraggiunge lui. Lui e la sua maschera dai tratti demoniaci, lui e quel video con cui rende il destinatario egli stesso complice. Perché con votazioni anonime il destinatario esprimere il suo giudizio, nessuno lo saprà ma alla fine il risultato finale sarà una punizione e una tortura senza possibilità d’appello per il colpevole. Ma è concepibile individuare una vendetta alla Dantès?
Il tutto tra la Sardegna e Milano, in un perfetto mixarsi di colpi di scena e situazioni al limite. Al tutto si somma uno stile narrativo fluido, ben ritmato, una trama ben costruita e solida che coinvolge e trattiene.
Nella creazione del pathos, nel coinvolgimento emotivo, nella denuncia verso retroscena di un vivere fatto di apparenze e di una giustizia terrena che spesso è disattesa e lascia posto ed adito a una giustizia individuale e crudele dell’uomo detentore del presunto vero e giusto.
Un libro che gioca anche con la musica, basti pensare al titolo omonimo di Mina, che ben trattiene e incuriosisce, con qualche cliché ma nel complesso piacevole.

La mia bottiglia per l'oceano - Michel Bussi

«Qual è secondo voi il miglior inizio possibile per un romanzo?” “ Un morto!” risponde senza esitare la comandante Faréyene. “Ci sei andata vicina” esclama contento il professore di scrittura (…) Meglio di un cadavere è nessun cadavere! Solo una sparizione.»

Michel Bussi, scrittore francese eclettico e dal gran talento narrativo, torna in libreria ancora una volta con un romanzo molto originale edito per Edizioni E/O e che riprende in mano niente meno che un famoso giallo di Agatha Christie. Il tutto tra cibi esotici, veleni, luoghi, cimiteri abbandonati, inseguimenti nella giungla, testamenti e chi più ne ha, più ne metta.
Caratteristica pregnante del giallista francese è la capacità di ambientare romanzi gialli particolarissimi in luoghi altrettanto variegati, il tutto mixando una trama avvincente con una buona dose di suspense.
Siamo nelle isole Marchesi, Hiva Oa, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. È qui, luogo ove è venuto a mancare Paul Gauguin, che si svolge una strana e insolita gara di scrittura. Pierre Yves François (PYF) indice qui un concorso ove cinque aspiranti scrittrici si dedicheranno alla scrittura al fine di redigere il loro romanzo e vedere decretare un vincitore. La vincitrice verrà pubblicata e otterrà la fama e la celebrità auspicata. Sarà nella pensione Au Soleil Redouté che egli organizzerà il laboratorio di scrittura a cui partecipano le cinque donne: Clémence, trentenne e sportiva, sognatrice, immaginifica ma anche espansiva, Eloise, coetanea, malinconica, diametralmente opposta e introversa, Faréyne, quarantenne, comandante di commissariato a Parigi e fissata con lo scrivere, accompagnata dal marito Yann, capitano di gendarmeria, Marie Ambre, quarantenne, benestante, tendente al bere, accompagnata dalla figlia sedicenne Maima e Martine, settantenne, blogger di grande successo, amante della scrittura e oltre quarantamila follower.
Tuttavia la vita è imprevedibile e molto spesso non va come vorremmo. Lo stesso sarà per Marie-Ambre, Clémence, Eloise, Martine, Farèyne, le cinque prescelte, che si ritroveranno davanti a indagini che le condurranno sino a un epilogo che porterà alla rivelazione di una inaspettata realtà. Eh sì, perché a distanza di poche ore dal loro arrivo PYF sparirà nel nulla, non lasciando nessuna traccia se non i suoi vestiti piegati su uno scoglio e un sasso con degli strani simboli tatuati. Ed ancora, quale sarà il vero significato delle 5 statue scolpite che verranno rinvenute nei pressi dell’hotel dove soggiornano le cinque aspiranti scrittrici? La sparizione dell’uomo sarà solo l’inizio di una serie di misteri che si susseguiranno tra scomparse ma anche misteriose morti.

«Le Marchesi si odiano o si amano, disgustano o incantano. Alcuni le considerano uno degli ultimi paradisi terrestri, altri le vedono come il giardino maledetto del Tiaporo, il diavolo della Polinesia.»

Tra tatuaggi e tatuatori, statue votive e tiki che rimandano a riti misteriosi, ciottoli abbandonati e testamenti, il tutto per una perfetta e ben riuscita parodia de “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. A far da filo conduttore il desiderio di amare, essere amati e il successo letterario, un successo talmente ambito da andare oltre ogni prezzo e scrupolo.
Tra le pecche dell’opera vi è quella di una trama che nel suo voler essere più complessa e misteriosa rischia di finire con l’essere un poco più farraginosa da seguire tanto da far perdere di intensità e ritmo alla narrazione. A ciò si aggiunga anche l’uso di termini della cultura locale che non sempre rendono agevole la lettura.
Tra i pregi il chiaro ed inequivocabile omaggio a una delle scrittrici regine del giallo più affascinanti di sempre. Una di quelle scrittrici che non ci si stanca mai di leggere e che ogni volta che vengono lette riservano sorprese, colpi di scena e riflessioni.
Un libro godibile, all’altezza delle aspettative anche se non tra i migliori dell’autore a causa del suo tendere a perdersi in una densità talvolta controproducente.

Un cuore nero inchiostro - Robert Galbraith [i.e. J. K. Rowling]

14 settembre 2011. Josh Blay ed Edie Ledwell non sono ancora consapevoli del successo della loro idea. Tutto è nato in un cimitero, dalla passione per il disegno e l’arte, dal legame amoroso e sentimentale. “Un cuore nero inchiostro” è approdato su YouTube e nessuno si sarebbe mai aspettato cotanto riscontro mediatico, nemmeno, appunto, i creatori. I fan si moltiplicano, nasce anche un gioco ispirato alla saga chiamato “Il gioco di Drek”. Il fandom è entusiasta ma al tempo stesso non perdona. Non perdona l’approdo a YouTube, non perdona Edie. Se Josh è visto come un idolo nonostante la vera mente e motore tra i due sia la donna, è Edie ad essere dipinta come un mostro ingordo di fama e denaro. Da qui partono i soprannomi quali IngordEdie, Edie Contaballe, Edie Mangiatutto e chi più ne ha, più ne metta. Anomia, uno dei moderatori nonché co-fondatore insieme a Morehouse del gioco, non ammette errori. Non le concede possibilità di perdono. È mosso da un astio incontrollabile, sa tutto, ogni mossa e segreto del passato e presente della donna. Anomia che non rimanda tanto ad anonimo quanto a mancanza di normali standard sociali ed etici. Ogni occasione è buona per darle contro e scagliarsi contro di lei. Quattro anni. Quattro lunghi anni di continui attacchi a Edie.
Anno 2015. Cormoran Strike e Robin sono al Ritz. La serata ha preso una piega completamente inaspettata, una piega che potrebbe incidere sul futuro del duo. I casi però sono tanti e questo permette ad entrambi di “far finta di niente” e rimandare il discorso a data da destinarsi. Quando Edie Ledwell bussa alla porta dell’agenzia è una donna esausta, provata dagli anni di oppressione di Anomia, desiderosa di fermarlo e di conoscere la verità. Ha tentato il suicidio, è vero, ma adesso vuole provare a riprendersi la sua vita e a toglierla dalle mani del fandom. L’agenzia non può però aiutarla, non sono esperti di crimini informatici e scoprire chi è Anomia è quasi impossibile per chi non è del settore. Questa, almeno, la risposta di Robin che vede sul collo della donna dei lividi. Tuttavia, qualcosa cambia nel corso della vicenda perché poco dopo l’incontro con Robin la coppia viene ferita. Un grave doppio accoltellamento avvenuto nel cimitero di Highgate che ferisce a morte Edie Ledwell, di anni 30, e Josh Blay, di anni 25, sopravvissuto ma con gravi lesioni e paralisi conseguenti. Ma chi potrebbe essersi macchiato di questo reato? Sembra che le vittime siano state colpite da un taser e poi accoltellate alle spalle. Adesso non si tratta più di un crimine informatico e nonostante le indagini siano svolte dalle autorità vengono investiti del caso anche Cormoran, Robin e tutta la loro squadra al fine di scoprire chi sia Anomia e, se possibile, far anche giustizia. I sospetti di Scotland Yard, ad ogni modo, vertono tutti su un’organizzazione di estrema destra con finalità terroristiche e ideologie razziali.

«Era in momenti come quello che a Robin riusciva difficile rimanere arrabbiata con Cormoran Strike, per quanto irritante lui potesse essere in genere.»

Robert Galbtraith, alias J.K. Rowling, dona ai suoi lettori un romanzo stratificato, complesso, arguto. Un libro caratterizzato da molteplici tasselli che prendono forma e campo. Nulla è dato per scontato e nulla è come appare. Pagina dopo pagina il lettore viene travolto in un caso sempre più arzigogolato che porta, nel vero senso della parola, ad aprire un vaso di Pandora.
Al tutto si somma una prosa pulita, limpida, accattivante, mai prolissa. E non deve spaventare nemmeno la mole, il romanzo è godibilissimo e rappresenta un perfetto giallo all’inglese, con i giusti tempi e il ritmo mai troppo lento, mai troppo veloce. Qualche novità sul fronte sentimentale ma non quelle che molti lettori auspicherebbero, anzi. Vi è una maggiore presa di consapevolezza ma a far la differenza è il giallo. Un giallo che muove nell’attualità facendo riflettere sulla forza dei social e il loro impatto nel mondo circostante, sulla forza della parola del singolo se comunicata con i giusti mezzi sulla massa, l’effetto boomerang di quel che diventa virale, l’ossessione, la persecuzione anche mediatica, la vendetta e poi vi è il crimine, il crimine che esce dallo schermo e diventa concreto e reale. Il sangue che macchia il gioco che non è più solo questo. Ed ancora vi è la riflessione dettata da tutto quel che consegue anche il celarsi dietro uno schermo, l’accettarsi, il vivere con le proprie ossessioni, paure, deficienze. Il crearsi uno specchio, una maschera, in cui essere quel che non si è. Indossare i panni di quel che vorremmo essere, di un mito che non siamo ma che è esente da tutte le nostre paure e i nostri limiti fisici e psichici. Queste e molte altre sono le riflessioni che vengono suscitate da queste pagine.
Infine, ma non per importanza, la struttura del testo: dal prologo sino alla conclusione, anche l’impaginazione è espressione di attualità e riporta anche circostanze e dati che molti di noi hanno vissuto nella dimensione del web con maggiori o minori interazioni social e non. Questo rende ancora più corposo e veritiero il componimento.
L’attenzione non cala, la curiosità è tanta, il desiderio di conoscere chi è Anomia e chi ha ucciso Edie, ferito Josh, attuato il meccanismo complesso che si cela dietro i delitti, è insaziabile e il lettore, come in un perfetto rompicapo, si cala nei panni di Cormoran e Strike e prova a individuare egli stesso il colpevole. Perché i reati che si delineano sono su più piani ma sono veramente tante le dimensioni e i multilivelli di analisi che vengono descritti.
In conclusione, un altro godibilissimo capitolo delle avventure di due personaggi che si fanno sempre più apprezzare e che leggere è sempre un’attesa che poi viene ripagata. Uno di quei libri che il conoscitore si gode battuta dopo battuta e che desidererebbe non finissero mai. A quando il prossimo J. K. Rowling/Galbtraith?

«Robin ebbe l’impressione che fosse così assorto nei suoi pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stavano facendo.»

Giura - Stefano Benni

«Giura che non mi dimenticherai. Giura su ogni scrigno di noce, e su ogni chicco di uva e grillo nascosto e stella del firmamento. Giura per il fiato che manca quando ci tuffiamo nella paglia, giù per dieci metri dal granaio, e dopo tanti voli siamo un po’ pesti ma felici.»

Protagonista di questo nuovo romanzo a firma Stefano Benni è Febo, adolescente di appena tredici anni che vive in un borgo sull’Appennino insieme ai nonni. All’ombra dei Castagni Gemelli tante leggende si susseguono, alcune paurosissime, altre di grande umanità e intensità. Tanti sono i personaggi che si susseguono che vanno da Slim e i sette fratelli di Carta a Zanza passando per Bue e il padre Chicco, ma tra tutti è lei ad essere la vera co-protagonista: Luna. Luna che vive con ‘Ca Strega, Luna che è selvaggia, Luna che è muta o forse muta non è ma dalla sua bocca non proferiscono mai parole, Luna che in uno di quei tanti lanci sulla paglia cade male e si ferisce alla schiena restando costretta su una sedia a rotelle. E anche se a poco a poco sente nuovamente i suoi piedi e anche se a poco a poco quella sensibilità arriva, non ne fa parola con l’amico di sempre. Poi, il mutamento, il rinnovamento, poi una profezia in un pomeriggio dei tanti su una mano di ferro. I destini che si separano, le strade che si allontanano per incroci e sentieri diversamente percorsi.

Luna si risveglia in un istituto di suore in cui potrà recuperare la voce grazie al dottor Mangiafuoco, Febo si ritrova in città dove porta avanti i suoi studi.
Passano gli anni, si susseguono gli avvenimenti. I due eroi sono separati eppure legati da un filo invisibile che li riporterà a ritrovarsi e riperdersi in un continuo di incontri preceduti da una separazione obbligata che mai risparmia, nemmeno quando, quell’unica volta, pensano di poter invece davvero restare insieme.

«Anche perché mi piaceva andare al fiume a pescare. E non è vero che è una cosa diversa, perché un amo in bocca fa male, e non è vero che i pesci non soffrono perché sono muti, come mi facevi capire tu Luna, quando ti mostravo le mie prede.»

Si ritrovano adulti, si rincontrano. Lei in quel del gelo nordico, lui in quel del caldo tropicale. Ancora una volta agli antipodi. Lui che ha fatto della passione per l’ecologia il suo lavoro e che adesso è padre, lei che ha fatto della sua assenza di voce la voce di altri dedicando la sua esistenza all’aiuto del prossimo, all’insegnare la lingua dei segni a chi non ha altri strumenti. Si ritroveranno per quell’ultima separazione che incombe e che non risparmia.

«Ma non scriverò più. Sognerò, piuttosto. Sogno e ti vedo mentre con aria di sfida mi dici “vedi, vado a testa alta, più in alto di tutti”. E il ramo cede e caschi dal fico. E io ragazza muta vengo a chiederti con i segni: ti sei fatto male? Poi ti aiuto a rialzarti, e ce ne andiamo. Dove? In quale pianeta? In nessun altro pianeta. Qui. È qui che siamo stati un po’ felici.»

Con “Giura” il lettore è partecipe di un romanzo in cui tutte le caratteristiche e tematiche tipiche dell’autore non vengono a mancare. Se già conoscete e amate la sua penna vi sentirete a casa. Non mancheranno luoghi e situazioni surreali avvalorati da quel giusto tocco di ironia e malinconicità, di brio e di nostalgia, di profezia e di fato, di destino e di vita. Il tutto in un caleidoscopio di personaggi che colorano le pagine con le loro variopinte sfumature e peculiarità. Il tutto in un mix di circostanze che, tra un tono leggero e l’altro, affrontano anche problematiche attuali e vicine a ogni uomo. Se al contrario non amate lo stile narrativo dello scrittore e non siete avvezzi a scritti caratterizzati da irreale e oniricità sarà un po’ più faticoso entrare nelle pagine, diventarne davvero partecipi, farle proprie.
Immaginario, visionario, fondato su quel filamento invisibile che unisce anime talvolta parallele.

«I due giganti erano felici di essere morti insieme. Ma anche se noi eravamo insieme e abbracciati, lo sapevamo. Ci avevano diviso, ancora una volta.»

L'osso del cuore - Valentina Santini

«Perché sei entrata nell’osso del cuore e non mi riesce levarti più.
Il cuore non ce l’ha l’osso.
Il mio sì.»

Il suo nome è Asma e cerca la sua mamma. Sa che da un giorno all’altro arriverà anche lei, che la riconoscerà subito perché forse è così che si riconoscono le persone. Dalle menomazioni, dalle mancanze. E lei con la sua mano vizza e menomata lo sa molto bene. Crede anche di riconoscerla quando quel giorno la vede arrivare. È lei, non può che essere lei. Non deve che essere lei. È come lei. Uguale in tutto, anche nelle ferite fisiche oltre che nell’anima. È condotta da lui, Esodo. Colui che per molti altri non è che un galoppino, un servo della dittatura. Eppure Esodo, quando vede la bambina che Asma è, sa che deve salvarla. La scuote, le scatena dentro quel tornare a voler vivere che ancora esiste in lui, a differenza e disappunto di tutto quel che poteva pensare o sperare.
È il 1976 e siamo dentro Casa Libertà, una comune, dove tutto è ammesso e dove si svolgono e celebrano atti di dubbia moralità e ancor meno legalità. Perché tutto è ammesso dal bene superiore, anche la punizione per il misfatto compiuto. Non ci sono limiti a quelle che sono le punizioni, i peccati da estirpare per le proprie colpe. Asma non è mai uscita da Casa Libertà, è una bambina all’inizio del romanzo. Quando incontra Laura crede davvero di aver trovato una madre per lei, mai però avrebbe pensato di incontrare anche lui. La realtà dei fatti è così diversa da quel che pensiamo, in questa Italia del 1976 in cui tutto è schiavo di una dittatura, un regime militare che si è imposto sul paese. E ancora, c’è l’arte. Una arte che emerge nella seconda parte dello scritto quando tra passato e presente la storia si ricompone, i tasselli del puzzle iniziano a combaciare, i volti a esistere in modo più concreto e uniforme.

«Ero capovolto. Il fare di Asma mi rifletteva come il pelo dell’acqua, mentre a me non era mai riuscito vedermi per bene nemmeno allo specchio. Questa consapevolezza divenne lampante: Asma era una cosa mia. Una bimba, il fine di tutto. Da diventarci matti.»

Romanzo d’esordio di Valentina Santini è “L’osso del cuore”, scritto edito dalla casa editrice E/O che fa il suo ingresso in libreria in questo trascorso mese di giugno. E quello di Valentina è un esordio davvero degno di nota. Uno scritto forte, emotivo, empatico e che non poteva che essere narrato così. Nulla risparmia Valentina ai suoi personaggi, né nella prima parte, né nella seconda. Solo e soltanto con questo stile e con questa vividezza l’opera avrebbe potuto rendere la sua componente emotiva, solo così essa sarebbe potuta davvero arrivare a quel lettore che, battuta dopo battuta, è trattenuto e rapito dalla storia ma anche colpito e segnato da questa. Uno scritto veramente bello, uno di quei libri che leggi per curiosità, perché intrigato dalla trama e che invece rappresentano un gioiello da non perdere. Che resta, che segna, che marchia il cuore, che coinvolge e fa riflettere. Una grande e potente storia d’amore e non solo.

«Pagine piene di scrittura per capire che la versione alternativa non esiste. I fatti sono conseguenze di azioni, di scelte. Avevo deciso. Stabilito eventi dall’inizio, senza saperlo»

L'orologiaio di Everton - Georges Simenon

«Del resto, non si trattava di controllo, Ben lo sapeva. Se a volte suo padre faceva in modo di vederlo, non era certo per sindacare il suo comportamento, ma solo per il piacere di un contatto, sia pure a distanza.»

C’è una strana quiete in quel di Everton, una cittadina scandita dal ritmo della quotidianità, di una vita fatta di bicchieri di latte bevuti a casa di donne che si occupano della prole e mariti che si dilettano tra i locali e i boccali di vino e birra. Una quiete che nasconde una strana forma di tenerezza che, a sua volta, è emblema e simbolo di “una quiete prima della tempesta”, di una quiete che si mixa a dolcezza. Sembra quasi un paradosso nel paradosso. Ben è solo un bambino di pochi mesi, profuma di latte e pane appena sfornato. Il padre, Dave Galloway, si ritrova solo con lui. La moglie se ne è andata. Non una riga, non una parola. Tanti piccoli fogli accartocciati e strappati con tanti piccoli grandi tentativi di scrivere di un messaggio forse d’addio, forse di commiato, forse di derisione. Una donna dal profumo e dalle scarpe volgari, scelta appositamente per questo. Una piccola sfida per Dave ma anche il suo personalissimo atto di ribellione contro il sistema. Che fare adesso? Per Dave conta solo la felicità del figlio e a questo si dedica interamente. Senza nulla mai mettere innanzi a lui. Ben prima di tutto. Come stai Ben? Sei felice Ben? “Sì, Dad”, rispondeva solennemente questi. Un bravo ragazzo, un giovane uomo cresciuto con un padre forse troppo silenzioso ma pur sempre un padre. Un bravo ragazzo che anche a scuola sapeva cavarsela. Sono passati quindici anni e Dave è adesso spiazzato. È un sabato sera. A differenza del precedente in cui era raffreddato e non era uscito, sta tornando da casa di Musak. C’è silenzio, troppo silenzio. Ben presto si accorge che manca anche il suo furgone, quello di seconda mano acquistato appositamente per i piccoli spostamenti del suo lavoro di orologiaio. Ben già sapeva guidarlo seppur non disponesse ancora di una vera e propria patente di guida. Eppure è Ben ad averlo preso, pare, da quel che viene ad apprendere da una famiglia vicina, per una fuga d’amore. E se non si fosse trattata solo di una fuga d’amore? Se quel figlio cresciuto affinché fosse felice si rivelasse un assassino? Un giovane uomo capace di togliere la vita ad altri e senza nemmeno pentirsene? Chi è davvero Ben? Quali e quante risposte dare a quei giornalisti che cercano lo scoop e che interrogano il padre con domande alle quali egli stesso fatica a rispondere perché forse conscio del fatto che quel figlio non lo conosce davvero?

«Ma Dave ascoltava? Gli pareva che le parole non fossero più parole, ma immagini che gli passavano davanti agli occhi come una pellicola a colori. Non avrebbe saputo ripetere una sola frase, eppure aveva l’impressione di aver seguito i movimenti di ciascuno dei personaggi citati.»

Ancora una volta Simenon propone ai suoi lettori un’indagine psicologica forte, profonda, mai lasciata al caso. Un’indagine accompagnata da un ritmo narrativo ben cadenzato, mai troppo rapido, mai troppo lento. Anzi. Siamo davanti a un libro in cui personaggi ordinari vengono strappati a una vita che credono essere la loro per essere condotti sull’orlo del baratro, un baratro che non consente ammissioni, scuse, scusanti, eccezioni. Si tratta di un rapporto causa-effetto. Il figlio ha commesso un reato di cui non sembra essersi pentito, anzi, sembra andarne fiero. Il padre, dal suo canto, non abbandona quel figlio che è appunto carne della sua carne. Prima cerca di analizzare e comprendere, è destabilizzato, risponde ai giornalisti e alla polizia quasi come se fosse in uno stato di nebbia e confusione, dopo cerca di seguirne le orme, il figlio è pur sempre inseguito dalle forze dell’ordine di sei Stati e dall’FBI, inoltre, scopre anche rifiutarsi di volerlo vedere. All’inizio cerca anche di giustificarne il perché poi prende consapevolezza del dato e del fatto.
Ed è qui che il confine psicologico è ancor più approfondito. Simenon ci fa dubitare di chi conosciamo, insinua in noi il dubbio di non conoscere davvero chi abbiamo accanto, anche nel caso di nostro figlio. Ci fa riflettere sul come e quanto talvolta pensiamo di comprendere e capire una persona per poi ritrovarci davanti a un’altra verità. A ciò si aggiunge la non spiegazione: il gesto di Ben non è mai spiegato, il padre a sua volta non si pone domande, non cerca risposte se non nell’affermazione di un atto di ribellione che accomuna nonno, padre e figlio in una dicotomia fatta di vivere o sopravvivere, in una realtà in cui quell’unico atto di rivolta, di uscire dagli schemi può essere “letale”. Come nel caso del nonno che sempre pagherà per quell’unica scappatella, o del padre che ha tentato la sua ribellione scommettendo su una donna che chiaramente non era adatta a lui. Ma non vi è ricerca di movente, non vi è ricostruzione dei perché. Non vi sono risposte. Forse perché in una condizione di completa apatia, non dialogo, l’unica soluzione è l’auto-annientamento. Per quanto incomprensibile o indescrivibile.
“L’orologiaio di Everton” ci presenta un Simenon che ci mostra la difficoltà del vivere, la ricerca di una redenzione nel sordido, l’incapacità di scegliere, la difficoltà dell’esistere. È un Simenon che narra dell’amore di un padre per un figlio, del suo dolore per la consapevolezza di non conoscere quella prole che voleva solo sapere felice e per la quale ha fatto tutto il possibile, di una verità e realtà sincera quanto spietata. Questo anche nella conclusione dove a permeare non è più quel senso di tenerezza che può accompagnare nella narrazione per mezzo di questo personaggio che non si giustifica ma che si sente vicino, quanto, invece, la solitudine. Una solutine che se precedentemente aleggia, adesso è completa e totale padrona della scena. Ma nella solitudine può esservi ancora una speranza di contatto, legame, nuovo inizio?

«Lo sguardo dei tre uomini non tradiva forse una stessa vita segreta, o meglio, una vita che aveva dovuto ripiegarsi su se stessa? Sguardo di esseri timidi, quasi rassegnati, mentre l’identica smorfia del labbro indicava una ribellione repressa. Erano tutti e tre della stessa razza, una razza opposta a quella di un Lane o un Musselman, o di sua madre. Gli pareva che in tutto il mondo non ci fossero che due tipi di uomini, quelli che chinano la testa e gli altri.»

L' ombrello dell'imperatore - Romanzo di Tommaso Scotti

«È a dir poco curioso come, a volte, il destino ci leghi nella maniera più strana. In questo caso, tramite un ombrello.»

A prima vista non è altro che un anonimo oggetto realizzato con cura e dedizione per il dettaglio, quella stessa cura e dedizione che è propria alla realtà nipponica. Eppure, è proprio quell’oggetto, quell’ombrello all’apparenza così innocuo a essere l’arma del delitto utilizzata per determinare la morte di Yuki Funagawa, nato il 2 dicembre 1986. È un particolare insolito, quell’ombrello. Uno di quelli con la copertura in plastica trasparente, un modello molto comune, di taglia grande, con le stecche di una settantina di centimetri. Questo si trova chiuso sul pavimento accanto alla vittima, il bianco della punta è completamente nascosto dal sangue rappreso e da tracce di bulbo oculare destro del deceduto. Un comunissimo bene contraddistinto, per l’occhio più acuto dell’osservatore, soltanto da un puntino rosso, a prima vista un adesivo o un simbolo dipinto situato sul manico di plastica bianca. È questo dettaglio che colpisce l’ispettore Takeshi James Nishida della squadra Omicidi della Polizia di Tokyo e soprannominato Boss dai colleghi per quella grande dipendenza da caffeina in latina della omonima marca. Takeshi è un hafu ovvero un mezzosangue di madre americana e padre giapponese. È anche per questo condannato a non salirci ai piani alti; in Giappone vige la religione dei protocolli, religione di cui Nishida non è un seguace: egli appartiene alla strada. E Takeshi ha anche ereditato i tratti caratteriali della realtà occidentale, tratti che lo rendono spesso impulsivo, poco accomodante e disincantato verso quella dimensione che lo circonda e che lo vorrebbe esattamente al suo contrario.

«Negli ultimi vent’anni si era fatto un nome risolvendo casi complicati e mettendo dentro non pochi delinquenti, nonostante a volte per ottenere risultati avesse dovuto usare metodi poco ortodossi. Il che purtroppo, unito alla sua abitudine estremamente non giapponese di dire in faccia alla gente come la pensava, non andava molto a genio ai suoi superiori. Anzi, ai suoi superiori non andava a genio per niente.»

Bastano pochi rilievi per appurare che oltretutto quell’ombrello appartiene alla persona più impensabile: l’Imperatore. Ma com’è possibile? E a chi appartiene quell’altro piccolo tratto di impronta digitale che dalle analisi risulta essere presente sullo stesso? Per il Tommy Lee Jones che è Takeshi, che sovente è stato paragonato a questo personaggio stante i suoi tratti particolari che lo rendono molto avvenente, avrà inizio una indagine atta a cercare di scoprire la verità in quella che è una morte tutt’altro che chiara.
A far da sfondo una Tokyo che non dorme mai e che ci viene proposta in una serie di tinte e retroscena, luci e ombre, che per mezzo di un protagonista che per il suo sangue misto riesce a far da ponte, scopriamo in modo completamente diverso. Tra le pagine dell’opera, inoltre, oltre all’indagine verrà quindi ritratta una perfetta fotografia della società giapponese a cui si affiancherà anche la trattazione di una serie di tematiche molto attuali e a noi vicine che non anticipo essendo collegate alla risoluzione dell’enigma che ci accompagna nel giallo.

«L’ispettore ne aveva viste abbastanza da sapere che la più grande oscurità è spesso nascosta alla luce del sole, ma in quel caso gli risultava difficile credere di avere di fronte un assassino.»

Quello di Tommaso Scotti è un esordio molto interessante che propone al lettore un protagonista che entra subito nelle sue simpatie e che con rapidità coinvolge e trattiene. Il conoscitore è incuriosito dalle vicende, affascinato dalla cultura nipponica e da questa figura dai tratti fisici appena tratteggiati eppure così vivida nella mente per carattere e determinazione. L’opera è inoltre ben strutturata. Parte da presupposti ben elaborati e a questi ne aggiunge altrettanti che rendono la narrazione più stratificata e l’enigma più articolato da risolvere.
Lo stile è fluido, rapido, limpido. Accompagna per mano, conduce senza difficoltà.
Un esordio, “L’ombrello dell’imperatore” che ci presenta un autore che tornerà ancora a far parlare di sé, che non vedo l’ora di rileggere e che sarà un piacere approfondire ulteriormente.

«C’è la nostra anima qui dentro, ed è un’anima di acciaio. Questa vite è il nostro testamento imperituro in un mondo usa e getta.»

Malinverno - Domenico Dara

«Osserva sempre la gente con attenzione, Astolfo, fissa i particolari, che ognuno, la sua storia vera, non la porta stampata sulla faccia ma nascosta dentro pieghe invisibili della pelle.»
Astolfo Malinverno sin da quando ha memoria, ha memoria delle parole. Articolate dalla madre, narrate dalle voci, lette dai libri. Parole che sono balsamo per il cuore, moto per vivere la vita con quell’emozione mancata, sentimento, verità. Un po’ come lo stesso ricordo di quella madre che tenendolo stretto al petto oltre che a insegnargli ad ascoltare i battiti del cuore, gli insegnava a osservare le esistenze vicine e lontane. È nato con un difetto alla gamba, leggermente più corta, eppure, è proprio questo difetto che gli consente da adulto di diventare il bibliotecario di Timpamara e inaspettatamente, poi, anche il custode di quelle anime accomiatate nel suo cimitero.
«Con la bocca di mia madre che narrava e animava il mondo, come se il mondo esistesse solo nella parola e con la parola, conobbi la vita e imparai ad amare i racconti e a capire presto che uomini e libri narrano in fondo le stesse storie.»
Ed è dal momento in cui viene incaricato di prendersi cura anche di quel luogo ove sono custodite le spoglie mortali dei cari degli abitanti del paese, che la sua vita cambia. Seppur all’inizio egli prenda con confusione l’incarico attribuitogli, ne rimanga perplesso, sorpreso, stranito, di poi si rende conto che al contrario quel luogo è una casa esattamente come la biblioteca e che, come nelle più inaspettate delle sorprese, lo sente suo. È durante uno dei suoi giri di perlustrazione iniziali che l’occhio gli cade sulla tomba di una donna dai lineamenti magnetici, dall’assenza di alcun riferimento sulla nascita, la morte, il nome, le origini. Ella è un’anima che lo ha chiamato e da allora lui la chiamerà Emma come la Emma di “Madame Bovary” di Flaubert. I giorni passeranno tra sogno, immaginazione, desiderio di conoscere il vero e tanta introspezione perché Malinverno per mezzo di questa donna del ritratto comincerà a interrogarsi sul suo vissuto, sul suo essere, sui suoi legami. E tutta quella quotidianità ostinatamente e minuziosamente costruita negli anni verrà ulteriormente infranta da un’altra figura che subentrerà nella sua vita con un mistero a farle da cappotto.
«Ci sottovalutiamo. Pensiamo di non essere capaci di affrontare certi dolori ma poi, alla prova dei fatti, dai meandri inesplorati del nostro organismo emergono minute molecole di sopportazione che si mischiano alle piastrine del sangue e irrobustiscono il corpo e ci fanno sopravvivere, malgrado ogni tentazione di arrendevolezza, come se Natura sapesse quanti dolori può distribuire, conoscesse la portata d’ognuno e mandasse il dolore giusto, quello che colma le misure senza affondarle, che noi nemmeno sapevamo di essere così resistenti ma Natura sì, Natura sapeva.»
Ha inizio da questi brevi assunti l’ultimo lavoro di Domenico Dara, testo quello presentato, che è intriso di una malinconica dolcezza e che con grande sensibilità e semplicità ci porta a guardarci dentro, a porci a nostra volta delle domande. È un libro intriso anche di nostalgia ma anche di tanta umanità, una umanità che trasuda da ogni pagina per mezzo della voce non solo del protagonista ma anche per mezzo delle voci di tutti gli abitanti del paese. A far da cornice e a esser parte portante dello scritto è ancora la letteratura, prevalentemente – ma non esclusivamente – classica che passando dal Don Chisciotte a Moby Dick ricompone quello che è l’io di Astolfo. Quest’ultimo è un protagonista che naturalmente suscita empatia nel lettore, che entra nelle sue grazie, in parte per la sua sensibilità, dolcezza e gentilezza, in parte per la grande immedesimazione che suscita. Ancora, ad impreziosire vi è la curiosità di far luce sull’arcano, un arcano a mio modesto parere intuibile ma la cui intuibilità non inficia sul proseguimento della lettura perché a prevalere è il viaggio posto in essere dal lettore per mezzo della voce di Malinverno.
L’opera scorre tra le mani del conoscitore con ritmi diversi. Accelera, rallenta, accelera ancora. Scuote per quel carattere malinconico che la caratterizza, per quell’aspetto nostalgico di cui è impressa, arriva per quella dolcezza sottesa che l’accompagna eppure può suscitare due reazioni diverse in chi legge: può trattenerlo o può respingerlo. E questo a causa della prosa narrativa di cui è caratterizzato. Questo continuo riferimento alla letteratura è uno degli aspetti forti del titolo ma anche più deboli perché rischia di far perdere di vista quello che è il filone centrale della narrazione e rischia altresì di far scemare l’interesse che se all’inizio è onnipresente ed è mosso anche da questo carattere, a lungo andare ne risente, affaticando e appesantendo l’avventura. Ancora, a rischiare di respingere il lettore vi è il tema che viene trattato che non è dei più semplici e nemmeno dei più allegri. Se queste ambientazioni e queste argomentazioni non sono di vostro interesse, infatti, il volume non riuscirà a colpirvi.
Ultimo nemico è la logica. Logica e riscontro nella verità che può rendere fallace alcuni passaggi nodali dell’evoluzione delle vicende, soprattutto se nel corso della vita si è vissuto almeno una parte di quell’esperienza che è la realtà della separazione da un legame e la realtà cimiteriale. Ecco perché consiglio la lettura di “Malinverno” staccandosi dalla logica, staccandosi dal dato del vero a ogni costo.
“Malinverno” è una storia che va letta lasciandosi trasportare dalle parole, facendosi condurre per mano da Dara, senza porsi troppe domande e senza cercare troppe risposte. È un viaggio introspettivo e come tale va vissuto. E allora sì che arriverà con tutta la sua forza e tutto il suo contenuto. Viceversa, potrà subire delle battute d’arresto, essere vissuto come farraginoso.
Infine, lo stile. Domenico Dara è dotato di una prosa magnetica, evocativa, musicale. Incuriosisce, trascina, trattiene ma rischia anche di “andare fuori rotta” per le digressioni continue che possono portarlo a essere un po’ troppo prolisso. Il libro conta 329 pagine ma sarebbe arrivato anche con una cinquantina di queste in meno, o comunque con qualche piccolo taglio o limatura. Ciò rischia di renderlo un autore non per tutti. Cosa che non deve essere necessariamente considerata come un difetto, anzi.
Leggere “Malinverno” è una esperienza sensoriale. Lascia tanto e arriva durante la lettura ma soprattutto dopo questa, a distanza di tempo. Commuove, emoziona, palpita.
«Perché se il destino dei libri è morire come esseri viventi, anche gli uomini, quando smettono di respirare, non diventano che storie.»

Donne dell'anima mia - Isabel Allende

Con “Donne dell’anima mia” ripercorriamo il percorso di vita di Isabel Allende dai tempi dell’infanzia sino ai giorni nostri in particolare soffermandoci sul suo essere da sempre femminista. Ella, infatti, sin dalle prime battute di questo titolo di appena 174 pagine e capitoli brevi composti da un paio di pagine ciascuno, si afferma tale sin dall’asilo, sin dalla più tenera età e dunque in netta contrapposizione con quel machismo che le ruotava attorno. Un componimento, dunque, autobiografico e il cui tema è chiaro sin da subito, pertanto, se non siete lettori amanti di questa tematica, suddetto scritto non potrà solleticare particolarmente le vostre corde e le vostre curiosità anche perché non esente da cliché. Se al contrario siete amanti della problematica potrà essere un buono spunto per arricchire il vostro bagaglio o comunque per avvicinarvici.
La Allende non ci risparmia di confessioni, non ci risparmia di riflessioni. La sua penna è rapida, informale, diretta. La pillola non viene resa più indolore, l’anima è messa a nudo per quello che è e per quello che può offrire. Nel suo bene e nel suo male.
Ecco perché può dividere. “Donne dell’anima mia” è un volume dove la protagonista è Isabel Allende e il suo femminismo. Non c’è spazio per storie di tempi che furono o per una prosa poetica ed evocativa come nelle sue opere del passato più celebri e famose. Non è oggetto del lavoro proposto e del suo essere scritto. Quindi se questo cercate, ne resterete delusi.
Se viceversa cercate una biografia, un testo che non è altro che una confessione, un memoir dell’essere passato e presente, una sorta di vademecum di valore e principi in cui credere, una lettera a cuore aperto, ecco allora che farà per voi. Certamente questo non è il libro con cui cominciare a leggere l’autrice per conoscerla nell’aspetto di scrittrice. Buona lettura!

Un'amicizia

«Ma cos’è un’amicizia? Non avevo vincoli di sangue né giuridici, diritti e doveri, ero semplicemente lì con lei su quella panchina a franare. La abbraccia più forte che potevo. Le asciugai le lacrime, provai a contenere la sua disperazione mentre si ribellava […] tentai di rassicurarla, consapevole di mentire. Perché le parole a questo servono: a sperare, ingannare, abbellire e migliorare, ma la realtà è un’altra e se ne frega dei nostri desideri.»
Bea ed Elisa sono come il giorno e la notte, distanti e diverse, un universo parallelo che non si sa per quale gioco del destino o regola matematica violata, giungono a incrociare le loro strade e a vivere gli anni più intensi della loro vita insieme sino al sopraggiungere di quello che sappiamo già dalle prime pagine essere un punto di rottura che come le ha unite le porterà a separarsi.
Siamo a T una fatiscente cittadina di periferia situata in Toscana, nei pressi di Livorno, con vista panoramica sulle isole dell’arcipelago. Elisa è la straniera, la forestiera. È giunta da Biella con la madre e il fratello con sempre più gravi problemi di droga, per tornare a vivere con il padre che non vede se non in occasioni ben prefissate essendo i genitori separati. Non si ama, non spicca per bellezza nonostante i suoi capelli rossi e quelle lentiggini che le solcano il viso. È presa in giro dai compagni, sbeffeggiata. Vive di parole ed è grazie alle parole e alla biblioteca che vede per la prima volta Lorenzo, coetaneo compagno di liceo del quale si invaghisce. Ed è ancora tra le mura di questo complesso che il suo rapporto con Bea passa dall’essere quello di derisione a quello di amicizia. Lei che è la più bella, che è già famosa per i suoi servizi fotografici, che mai può permettersi di prendere un chilo o di avere un ricciolo libero da quella chioma rigorosamente piastrata, diventa la sua migliore amica.
Passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni. Siamo a cavallo degli anni duemila e con questi passano le vecchie abitudini del vecchio mondo e arrivano le nuove dettate da quella cosa chiamata internet ancora sconosciuta e perfino denigrata. Il padre di Elisa è un ingegnere e subito ne resta affascinato, ci si tuffa a capofitto e propone alle ragazze anche di aprire un blog. Erano tempi diversi, erano i primi spiragli di quello che sarebbe diventato il mondo e se Elisa è reticente, Bea ha già fiutato l’occasione e iniziato a perpetrare la sua strada. Si impone come la bella, viene denigrata e definitiva frivola per questo, eppure questo suo essere la porterà a fatturare 50 milioni di euro l’anno quando non sarà più Beatrice ma la Rossetti e di anni ne saranno passati quindici. Perché la Rossetti ci ha visto lungo e adesso tutto è cambiato, tutto ha uno spessore diverso. Anche la loro amicizia, un’amicizia che viene rivissuta per mezzo di diari di scuola e poi stesa su carta in un giorno con un altro in prossimità della Vigilia di Natale…
«Per quanto oggi possa suonare incredibile quando cominciarono a diffondersi i blog erano territorio di conquista non per quelle come Bea, ma per quelle come me. A chi navigava nel 2003 non fregava nulla di bellezza o di vestiti: erano aspiranti scrittori, oppure “amanti di qualcosa” come mio padre, che desideravano condividere la propria passione, persone in vena di esplorazioni e amicizie. L’imperativo era scoprire, non mostrarsi.»
Ma cosa ne è stato di Beatrice e di Elisa? Perché la loro amicizia è giunta alla fine? Cosa è successo? Silvia Avallone torna in libreria con “Un’amicizia”, opera che riporta l’attenzione del lettore a riflettere su un tempo che ormai ci sembra lontano anni luce ma che in realtà non lo è. Ci porta a guardarci indietro, a chiederci cosa è stato e cosa è, ci chiede di dare uno sguardo al nostro essere stati e al mondo che ci circonda. E ci chiede, ancora, se tutto questo, è davvero necessario, se una vita per essere vissuta ha davvero bisogno di essere raccontata.
Tanti sono i temi che affronta, senza paura e senza nulla risparmiare al conoscitore. C’è tanta filosofia, inoltre, tra queste pagine e c’è anche tanta introspezione. Lo stile narrativo è rapido, pungente, trattiene. Accelera per poi leggermente rallentare nella seconda parte quando è proprio la vicenda che ti chiede di diminuire la marcia della lettura per afferrare quei concetti, quei sottesi che chiedono di emergere tra le fila. La storia è interamente narrata da Elisa e il conoscitore è catapultato nella sua mente, nei suoi pensieri.
Un libro attuale, che chiede di essere letto, che parla di una storia che riguarda tutti noi e che semplicemente resta. Buona lettura!
«La vita ha davvero bisogno di essere raccontata, per esistere?»

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